Che cosa succede al mercato sovrano a stelle e strisce? Il Treasury a 10 anni offre un rendimento dell’1,94%, ai massimi dal luglio scorso. La scadenza a 2 anni rende l’1,68%, 26 punti base in meno, anche in questo caso segnalando uno spread ai massimi da luglio. Alla fine di agosto, il differenziale tra i due titoli risultava negativo, cioè il biennale superava come rendimento il decennale di 4 punti base, un fatto che gli analisti avevano accolto come la conferma di previsioni pessimistiche sull’economia americana a breve.

Tuttavia, da allora è accaduto che la curva dei rendimenti negli USA si sia gonfiata, ma perlopiù nella parte medio-lunga, tant’è che il Treasury a 10 anni offre 45 centesimi in più in appena due mesi e mezzo, quello a 2 anni solo 15 in più.

Nel frattempo, qualcosa di analogo si è verificato nell’Eurozona. Il Bund a 10 anni è salito nello stesso frangente dal –0,72%, record di tutti i tempi, al -0,27%. Anche in questo caso, il rendimento tedesco si è riportato ai livelli più alti dal luglio scorso. E così, lo spread Treasury-Bund a 10 anni si è mantenuto esattamente uguale a 221 punti base, in teoria implicando un tasso di apprezzamento del cambio euro-dollaro di circa il 22% entro il prossimo decennio.

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Fine dell’allentamento monetario USA?

Ma il fatto che il Treasury si deprezzi e che si allarghi lo spread tra parte lunga e parte corta della sua curva sarebbero chiari segnali che la direzione che il mercato obbligazionario starebbe prendendo sia diversa da quella immaginata fino a poche settimane fa. La risalita più veloce del decennale rispetto al biennale sconterebbe un rischio di inflazione a lungo termine stimato adesso superiore di qualche mese addietro, nonché la mancata attesa di nuovi tagli dei tassi. In effetti, il biennale si colloca esattamente nel range 1,50-1,75% fissato dalla Federal Reserve per il tasso di riferimento all’ultimo board di fine ottobre.

Sul taglio dei tassi la Fed si prende una pausa?

E anche stando ai dati di CME Group, il mercato non si aspetterebbe più alcun nuovo taglio dei tassi da qui a tutto il 2020. Se ciò è vero, significa anche che la politica monetaria della BCE risulterà nei prossimi mesi relativamente meno restrittiva di quanto si fosse immaginato in uno scenario di allentamento più spinto da parte della Fed. In altre parole, improbabili ulteriori stimoli monetari nell’Eurozona. Per questo, avendo già scontato il “quantitative easing” riattivato da questo mese, le obbligazioni sovrane nell’area stanno perdendo quota, facendo impennare i rendimenti.

Non è un caso che tutto questo stia avvenendo nelle stesse settimane in cui le tensioni commerciali USA-Cina si sono molto affievolite. Un accordo sarebbe vicino e già si è deciso il rinvio dell’escalation dei dazi, che avrebbe altrimenti preso il via. La stessa crescita dell’economia americana starebbe rallentando meno delle attese, allontanando lo spettro di un’imminente recessione. La paura, che aveva foraggiato gli acquisti di bond, sta parzialmente venendo meno. Se, poi, anche la Brexit dovesse realizzarsi con una forma di accordo con l’Unione Europea, i timori più cupi verrebbero fugati, accrescendo i rendimenti sovrani e corporate nell’area, la quale rimane esposta a una congiuntura internazionale avversa, unico fattore per il momento a giustificare una politica della BCE così accomodante e rendimenti negativi fino alle scadenze medio-lunghe.

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