Trump effect sulla Nato (1 Viewer)

tontolina

Forumer storico
La fine dell'impero universale a stelle e strisce
Con Trump cambierà il paradigma espansionistico americano del Dopoguerra
Francesco Alberoni

http://www.ilgiornale.it/news/cronache/fine-dellimpero-universale-stelle-e-strisce-1330886.html

Nel 1991, quando sulle torri del Cremlino fu ammainata la bandiera sovietica, gli americani dovevano decidere se aiutare la Russia a riprendersi come avevano fatto dopo la guerra con l'Italia e la Germania, oppure indebolirla ulteriormente ed espellerla dall'Europa.

Gorbaciov e Reagan avevano in mente la prima strada, ma poi prevalse la corrente di pensiero del consulente strategico della Casa Bianca Brzezinski, secondo cui gli Usa, diventati l'unica superpotenza del mondo, dovevano restare i soli a governare il pianeta.

Iniziarono così l'operazione di indebolimento dell'Europa, l'espulsione della Russia dall'Occidente, la democratizzazione di tutta l'Asia islamica.

Era la «fine della storia» preconizzata da Fukuyama, il sogno di un impero universale progressista con a capo un imperatore pacifista, Obama il buono.

Questo sogno imperiale è finito.
È finito nelle guerre sanguinose contro l'Afghanistan
per uccidere Osama bin Laden,
contro la Libia per massacrare Gheddafi,
contro l'Irak per impiccare Saddam Hussein,
contro la Siria per distruggere Assad,
con la mobilitazione contro la Russia per far fare la stessa fine a Putin.

Un programma che ha fatto solo trionfare i sanguinari tagliagole islamisti ed è finito
con il tentativo fallito di controllare tutto il petrolio del mondo, con i sauditi e il Qatar che finanziano Al Qaida e il Califfato,
con l'Europa e l'Italia lasciate in balìa degli emigranti africani gestiti da organizzazioni criminali.

La prima a capire che il mito dell'impero universale era finito era stata la Gran Bretagna.
Poi lo ha rifiutato la parte del popolo americano più trascurata che, stanca di essere trascinata in guerre lontane e malcontenta per la disoccupazione, si è ribellata alla sua orgogliosa casta dominante.

Oggi possiamo solo sperare che il nuovo presidente la smetta con l'ideologia e tratti in modo pragmatico con i singoli Paesi e risolva i problemi ad uno ad uno.
Noi italiani speriamo che tolga le sanzioni alla Russia che ci danneggiano, chiuda la guerra con la Siria, spinga i Paesi arabi a fare la pace in Libia, e ci consenta di frenare le emigrazioni che, se continuano così, rischiano di rovinare il nostro Paese.

 

tontolina

Forumer storico
PIECZENIK: “Mai più 11 Settembre, mai più false flag”. E invece Obama..
Di Maurizio Blondet , il 16 novembre 2016 20 Comment



Steve Pieczenik ha postato un altro dei suoi video. Si rallegra della vittoria di Trump, che attribuisce alla mobilitazione dei “16 servizi di intelligence”, ed elenca “ciò che il popolo americano non vuole più”: “Non più false flag, non più 11 Settembre, non più Sandy Hook, Sparatorie di Orlando, o altri imbrogli, propaganda e stronzate! Quel che vogliamo oggi è la verità”. Abbiamo già spiegato che Pieczenik è un esponente dello “Stato profondo”, l’uomo che al tempo del rapimento Moro fu mandato in Italia dal Dipartimento di Stato per assicurarsi che Moro non tornasse a casa; a modo suo un servitore dello Stato – e di quegli apparati nazionali che i neocon hanno sbattuto fuori l’11 Settembre, prendendo a forza il comando della politica estera Usa nella “lotta al terrorismo islamico”, per il bene di Israele. Se evoca oggi “Mai più 11 Settembre”, sta avvertendo: sappiamo che siete stati voi, possiamo riaprire l’inchiesta.


