Così aveva immaginato il suo congedo terreno:
“Perché non mi preparo alla fine ma ad un incontro poiché la morte apre alla vita, a quella eterna,
che non è un infinito doppione del tempo presente, ma qualcosa di completamente nuovo”.
Un gigante minuto.
È racchiusa tutta in questo ossimoro l’impressione che ebbi di Ratzinger la prima volta che lo incontrai.
Accadde nel secolo scorso a Palazzo Giustiniani, nello studio del presidente Andreotti:
ad un certo punto fece ingresso Patrizia Chilelli, la sua fedele assistente,
per annunciare la visita del cardinale Joseph Ratzinger, allora Prefetto per la Dottrina della Fede, il temuto Sant’Uffizio.
Andreotti, al solito, scattò come una molla dirigendosi verso la porta alla sinistra del salotto ed io appresso a lui, per uscire dalla stanza.
Elaborando in un attimo il nome, la nazionalità e il ruolo del porporato tedesco
e forse suggestionato dalla stampa che lo appellava come il ‘rottweiler bavarese’,
mi aspettavo di trovare dietro la porta una montagna d’uomo e, invece, mi si parò davanti
– in clergyman senza alcun segno cardinalizio se non un anello – una figura esile e delicata con un sorriso disarmante.
Teneva in mano un basco nero e un pacchettino di pasticceria.
Dopo qualche secondo di minuetto “prego, entri”, “no, esco io”, dacché dovevo andar via,
fui invitato a restare insieme a questi due giganti.
L’imbarazzo del futuro Papa nel porgere ad Andreotti il pacchetto di cioccolatini di Moriondo & Gariglio era pura impacciataggine.
Andreotti li scartò subito, esclamando sorpreso: “Alla menta! I miei preferiti…Come fa a saperlo?”.
Il cardinale, con il suo inconfondibile accento teutonico, rispose con un filo di voce:
“L’anno scorso, durante il ricevimento all’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede per i Patti Lateranensi, ho notato che ne aveva mangiati tre”
e arrossendo leggermente, confessò di aver memorizzato l’episodio e di aver chiesto il nome della pasticceria
e così, prima di venire, passeggiando per le vie di Roma, come amava fare, era passato a comprarli.
Ne rimasi colpito.
La conversazione virò poi sulla rivista del Presidente 30 Giorni che si stava occupando di Sant’Agostino.
Mi restarono impresse le osservazioni di Ratzinger sulla figura del grande Santo di Ippona
che della diffusione della dottrina aveva fatto il suo ‘Vangelo’
e la palese ammirazione di Andreotti per quell’uomo che amava passeggiare per la Città Eterna.
Entrambi concordavano che la fede cristiana è la religione dei semplici che si realizza nell’obbedienza a Nostro Signore,
quella stessa obbedienza che non si affida al proprio potere o alla propria grandezza,
ma si fonda sull’amore di Gesù Cristo per gli uomini e la verità.
Negli anni successivi, Ratzinger ebbe parole severe per come era stato istruito il processo di Palermo ad Andreotti,
esprimendo ammirazione per la forza d’animo dimostrata nei dieci anni di calvario durante i quali “subì oltraggi pubblici mostruosi
e fu profondamente ferito nel suo onore e nella sua dignità”.
Ma non solo Andreotti.
“Perché non mi preparo alla fine ma ad un incontro poiché la morte apre alla vita, a quella eterna,
che non è un infinito doppione del tempo presente, ma qualcosa di completamente nuovo”.
Un gigante minuto.
È racchiusa tutta in questo ossimoro l’impressione che ebbi di Ratzinger la prima volta che lo incontrai.
Accadde nel secolo scorso a Palazzo Giustiniani, nello studio del presidente Andreotti:
ad un certo punto fece ingresso Patrizia Chilelli, la sua fedele assistente,
per annunciare la visita del cardinale Joseph Ratzinger, allora Prefetto per la Dottrina della Fede, il temuto Sant’Uffizio.
Andreotti, al solito, scattò come una molla dirigendosi verso la porta alla sinistra del salotto ed io appresso a lui, per uscire dalla stanza.
Elaborando in un attimo il nome, la nazionalità e il ruolo del porporato tedesco
e forse suggestionato dalla stampa che lo appellava come il ‘rottweiler bavarese’,
mi aspettavo di trovare dietro la porta una montagna d’uomo e, invece, mi si parò davanti
– in clergyman senza alcun segno cardinalizio se non un anello – una figura esile e delicata con un sorriso disarmante.
Teneva in mano un basco nero e un pacchettino di pasticceria.
Dopo qualche secondo di minuetto “prego, entri”, “no, esco io”, dacché dovevo andar via,
fui invitato a restare insieme a questi due giganti.
L’imbarazzo del futuro Papa nel porgere ad Andreotti il pacchetto di cioccolatini di Moriondo & Gariglio era pura impacciataggine.
Andreotti li scartò subito, esclamando sorpreso: “Alla menta! I miei preferiti…Come fa a saperlo?”.
Il cardinale, con il suo inconfondibile accento teutonico, rispose con un filo di voce:
“L’anno scorso, durante il ricevimento all’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede per i Patti Lateranensi, ho notato che ne aveva mangiati tre”
e arrossendo leggermente, confessò di aver memorizzato l’episodio e di aver chiesto il nome della pasticceria
e così, prima di venire, passeggiando per le vie di Roma, come amava fare, era passato a comprarli.
Ne rimasi colpito.
La conversazione virò poi sulla rivista del Presidente 30 Giorni che si stava occupando di Sant’Agostino.
Mi restarono impresse le osservazioni di Ratzinger sulla figura del grande Santo di Ippona
che della diffusione della dottrina aveva fatto il suo ‘Vangelo’
e la palese ammirazione di Andreotti per quell’uomo che amava passeggiare per la Città Eterna.
Entrambi concordavano che la fede cristiana è la religione dei semplici che si realizza nell’obbedienza a Nostro Signore,
quella stessa obbedienza che non si affida al proprio potere o alla propria grandezza,
ma si fonda sull’amore di Gesù Cristo per gli uomini e la verità.
Negli anni successivi, Ratzinger ebbe parole severe per come era stato istruito il processo di Palermo ad Andreotti,
esprimendo ammirazione per la forza d’animo dimostrata nei dieci anni di calvario durante i quali “subì oltraggi pubblici mostruosi
e fu profondamente ferito nel suo onore e nella sua dignità”.
Ma non solo Andreotti.