TRUMP è il Presidente più perseguitato della storia (1 Viewer)

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Forumer storico
SPILLO UE/ Le toppate degli europeisti "smascherate" da Andreotti, Craxi e Cossiga
Donald Trump è in difficoltà, ma questo non vuol dire che l’Europa può pensare di andare avanti da sola, come si augura Romano Prodi.
Il commento di STEFANO CINGOLANI
20 giugno 2017 Stefano Cingolani
SPILLO UE/ Le toppate degli europeisti 'smascherate' da Andreotti, Craxi e Cossiga

Non era mai successo che un presidente diventasse un’anatra zoppa a soli sei mesi dal suo insediamento. Quel che sta accadendo con Donald Trump manda in sollucchero i suoi oppositori (anche se non ci sono ancora le condizioni per toglierlo dalla poltrona) e fa sperare i sognatori di un’Europa federale. “Sono più ottimista rispetto a qualche tempo fa perché Trump ha fatto risuscitare il patriottismo europeo”, ha dichiarato l’ex presidente Romano Prodi. Ma entrambi, anti-trumpisti irriducibili ed europeisti vecchia maniera, hanno torto. Quel che sta accadendo negli Stati Uniti è un disastro forse più per gli europei che per gli stessi americani. Loro tutto sommato vivono ancora in una grande isola separata da due immensi oceani, mentre noi siamo irriducibilmente collegati dalla storia e dalla geografia all’Asia e all’Africa, isolarci sarebbe un ossimoro politico-diplomatico.

Tra gaffe su Twitter e pasticci nella costruzione di una squadra di governo che nemmeno Virginia Raggi a Roma, tra annunci poi smentiti e promesse mai mantenute, minacce in politica estera e mosse contraddittorie in Medio Oriente e nello scacchiere del Pacifico, tra l’illusione di tornare a una nuova Yalta (basta un accordo tra Usa e Russia per spartirsi le sfere d’influenza e chiudere “la Terza guerra mondiale che si combatte a pezzetti”) e altre sanzioni contro Putin, insomma non passa giorno che The Donald non ne combini una delle sue. Ma le cose non vanno meglio nemmeno in politica interna. Trump ha promesso di difendere l’industria tradizionale colpita dalla globalizzazione e ha messo nel mirino gli gnomi di Silicon Valley, suoi acerrimi nemici. Si ritrova che Amazon entra nella grande distribuzione, ed è lo stesso Jeff Bezos il quale con il Washington Post ha rivelato il cosiddetto Russiagate.

Il presidente abbandona l’accordo di Parigi sul clima e si mette contro niente meno che la ExxonMobil, la più grande compagnia energetica mondiale, così come la famiglia Rockefeller, cioè gli eredi di John Davison che fondò la Standard Oil dalla quale derivano le stesse Exxon e Mobil convolate a inevitabili nozze nel 1999. E che dire della riforma fiscale? Aveva promesso un’operazione alla Ronald Reagan: tagliare le tasse per dare una spinta all’economia. Nessuno ha capito la logica e gli effetti del piano varato dalla Casa Bianca, quanto alla crescita, per ora si è visto un rallentamento della congiuntura americana.

Tutto ciò non deve far esultare gli europei e tanto meno gli europeisti, perché la verità è che senza gli Stati Uniti il Vecchio continente non va da nessuna parte.
I conflitti che dilaniano il Medio Oriente e il Nord Africa sono destinati a peggiorare.
Non parliamo della tensione nelle aree nord-orientali dell’Europa (non abbiamo idea del clima che si respira nel Baltico dopo il dislocamento dei missili russi Iskander che possono portare testate nucleari da Kaliningrad a Stoccolma).
E non parliamo della lotta al terrorismo islamico che lo stesso Trump considera una priorità

Proprio sulla difesa, secondo Prodi, si possono realizzare i maggiori passi avanti nell’unificazione politica dell’Ue. Lo spera anche Angela Merkel. Ma la realtà è che l’Unione europea ha una scarsa capacità militare e dopo la Brexit solo la Francia possiede un potenziale nucleare, peraltro ridotto e gestito in modo separato anche rispetto alla Nato. La force de frappe non serve a molto di fronte alla Russia, ma se Parigi non la mette a disposizione dell’Ue non ha senso nessuna difesa europea.