L’accenno a Sandy Hook è parimenti significativo: è il massacro in una scuola elementare nel Connecticut, avvenuto il 14 dicembre 2012, dove un malato mentale ha ucciso 27 bambini e insegnanti. Un evento su cui i blogger alternativi hanno fin dall’inizio gettato il dubbio: la versione ufficiale non concorda coi fatti.
Stessa cosa per la sparatoria di Orlando, la strage nella discoteca gay “Pulse”, nel giugno di quest’anno, attribuita a un musulmano – che poi risultato essere frequentatore della stessa discoteca. I cospirazionisti americani hanno subito denunciato un”false flag” nel quadro della strategia della tensione. Tesi ferocemente screditate dai media.

Oggi, Pieczenik, allusivamente, conferma: sappiamo che siete stati voi.
Ma chi sono i “voi”?
Li vediamo affrettarsi ad infiltrare anche l’amministrazione Trump.
Esempio: sono usciti articoli adulatori sul generale Michael Flynn, che tutti danno come suggeritore di Trump per il Medio Oriente e la pacificazione con Mosca. Quando era capo della DIA (Intelligence militare) fino al 2014, Flynn ha raccontato come ha sabotato – insieme al capo degli stati maggiori di allora, ammiraglio Dempsey- il piano di Obama di armare i jihadisti in Siria per abbattere Assad,collaborando sotto sotto coi russi.

Trump's favorite general

Adesso risulta che Michael Flynn ha scritto un libro – Field of Fight – che ha come sottotitolo “come possiamo vincere la guerra contro l’Islam radicale e i suoi alleati”, dove egli racconta sì degli “insabbiamenti e falsificazioni” di Obama a favore dell’IS e di Al Qaeda, ma segnala il “ruolo centrale dell’Iran nella crescita dell’Islam radicale” (non dell’Arabia Saudita!).
Ora, il libro è stato scritto dal generale insieme a Michael Ledeen.



Vecchia conoscenza, Ledeen. Neocon, membro della cosca sionista che ha preparato l’11 Settembre, mestatore ben noto in Italia, agente degli israeliani e dei golpisti dell’11 Settembre, coinvolto con la P2, dichiarato persona non grata da Cossiga. Molto recentemente è ricomparso in Italia a fianco di Marco Carrai, l’”intimo amico” di Renzi, un evidente agente israeliano, a cui Renzi ha affidato l’incarico di suo consulente al DIS (l’organismo di coordinamento dei Servizi segreti), il che equivale a consegnare la nostra intelligence al Mossad.

https://newsoftheworldnews.wordpress.com/tag/michael-ledeen/


L‘agente Ledeen, oggi amico di Marco Carrai


Apparentemente, il generale Flynn non potrebbe aver niente da spartire con Ledeen, di cui non ignora certo le parti che ha giocato l’11 Settembre. Il punto di contatto sembra essere nella volontà – ferocemente ebraica – di far sì che il presidente stracci il trattato sul nucleare con l’Iran. I giudei – colti dalla loro tipica Sindrome pre-traumatica (si fanno traumatizzare da eventi non avvenuti, e solo immaginati) tentano da un decennio di indurre Washington a bombardare per loro l’Iran, specie le sue centrali atomiche. Il generale Flynn sembra guadagnato a questa strategia, come anche lo stesso Trump.

La scelta di Rudolph Giuliani nel governo Trump sembra assicurare che non sarà aperta un’inchiesta sull’11 Settembre, e i suoi veri mandanti. Giuliani, a quel tempo sindaco di New York, fu pesantemente partecipe al piano della distruzione delle Twin Towers. D’altra parte l’entrata nella cerchia di governo di Steve Bannon, il direttore dei Breitbart.com (che ha portato a 18 milioni di lettori: una audience che il New York Times se la sogna), antisistema proclamato e quindi bollato ad altissima voce dai media come “antisemita” (oltreché anti-islamico e anti-gay), può rassicurare sul coraggio di Trump di non piegarsi alla nota lobby, e la conferma della pulsione “rivoluzionaria” che l’ha portato alla vittoria elettorale. Sono “mixed signals”, come dicono loro.

