Macroeconomia Usa-Europa Tuor - Alle corde la politica dei cerotti (1 Viewer)

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Forumer storico
Alle corde la politica dei cerotti
Alfonso Tuor

Apparentemente questa crisi non ha vie d’uscita: la recessione è sempre più severa (la Bce, che ieri ha tagliato i tassi, prevede che il Pil europeo si contrarrà quest’anno più del 2%); la disoccupazione aumenta in modo sensibile; le borse continuano a cedere terreno; lo stato di salute del sistema bancario non migliora; alcuni Paesi dell’Est europeo lottano per evitare di essere vittime di una crisi di insolvenza e ultimamente sono ritornati a salire gli indici che misurano il timore di insolvenza delle obbligazioni societarie. L’unico strumento di investimento che sembra scoppiare di salute sono i titoli con cui gli Stati finanziano il loro debito pubblico. Ciò non vale tuttavia per le obbligazioni di tutti i Paesi, ma solo per quelle degli Stati, come Germania e Francia, ritenuti finanziariamente solidi. Insomma, la politica dei cerotti seguita finora da governi e banche centrali per arginare la crisi sta mostrando la corda.
L’addensarsi di nubi sempre più nere può essere paradossalmente un segno positivo. È infatti ormai indiscutibile che le speranze di uscire da questa crisi dipendono dalle scelte dei governi. È pure sotto gli occhi di tutti che gli interventi frenetici effettuati finora non hanno prodotto risultati significativi: sono stati spesi centinaia di miliardi di dollari e di euro per evitare il collasso del sistema bancario, ma molte grandi banche continuano ad essere sull’orlo della bancarotta e il sistema nel suo complesso non svolge più la funzione di elargire credito alle imprese e alle famiglie per rilanciare l’economia. Quindi la scelta di evitare il fallimento delle banche con interventi caso per caso non è risolutiva, anche se è estremamente costosa per i contribuenti. Potrà essere continuata ancora per qualche mese, correndo però il pericolo di incrinare anche l’ultima linea di difesa che ancora tiene, ossia la credibilità dei titoli con cui gli Stati finanziano i loro debiti pubblici.
Questi dati di fatto stanno facendo diffondere la consapevolezza che non si può continuare a lungo con la politica dei cerotti. Questa consapevolezza è molto diffusa negli Stati Uniti, dove anche noti alfieri del liberismo, come l’ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, il senatore repubblicano Lindsay Graham e alcuni settori dello stesso establishment finanziario invocano la nazionalizzazione pura e semplice delle banche in difficoltà. L’amministrazione Obama procede invece ancora con cautela con provvedimenti puntuali come quelli che hanno recentemente rinviato il fallimento di Citigroup, ossia del maggiore gruppo bancario del mondo. Anche il piano salvabanche presentato dal ministro del Tesoro Tim Geithner sembra entrato in una specie di limbo.
Questo comportamento ondivago ha spinto molti a criticare l’amministrazione Obama, accusandola di tentennare e di non sapere che pesci pigliare. Il giudizio appare ingiusto e soprattutto fuorviante. Barack Obama ha dimostrato in queste settimane di saper prendere decisioni coraggiose che possono scontentare anche parte della società americana. Il presidente americano ha presentato, ad esempio, un preventivo di bilancio, in cui ha chiaramente indicato che la sua amministrazione non proseguirà le politiche liberiste imperanti finora, ma si muoverà esattamente nella direzione opposta, tassando i redditi alti, cercando di ottenere una copertura sanitaria per tutti gli americani e proponendo scelte per la difesa dell’ambiente. In pratica, Obama vuole attuare una svolta radicale rispetto alle politiche degli ultimi trent’anni.
Gli apparenti tentennamenti sul piano salvabanche rischiano dunque di non essere solo dovuti all’oggettiva difficoltà di trovare un bandolo della matassa rappresentato dall’enorme buco nero che si nasconde nei bilanci delle banche, ma di essere anche il frutto di una feroce battaglia politica all’interno dell’amministrazione e tra l’amministrazione e i gruppi di pressione del settore finanziario. Nonostante il comprensibile riserbo che circonda queste discussioni i segnali che la tensione stia crescendo sono numerosi. Il più plateale è stato il poco amichevole battibecco davanti al Congresso tra il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, e il segretario del Tesoro, Tim Geithner. Quello più significativo, e per certi versi più preoccupante, è che gli Stati Uniti non hanno ancora schizzato la loro posizione e quindi non stanno svolgendo il loro abituale ruolo di leadership nei lavori di preparazione del vertice del G20 che si terrà il 2 aprile a Londra.
Quanto sta succedendo a Washington è comunque decisivo, poiché gli Stati Uniti restano l’unico Paese in grado di determinare una svolta nella crisi, sciogliendo il nodo gordiano dello stato fallimentare in cui versa il sistema bancario. Da quanto si riesce ad intuire le proposte sul tappeto sono molte. La prima, che sembra già superata dagli avvenimenti, è quella del Ministero del Tesoro, che è una versione riveduta e corretta del piano della vecchia amministrazione Bush. Essa prevede di sottoporre una ventina di banche ad uno stress test per verificare se sarebbero in grado di sopravvivere in condizioni di forte turbolenza, ma non indica cosa farà l’amministrazione con gli istituti che non dovessero superare l’esame. Propone inoltre di creare una o più «bad banks» con soldi pubblici e privati per comprare i titoli tossici ancora detenuti dalle banche.
Infine vi sono due provvedimenti già in opera: una ristrutturazione dei termini di alcuni tipi di mutui ipotecari e un intervento massiccio della Banca centrale per sostenere i titoli in cui sono impacchettati i crediti al consumo e i prestiti agli studenti in modo da riaprire questi mercati. La seconda ipotesi è la nazionalizzazione pura e semplice degli istituti in crisi. Questa proposta è stata finora osteggiata dall’amministrazione che non vuole giustamente accollarsi le enormi perdite nascoste nei bilanci bancari. L’esempio della nazionalizzazione dell’AIG, che continua a richiedere nuovi esborsi di denaro pubblico per coprire nuove e sempre maggiori perdite, ha messo in evidenza i pericoli di una simile soluzione.
La terza soluzione, che si sta facendo strada, è di concentrare le risorse su alcuni istituti, che potrebbero continuare a svolgere l’attività creditizia, e di lasciare le altre banche al giudizio del mercato. Questa scelta sta diventando sempre più attrattiva di fronte alla crescente consapevolezza dell’enormità delle perdite nascoste nel settore finanziario. Quindi, ben vengano i tentennamenti della Casa Bianca, se serviranno ad evitare che il grande buco nero delle banche risucchi tutto e tutti e se quindi serviranno a sbarazzarsi del problema delle banche e a concentrarsi sul rilancio dell’economia reale.

06.03.09 07:32:33
 

riccif

Forumer attivo
Salvare le istituzioni sane e affossare le cattive , non c' è altra strada, altrimenti anche le sane soffriranno.
Sarà traumatico , ma sempre meglio di questa agonia, ci vorranno anni per risanare tutte le gravi ferite.
 

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