Di fronte all’unilateralismo irrazionale di Trump, Francia e Germania dovrebbero riaprire i libri della recente storia diplomatica e riesaminare quel che fecero prima Valéry Giscard d’Estaing e Helmut Schmidt, poi François Mitterrand e Helmut Kohl (scomparso venerdì scorso).
A ferragosto del 1971 Washington prese la più clamorosa e distruttiva decisione unilaterale del secolo scorso mettendo fine al sistema monetario basato sulla parità fissa tra dollaro e oro, stabilito nel 1944 a Bretton Woods. Richard Nixon fu messo con le spalle al muro dall’impatto negativo della guerra del Vietnam (spesa pubblica, inflazione, deficit estero), ma certo non concordò la sua scelta con nessun partner, sconvolse il sistema monetario, esportò l’inflazione americana in tutto il mondo, spinse i paesi esportatori di greggio (scambiato in dollari) ad aumentare i prezzi ancor prima che nel 1973 la guerra dello Yom Kippur scatenasse la grande crisi petrolifera.

Francia e Germania reagirono mettendo in campo un meccanismo di consultazione permanente tra i principali paesi industriali che tenesse insieme il Nord America, l’Europa occidentale e il Giappone: il G7.
Forse Giscard aveva l’ambizione che diventasse una sorta di governo economico mondiale (Barack Obama sperava che lo fosse il G20). Ma, al di là, delle utopie kantiane, quella struttura, per quanto imperfetta, ancora esiste, anzi si può dire che sia l’ultimo legame rimasto all’occidente. Può darsi che non duri molto nemmeno il G7, tuttavia la risposta alla tentazione isolazionista dell’America di Trump non è immaginare l’Ue come un blocco isolato, al contrario.

La vera leadership da parte dell’Europa e della coppia franco-tedesca che vuole ritrovare una nuova primavera, si esercita seguendo l’esempio di Giscard e Schmidt, di Mitterrand e Kohl. Saranno in grado di farlo Macron e la Merkel? Non lo sappiamo.
Ma proprio qui l’Italia, per le sue caratteristiche, la sua storia diplomatica, la sua collocazione geopolitica, potrebbe esercitare un ruolo importante. Certo, ci vuole un governo solido e un quadro politico stabile. Ma erano davvero così solidi e stabili i governi tra la fine degli anni ‘70 e i primi anni ‘80 quando imperversava ancora il terrorismo interno (rosso e nero)? Eppure Andreotti, Craxi, Cossiga (anche il Pci di Berlinguer che si sentiva meglio sotto l’ombrello Nato come dichiarò l’allora segretario) giocarono bene la loro partita ed esercitarono un ruolo non ancillare. Fino al Trattato di Maastricht, quando la delegazione italiana (Andreotti, Carli e De Michelis) ebbe una funzione significativa per sbloccare l’impasse tra Kohl e Mitterrand su questioni chiave come l’unificazione tedesca, la disintegrazione della Jugoslavia e, ultimo ma non per importanza, l’euro.
Dunque, niente alibi. C’è molto da fare, senza vittimismi, né complottismi.
 

tontolina

Forumer storico
Rovesciare Trump e insediare Mike Pence: il piano procede
Scritto il 28/5/17 • nella Categoria: idee