Segni di confusione nella cerchia di “The Donald”, amano dire i media. O segni delle pressioni contrastanti e delle molteplici volontà di infiltrazione, per non parlare del bisogno di guardarsi le spalle dai colpi di coda dell’uscente Obama.


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Obama occulto sabotatore in Siria
Tipo questo: “Una mezza dozzina di convogli di automezzi lunghi pieni di armi, raccolte rapidamente dai quartieri militari Usa a Baghdad, hanno passato il confine per dirigersi alla milizia curda PYD-YPG in Siria. […]. Le consegne sono state ordinate espressamente dal presidente Barack Obama, un cambio di 180 gradi rispetto al rifiuto, durato cinque anni, di rifornire i combattenti curdi di armamento americano d’alta gamma, missili anti-aerei e anti-tank. Altri convogli sono stati organizzati per la stessa destinazione”.

La fonte è DEBKA, 14 novembre, il sito israeliano che fornisce tante informazioni quante disinformazioni Made in Mossad. Se questa informazione è vera come probabile (gli israeliani odiano Obama), vuol dire che il Nobel per la Pace – in esercizio supremo della sua doppiezza ben nota- sta giocando un brutto tiro ad Erdogan e ai suoi corpi speciali, mandati in Siria a sterminare i curdi; e nello stesso tempo mettere i bastoni fra le ruote ad una alleanza di fatto, in via di consolidamento, fra Trump e Putin nella guerra all’IS – creatura di Obama.

DEBKA, invocando sue fonti a Mosca ed Ankara, sostiene che si sta consolidando appunto quell’accordo, con piena coscienza di Trump, e non solo; anche una convergenza fra le truppe turche e l’aviazione russa per montare un’offensiva onde riconquistare Rakka insieme, a gennaio, prima della inaugurazione di Trump. Un piano di cui Trump sarebbe perfettamente al corrente, anzi avrebbe dato il suo assenso “senza dubbio in convulsi consultazioni tra Mosca e Ankara”. Secondo DEBKA, è possibile che Turchia e Russia, “i cui aerei spia stanno tracciando i convogli per i curdi, decidano di bombardarli prima che giungano a destinazione”, ai 45 mila militanti curdi in Siria; anche questo in perfetto accordo con Trump.

Obama hits Trump tie with Putin, Erdogan on Syria

Dunque Obama (e Ashton Carter) stanno armando in extremis i curdi , in violazione delle intenzioni di Trump e prima che prenda pienamente il potere…Se è vero, esiste quindi già un lotta occulta fra Trump e l’amministrazione uscente col suo stato profondo. Può sembrare incredibile fantapolitica e complottismo campato in aria. Ma la guerra occulta contro Assad non ci ha mai risparmiato sorprese, e rivelazioni di alleanza inverosimili. Solo da poche settimane abbiamo scoperto che Obama aveva lasciato entrare nella sua cerchia esponenti dei Fratelli Musulmani, e che Hillary prendeva milioni dai sauditi e dagli emiri del Golfo per condurre la Superpotenza ad eseguire la “loro” politica estera.


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tontolina

Forumer storico
Elaborato dall’economista serbo Branko Milanović, autore d’importanti studi tra cui Global inequality: A New Approach for the Age of Globalization, il diagramma indica la progressione delle diseguaglianze nell’arco temporale compreso tra il 1988 e il 2008, tra il crollo del blocco sovietico e il great crash finanziario di fine anni Zero, allorché si delineò la parabola del nuovo ordine planetario. Sull’asse delle ascisse c’è la distribuzione della ricchezza globale, mentre su quella delle ordinate la misura del reddito medio reale. Nel punto più basso dell’andamento, laddove comincia la proboscide dell’ideale pachiderma, sprofonda la middle class industriale.