Ma cosa sta succedendo negli Usa?
Per capirlo bisogna ripercorrere in rapida sequenza i primi 5 mesi della presidenza.
Trump inizia come un presidente di rottura, che nel suo discorso inaugurale traccia degli obiettivi e una visione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo antitetici rispetto ai suoi predecessori.
Come prevedibile, la reazione dell’establishment è durissima: manifestazioni di piazza, giudici che bloccano decisioni presidenziali, l’intelligence che soffia sul fuoco del Russiagate alimentando lo spettro che Mosca abbia interferito nelle elezioni mentre molti repubblicani si schierano con i democratici.
Lo Stato Profondo (Deep State) è in rivolta e protagonista di ogni forma di boicottaggio.
Dopo appena tre settimane, uno dei suoi consiglieri più, quello alla sicurezza nazionale, Michael Flynn, si dimette per aver nascosto alcune conversazioni con l’ambasciatore russo a Washington. In sé nulla di irrimediabile, anche il team di Hillary ha avuto contatti con l’ambasciata russa.
Trump, che non conosce la potenza dell’apparato, commette un errore, si dimostra arrendevole e abbandona Flynn.

Il 6 aprile nuovo cedimento: l’altro fedelissimo, Steve Bannon, viene estromesso dal Consiglio nazionale della sicurezza, dove restano solo falchi, tra cui molti neoconservatori.
Dopo poche ore Trump rinnega i capisaldi del suo discorso inaugurale e diventa improvvisamente interventista. Bombarda con i missili una base militare in Siria, lancia la “madre di tutte le bombe” in Afghanistan, fa salire alle stelle le tensioni con la Corea del Nord.
Intanto, al Pentagono, si affinano i piani di guerra. Trump appare normalizzato, inghiottito dall’establishment. E improvvisamente il Russiagate sparisce dalle prime pagine, perde di intensità e di importanza.
Il presidente annuncia la revoca del trattato di libero scambio Nafta ma dopo poche ore si rimangia tutto, a conferma del suo ammansimento.
La revoca dell’Obamacare torna d’attualità con il convinto assenso del partito repubblicano. Poi, però, accade qualcosa. Trump ci ripensa o, almeno, dimostra di volersi riprendere qualche spazio, soprattutto diplomatico.

Dopo aver incontrato da solo il leader cinese Xi, con cui stabilisce un ottimo rapporto personale, esautora di fatto il Dipartimento di Stato, decidendo da solo la visita dal Papa il 24 maggio e, soprattutto, avviando un dialogo con Mosca; parla al telefono con Putin e riceve alla Casa Bianca il ministro degli esteri russo Lavrov. L’establishment non gradisce e inizia ad agitarsi.
Le polemiche interne riaffiorano, i giornali ricominciano a descrivere una Casa Bianca spaccata e caotica.
Quando il presidente decide di licenziare il capo dell’Fbi Comey, il Deep State dichiara una nuova guerra, verosimilmente definitiva, al redivivo Trump. Seguendo i dettami illustrati dall’ex consigliere di Obama: Kupchan, che invitava ad «adoperare i media e l’opinione pubblica», sulla stampa amica – ovvero “New York Times” e “Washington Post” fioccano indiscrezioni e rivelazioni pesantissime, insinuanti e, come sempre, anonime, ma di fonte sicura: servizi segreti, esponenti dell’amministrazione. Gli altri media amplificano. E l’isteria monta.
Qualunque voce o ricostruzione contro Trump viene presentata dai media come sicura e provata, qualunque indizio a sua discolpa viene relativizzato o ignorato.
La “Washington Post” annuncia che le informazioni passate a Lavrov durante l’incontro alla Casa Bianca sono segrete e che il presidente ha messo a repentaglio la sicurezza nazionale. Si scopre, tuttavia, che si tratta dell’allarme sulla possibilità che l’Isis compia attentati sugli aerei nascondendo bombe nei laptop, rischio noto da giorni, e lo stesso Putin smentisce di aver ricevuto informazioni segretissime e si dice pronto a dimostrarlo.
Ma non basta a riportare la quiete. McCain cita il Watergate, i democratici incalzano, i media attaccano con toni scandalizzati. E ora? Un esponente di lungo corso della politica Usa, insospettabile perché rappresenta la sinistra americana, Dennis Kucinich, legge con molta lucidità la situazione. Ricorda di non aver nulla in comune con Trump ma, in un’intervista a “Fox News”, giudica pretestuosa questa campagna.
«Se l’informazione era così sensibile perché è stata passata al “Washington Post”?», si chiede. E ancora: «Qualcosa è fuori controllo. C’è un tentativo di stravolgere la relazione con la Russia. Dobbiamo chiederci: perché l’intelligence sta cercando di sovvertire il presidente degli Stati Uniti con questi leaks? Io sono in disaccordo con Trump su molte questioni, ma su questa no. Ci può essere solo un presidente e qualcuno, nel mondo dei servizi segreti, sta cercando di rovesciare questo presidente al fine di perseguire una linea politica che ci mette in conflitto con la Russia. Il punto è: perché? E chi? Abbiamo bisogno di scoprirlo».
Kucinich ha quasi certamente ragione. Qualunque pretesto è utile per perseguire lo scopo finale: ribaltare la volontà popolare,
cacciare Trump e mantenere il potere nelle mani dell’establishment, al cui interno si annullano le differenze politiche tra destra e sinistra, e che governa gli Usa dai tempi di Kennedy. Il successore è già pronto: è il vice Mike Pence, che non è mai stato un fedelissimo di Trump. E’ uomo del partito repubblicano. Di lui si fidano.
(Marcello Foa, “Obiettivo finale, rovesciare Trump. Preparatevi…”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 17 maggio 2017).