Elefante-grafico.png

Dunque, è proprio all’inizio dell’appendice elefantiaca che si estende l’ormai famigerata rust belt, il nuovo mito di commentatori e analisti, la Caporetto dei democratici americani, la culla dei lavoratori dimenticati e del ceto medio impoverito. È lì che si sarebbero giocate simbolicamente le presidenziali: negli Stati del Nordest, la cintura della


Trump e l'elefante - I Diavoli
 

tontolina

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Donald Trump, l’eredità di Obama e la pericolosità dell’America
mercoledì 16 novembre 2016 13:59 - ultimo aggiornamento 13:59
Donald Trump, l’eredità di Obama e la pericolosità dell’America

di Dario Fabbri


Il mondo secondo Trump (Limes)




Donald Trump costituisce un pericolo per il mondo?
E’ questa la domanda che, ad una settimana dalla sua vittoria nelle presidenziali americane, rimane maggiormente frequente tra le élites e l’opinione pubblica internazionale. Da più parti ci si interroga se l’apparente volontà del presidente eletto di stravolgere l’approccio americano nei confronti del globo non produrrà effetti assai negativi, se non addirittura catastrofici. Sopravvalutando i poteri di cui dispone la Casa Bianca, misconoscendo la capacità della superpotenza di rimanere impero e ignorando gli evidenti tratti di continuità con l’amministrazione Obama.

Stando ai proclami della campagna elettorale, Trump ha intenzione di aumentare il disimpegno degli Stati Uniti dagli affari internazionali. A suo avviso Washington dovrebbe concentrarsi sulle questioni domestiche e lasciare alle potenze regionali l’incombenza di risolvere militarmente o diplomaticamente le dispute regionali. L’America dovrebbe intervenire soltanto se può trarne un beneficio commerciale e in favore di quelle nazioni che stanziano per la difesa una quota accettabile del loro pil.
Scendere a patti con la Russia significherebbe usare il rivale in funzione anti-cinese, oltre che appaltare al Cremlino gran parte della lotta al terrorismo.
Con l’intenzione di risparmiare i costi legati al contenimento di Mosca e proseguire il ritiro dal Medio Oriente.
Mentre la minaccia di applicare notevoli dazi alle importazioni cinesi o giapponesi dovrebbe rilanciare la manifattura statunitense, la cui parziale scomparsa ha innescato il moto di protesta che ha condotto Trump alla Casa Bianca. Come l’abbandono dei trattati commerciali dovrebbe servire a proteggere l’economia nazionale, in una sorta di sbandierato protezionismo.

Tuttavia il presidente americano non è un imperatore e i suoi poteri sono molto limitati. Trump non sarebbe in grado di realizzare unilateralmente nessuna delle promesse sopraelencate. Avrà piuttosto bisogno del (tutt’altro che scontato) sostegno del Congresso, di gran lunga l’istituzione più potente del paese, e degli apparati (dipartimento di Stato, Pentagono, Cia etc.) che materialmente attuano la politica estera e commerciale. Anzi, come sempre capitato nella storia, sarà proprio lo Stato profondo a tramutare in imperiale l’approccio puramente mercantilistico della Casa Bianca. Giacché la dismissione del liberismo e della globalizzazione segnerebbe anche la fine della pax americana, ovvero del dominio statunitense sul globo, sviluppo negativo tanto per il presidente che per gli apparati.

Gli Stati Uniti proseguiranno nella loro fase di introversione, perché questo pretende la pancia del paese, colpita dagli effetti collaterali della globalizzazione e dall’inutilità delle campagne mediorientali del decennio scorso. Ma non rinnegheranno la loro natura imperiale, che prevede interventi all’estero per ragioni strategiche e non puramente commerciali. Così Washington continuerà a garantire (almeno virtualmente) la difesa del continente europeo, anzitutto per alimentarne la dipendenza dalla superpotenza, sebbene questo non comporti concreti benefici materiali. E continuerà a battersi per mantenere divise Berlino e Mosca, storico proposito della strategia americana, indipendentemente dalla volontà di Trump di annullare l’ostilità russo-americana. Anche la retorica protezionistica nei confronti della Cina si risolverà probabilmente nell’accusa ai danni di Pechino di manipolare lo yuan, ma non comporterà dazi elevati perché questo porrebbe in pericolo la tenuta del debito pubblico americano.