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tradire chi li ha votati è la loro vera missione
cosa ha fatto, Obama? Ha esteso le guerre in corso e ne ha lanciate di nuove, ha distrutto la Libia e tentato di distruggere la Siria, ma è stato fermato dalla non-partecipazione britannica e dall’opposizione russa. Ha rovesciato i governi democratici in Honduras e in Ucraina. Ha ampliato lo “Stato di polizia”. Ha iniziato la demonizzazione della Russia e di Putin. Ha tradito nuovamente il popolo americano, permettendo all’industria assicurativa privata di scrivere il suo piano sanitario, conosciuto come Obamacare. Gli interessi privati, di fatto, hanno predisposto direttamente il programma, che dirotta i fondi pubblici dall’assistenza sanitaria verso i loro profitti. Tutto questo è stato dimenticato

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Trump cambia idea: via libera alle nuove sanzioni contro la Russia
 

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Usa, tutti contro Trump. Obama e Bush parlano a poche ore di distanza. E tra i Repubblicani parte la diaspora
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Mondo
Non era mai accaduto che due ex presidenti - così diversi per storia e appartenenza politica - riservassero critiche così severe al presidente in carica. I fronti di preoccupazione restano distanti, ma in comune c'è la paura per la dissoluzione delle elites politiche del paese. Che iniziano ad abbandonare l'attivismo politico

di Roberto Festa | 21 ottobre 2017


Non era mai successo. Due ex-presidenti, due uomini molto diversi, di diversa appartenenza politiche, che a distanza di poche ore attaccano il presidente degli Stati Uniti in carica, accusandolo di essere prodotto e strumento di un imbarbarimento senza precedenti della società americana. Non era mai successo, ma è successo ora. Barack Obama e George W. Bush hanno parlato – con preoccupazione, sconcerto, ansia – dello stato attuale delle cose americane. E, senza mai citarlo, hanno preso di mira il loro successore: Donald J. Trump.

Barack Obama ha parlato a un paio di comizi a sostegno dei candidati democratici a governatore di New Jersey e Virginia. Ha difeso la riforma sanitaria (che Trump vuole cancellare) e poi, in un discorso a Newark, ha spiegato che c’è gente “che guarda a 50 anni fa. Ma siamo nel 21esimo secolo, non nel 19esimo”. Il riferimento allo slogan di Trump in campagna elettorale, “Make America Great Again”, è parso chiaro a tutti. Come è parso chiaro anche l’appello che Obama ha fatto perché la gente voti. “Nessuna elezione è garantita. E sapete di cosa parlo”, ha detto Obama, in un altro ovvio riferimento alla sconfitta inattesa di Hillary Clinton alle presidenziali 2016.