Di fatto la prossima amministrazione proseguirà nel solco segnato nell’era Obama, cui si aggiungerà la rinuncia a promuovere il libero commercio ed una narrazione maggiormente esplicita delle intenzioni americane (o meno sofisticata). Del resto lo stesso Obama nel 2009 promosse il reset con la Russia in ottica anti-cinese, per poi vederlo naufragare nel corso degli anni, e la ricerca di un minimalista equilibrio di potenza in Medio Oriente. Nel caso di Trump, piuttosto che interrogarsi sulla sua pericolosità, il mondo dovrebbe chiedersi se è preferibile avere a che fare con una superpotenza che interviene militarmente ovunque, come e quando vuole, oppure con una superpotenza che intende parzialmente ritrarsi dagli affari internazionali. Il nocciolo della questione è tutto qui.
 

tontolina

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La vendetta dell’Indonesia contro JP Morgan
3 gennaio 2017, di Laura Naka Antonelli

La vendetta dell'Indonesia contro JP Morgan | Wall Street Italia

JP Morgan paga cara la decisione della sua divisione di ricerca di penalizzare con un downgrade il rating della Borsa dell’Indonesia. E’ stato lo stesso governo indonesiano ad annunciare che porrà fine a tutti gli accordi di business con il colosso bancario Usa, dopo la revisione al ribasso che ha colpito l’azionario di Jakarta, successivamente alla vittoria, alle elezioni Usa, da parte di Donald Trump.

Da Jakarta Robert Pakpahan, direttore generale del ministero delle Finanze del paese, ha annunciato ai giornalisti nella giornata di oggi che il dicastero non ricorrerà più a JP Morgan per i servizi di primary dealer e di sottoscrizione dei suoi titoli di stato, e ha aggiunto che il downgrade della banca, reso noto lo scorso novembre, non è nè “accurato o credibile”.


Nel suo report dello scorso 13 novembre, JP Morgan ha tagliato il rating della borsa di Jakarta di due livelli, portandolo da “overwieght” (sovrappesare) a “underweight”, parlando di “risposta tattica” alla vittoria nel giorno dell’Election Day in Usa di Trump. Rivisto al ribasso anche il rating dell’azionario del Brasile, con gli esperti di JP Morgan che hanno affermato tuttavia che entrambi i paesi potranno presentare “migliori opportunità di acquisto più in avanti”.

Il colosso ha intanto diramato un comunicato nella giornata di oggi in cui si legge che continuerà a operare a favore dei propri clienti in Indonesia.

“L’impatto sui nostri clienti è minimo, e continueremo a lavorare con il Ministero delle Finanze per risolvere la questione”. Da segnalare, stando a quanto riporta Bloomberg, che gli investitori stranieri hanno smobilizzato nell’ultimo trimestre del 2016 azioni e bond indonesiani per un valore netto di $2,8 miliardi, nell’ambito di operazioni di sell che hanno in generale colpito gli asset dei mercati emergenti, a seguito della vittoria di Trump.

Gli smobilizzi hanno zavorrato la rupia indonesiana, costringendo le autorità di politica monetaria a intervenire al fine di stabilizzare la moneta.

Ricevi aggiornamenti su JP Morgan Lasciaci la tua e-mail:
 

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LA NATO ADOTTA LA STRATEGIA DELLA S-RAGIONE. E FORSE E’ VINCENTE.
Di Maurizio Blondet , il 17 febbraio 2017 3 Comment

La NATO sospende le operazioni in Siria”, titola Thierry Meyssan nel suo blog. Più precisamente, l’Alleanza ha sospeso i voli degli aerei radar AWACS che hanno sorvegliato i campi di battaglia siriani fin dal 2011 (quando l’invasione NATO contro Assad sembrava imminente,caldeggiata fortemente da Hollande, sauditi e Erdogan; Obama vi rinunciò in extremis), e che da allora hanno continuato ad operare: a favore “dei gruppi jihadisti”, fornendo loro informazioni “che hanno permesso loro di fuggire all’armata araba siriana”; dice Meyssan, che sicuramente è credibile perché ha buoni contatti con l’intelligence di Damasco. Aggiunge: “Ritirando gli AWACS, la NATO intenderebbe non prendere posizione nel conflitto che attualmente oppone i curdi fra loro”.

Non mi attento a interpretare questa laconica frase (i curdi si combattono fra loro?), se non per rilevare quanto gli americani coi loro doppi giochi pro-ISis ed Erdogan coi suoi, abbiano ormai attorcigliato l’orrendo gomitolo che hanno provocato in Siria. (1)

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Solo poche ore prima, mentre era in corso il vertice NATO con il nuovo capo del Pentagono “mad dog” Mattis, lo stesso Pentagono faceva filtrare la notizia che “stava valutando di inviare truppe da combattimento regolari in Siria per accelerare la lotta contro l’Isis”, dunque a dare una mano allo SDF (forze democratiche siriane), ossia diecimila curdi male armati (fra cui il primeggiano quelli del PKK, che Erdogan vede come suo nemico mortale) a cui la “coalizione” Usa aveva dato il compito di liberare Raqqa, la “capitale dell’IS”, e che non stanno cavando un ragno dal buco. Del resto gli americani hanno impiantato una vera e propria base di aerei ed eelicotteri della 101 Divisione aerotrasportata a Rmelan, territorio controllato dallo SDF. Lo scopo ultimo di un intervento Usa è sempre quello di ritagliare dalla Siria la sospirata no-fly zone per farne un santuario per i suoi islamisti preferiti, fino allo smembramento della Siria (secondo l’antico Piano Kivunim sionista) in staterelli.

Ora, questa intenzione, di mettere “scarponi sul terreno”, pare in contrasto con la decisione NATO di sospendere i voli AWACS sulla Siria.

Naturalmente tutto ciò va valutato insieme all’improvvisa uscita di Trump secondo cui Mosca deve “restituire” la Crimea all’Ucraina, alla quale l’ha “presa”, e le assicurazioni di Mad Dog Mattis a Stoltenberg ( e agli ansiosi europei) che la NATO, è sì obsoleta, ma in quanto deve essere rapidamente trasformata, da alleanza difensiva, in forza di aggressione, pardon di «proiezione di stabilità oltre i nostri confini».
Il nuovo «Hub per il Sud», che verrà realizzato a Napoli, costituirà la base operativa per la proiezione di forze terrestri, aeree e navali in una «regione» dai contorni indefiniti, comprendente Nordafrica e Medioriente ma anche aree al di là di queste. È disponibile per tali operazioni la «Forza di risposta» della Nato, aumentata a 40mila uomini, in particolare la sua «Forza di punta ad altissima prontezza operativa», che può essere proiettata in 48 ore «ovunque in qualsiasi momento» (Manlio Dinucci).

Il tutto poi andrebbe in qualche modo conciliato con il primo incontro, a Bonn, di Lavrov con il nuovo segretario di stato, Tillerson, il quale ha dichiarato che gli Stati Uniti sono pronti a collaborare con la Russia se ci sono aree di cooperazione (se?!); non dimenticando di aggiungere che la Russia deve contribuire ad una de-escalation nel Donbass: dove – come ha riconosciuto l’OCSE, ed è tutto dire – è Kiev che ha riscatenato il conflitto con armi pesanti e financo missili per fare strage di civili.


Nave dell’Iran.
E poi, proviamo anche a mettere nel quadro il piccolo particolare rivelato dal New York Times il 12 febbraio: che il nuovo capo del Pentagono Mattis aveva chiesto alla Marina di vedere se, nel Golfo, poteva abbordare una nave iraniana, salire a bordo e controllare che non portasse armi per gli Houti in Yemen. Gli aspetti di diritto internazionale – abbordare una nave in acque internazionali – non hanno avuto peso nella finale rinuncia all’atto. Ci si è invece domandati che effetto politico e mediatico avrebbe avuto sulla troppo fresca amministrazione Trump, che già aveva ordinato quell’assalto di commandos in Yemen d fine gennaio, conclusosi malissimo con una strage di donne e la figlia di 8 anni di Al Awlaki ma anche con la morte di un americano e la perdita di un velivolo, un’altra impresa che sarebbe finita quasi certamente in una battaglia navale con la Marina da guerra dell’Iran e i suoi barchini d’assalto superveloci….

Revealed: Trump Administration Aborted Operation That Would Have Provoked War With Iran

Qualche giorno dopo, il segretario di stao Rex Tillerson ha smentito, di fronte ai giornalisti, che l’America di Trump voglia rinegoziare (o stracciare) l’accordo nucleare con Teheran, firmatoda Obama, e che Trump ha proclamato di voler azzerare.

N, Germany: U.S. Secretary of State Rex Tillerson said on Thursday he did not suggest to French Foreign Minister Jean-Marc Ayrault that Washington planned to scrap the Iranian nuclear agreement.



Putin: “Ci provocano continuamente”.
Aggiungiamo che sotto la nuova amministrazione “amica di Putin” la NATO non solo ha rafforzato l’accumulo (cominciato da Obama) di truppe e carri armati in Romana e Bulgaria, che non confinano con la Russia e non chiedono (al contrario del baltici) di essere protette all’aggressivo mostro Putin, un rafforzamento che sembra piuttosto un’occupazione militare dei due paesi neo-“alleati”.


Qualche carro armato in Romania
Non solo: la NATO ha voluto, parola di Stoltenberg, costituire e insediare una flotta da guerra permanente nel Mar Nero, onde configgere con la base navale di Mosca in Crimea, magari superando due insignificanti dettagli: la Convenzione di Montreux, il trattato internazionale del ’36 (firmato anche da Washington) che limita a 21 giorni la presenza nel Mar Nero di navi da guerra appartenenti a paesi che non si affaccino su quel mare (Bulgaria, Romania e Turchia), e la recisa resistenza della Bulgaria, che ha detto esplicitamente che le sue navi non sono disponibili per questa impresa, con le spese connesse.

E tutto ciò (anzi anche più) ad opera di un’amministrazione che i media americani ed europei continuano a bollare come “amica di Putin”; anzi sua cliente; da un Trump è in piena lotta interna con lo Stato profondo, una lotta che sta perdendo – perdendo anche i pezzi, come il generale Flynn, e dove la Cia lo minaccia apertamente di ucciderlo oppure di “farlo morire in galera” dopo imppeachment.
Putin ha dichiarato la settimana scorsa, in un discorso all’FSB (ex Kgb) che la NATO “ci provoca costantemente per coinvolgerci in un confronto”, denunciano anche “i tentativi in corso di interferire nei nostri affari interni e destabilizzare la situazione politica e sociale in Russia” (si badi: tentativi “in corso”).

Putin: NATO's Primary Objective Is to 'Provoke Confrontation' With Russia


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Il capo di Hezbollah, Nasrallah, il 14 febbraio ha ringraziato Trump con queste parole: “Non siamo preoccupati, ma anzi molto ottimisti, perché quando un idiota risiede alla Casa Bianca è l’inizio del sollievo per gli oppressi del mondo”.

Un sollievo e serenità che il Cremlino non sembra condividere. Anzi (secondo Foreign Policy) arriva a domandarsi se l’irrazionalità e la follia o scemenza non siano parte dela nuova strategia americana: le cui decisioni, incoerenti, diventano più indecifrabili.

Di certo “quel che i russi temono di più oggi, è che Trump sia cacciato o ucciso. La sua partenza, dicono fonti interne al Cremlino, allineerebbe a Washington repubblicani ai democratici in una campagna virulenta anti-russa. Di conseguenza e stranamente, Putin è divenuto ostaggio della sopravvivenza e del successo di Trump. Questo restringe gravemente le opzioni politiche della Russia. I russi sanno bene che i democratici vogliono strumentalizzare il babau russo per screditare e destituire Trump mentre i repubblicani vogliono utilizzare il babau russo per disciplinare e mettere in linea Trump. Beninteso, il governo russo non teme solo la caduta di Trump, ma anche la possibilità che, per opportunismo politico, assuma una linea antirussa “dura” per fare la pace con i dirigenti repubblicani del Congresso, superfalchi”.

The Kremlin Is Starting to Worry About Trump

In questo senso, anche Wayne Madsen nota che i movimenti di destra trumpiani (al-Right, gruppi neonazi) si sono uniti a Georges Soros e ai suoi gruppi di manifestanti anti-Trump nella campagna anti-Russia, che assume sempre più (dice Stephen Cohen, il russologo) i toni paranoici di un nuovo maccartismo.

Tutto è nuovo infatti a Washington. E tutto peggio.

Top Russia Scholar Stephen Cohen: US Rapidly Descending Into McCarthy-Era Paranoia (Podcast)

Trump’s Alt.Right Movement Joins Soros in Russia-Bashing



Conclusione provvisoria. Sembra che siamo entrati in una fase generale di rinuncia alla razionalità o anche alla ragionevolezza del potere, in qualunque sede ed alta poltrona. Questa mi sembra la ulteriore (ed ultima) “emancipazione” dei poteri globali: che, dopo aver scosso da sé da gran tempo le norme morali, e poi anche i trattati internazionali sottoscritti, si liberano l’ultimo ostacolo alla piena liberazione: la ragione, l’intelletto, l’intelligenza, il principio di non-contraddizione, le norme della logica, sostituite dagli impulsi neurologici. Si può fare molto più e meglio senza testa, quando si ha il potere: evitare la coerenza, che è un limite. Evitar di motivare. Infischiarsene del senso di responsabilità. Come ha avuto modo di illustrare El Papa ad un capo dipartimento che gli chiedeva perché gli avesse ingiunto di licenziare in tronco due suoi buoni dipendenti, gli ha risposto: “…e io sono il Papa, non ho bisogno di dare ragioni di ciò che decido”. Inutile dire quanto questo sia un sintomo caotico terminale, apocalittico. E anticristico, visto che Cristo è il Logos.
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Nota 1

Per dare solo un esempio, sembra ti poter dire che l’offensiva per catturare Al Bab in cui Erdogan ha impegnato 1300 soldati, ed una sessantina di carri armati e porta truppe in appoggio a duemila islamisti della cosiddetta ”Armata Libera Siriana” – naturalmente gettandoli in Siria senza il permesso di Damasco, e con la dichiarata intenzione di annettere la zona alla Turchia – abbia conosciuto un sostanziale fallimento. I cinquemila guerriglieri dell’IS hanno responto gli attacchi e inflitto gravi perdite. Erdogan è stato salvato dall’umiliante disastro – tenetevi forte – da Damasco. Conclusa la liberazione di Aleppo, Assad, con la mediazione di Putin, ha concluso un accordo verso fine dicembre con Erdogan: e la sua armata è venuta in soccorso alle truppe turche, penetrando per 25 chilometri di profondità e stringendo Al Bab che ora è (o pare) del tutto accerchiata e non può essere più rifornita. L’aviazione russa ed anche siriana hanno fornito appoggio aereo ai turchi, che son riusciti a strappare all’IS (o chi sia) l’ultimo suo territorio nel governatorato di Aleppo.

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