Molto più diretto, per certi versi più angosciato e polemico, è parso George W. Bush. Nel corso di un incontro a New York, sponsorizzato dal centro che porta il suo nome, Bush ha lanciato un appello preoccupato sullo stato della democrazia in America. Il sistema politico è corrotto da teorie cospirative e totali montature”, ha detto Bush, secondo cui il nazionalismo “è stato distorto in una forma di nativismo”. Di più, ha aggiunto: il discorso politico è continuamente viziato “da una forma di crudeltà casuale… il bullismo e il pregiudizio nella nostra vita pubblica fissano il tono della nazione e lasciano spazio alla crudeltà e al fanatismo”.

Proprio in tema di fanatismo, durissimo è stato anche l’attacco del vecchio presidente alle forze della destra radicale e neo-nazista che hanno approfittato dell’elezione di Donald Trump per farsi largo nel dibattito pubblico. “Il bigottismo o il suprematismo bianco in qualsiasi forma sono una cosa blasfema rispetto al credo americano”, ha spiegato Bush, che per mostrare ancor più la sua distanza dalle politiche dell’attuale amministrazione ha iniziato il suo discorso – significativamente intitolato “The Spirit of Liberty” – parlando in inglese e in spagnolo, e notando che tra il pubblico c’erano rifugiati da Afghanistan, Cina, Corea del Nord e Venezuela, simboli del “dinamismo dimenticato che l’immigrazione ha sempre portato all’America”.

Anche Bush, come Obama, non ha mai citato l’attuale presidente. Non ce n’era comunque bisogno. Ogni riga del suo discorso – dai riferimenti all’immigrazione all’esaltazione del libero mercato – sono apparsi un attacco a Trump. La cosa ha creato una notevole impressione – in sala e nella politica americana. A differenza di Obama (che aveva già parlato contro Trump in altre occasioni, in tema di immigrazione, sanità, disimpegno dagli accordi di Parigi), George W. Bush si è sempre mantenuto lontano dalla cronaca politica. Non è mai intervenuto su nessuna delle decisioni prese dal suo successore Obama. Non è mai davvero intervenuto nemmeno nei giorni più caldi dello scontro tra il fratello Jeb e Trump, durante le primarie repubblicane. Le sue parole, oggi, appaiono quindi particolarmente pesanti.

La convergenza (critica) dei due vecchi presidenti invita comunque a qualche riflessione. Nel caso di Obama, la chiave di interpretazione è più semplice. L’ex-presidente resta una figura estremamente popolare nella galassia politica democratica. E’ l’unico che, al momento, riesca a unificare il partito, le sue correnti, i suoi gruppi etnici e sociali. Magari i settori più radicali, quelli che fanno capo a Bernie Sanders, non lo amano; ma comunque lo rispettano. E quando si tratta di far campagna elettorale, il nome di Barack Obama funziona sempre. In vista delle presidenziali 2020 ci saranno sicuramente altri capaci di trovare consensi e sostegno: lo stesso Bernie Sanders, e Joe Biden, Elizabeth Warren, Cory Booker. Al momento, Barack Obama è però l’unica voce – in un partito democratico drammaticamente privo di volti nuovi – capace di raccogliere opposizione e indignazione nei confronti di Trump – e in grado di indirizzarla politicamente.

Più complesso è invece il discorso per quanto attiene ai repubblicani. Le parole anti-Trump di Bush arrivano a poche ore da un intervento simile di John McCain. Il vecchio senatore dell’Arizona, minato da un tumore al cervello, nemico ormai storico di Trump, ha ricevuto alcuni giorni fa la “medaglia della libertà” del National Constitution Center. Nel discorso di ringraziamento ha messo però in guardia contro il “nazionalismo pretestuoso” che sta prendendo piede negli Stati Uniti, denunciando anche il fatto che il Paese sta abbandonando il ruolo di leadership esercitata nel mondo a partire dalla seconda guerra mondiale. Un vuoto che il vecchio senatore, prigioniero di guerra in Vietnam, ha definito “non-patriottico”.

C’è quindi sicuramente, nella reazione di vecchi leader del G.O.P. come Bush e McCain, il senso di frustrazione e spaesamento che l’elezione di Trump porta con sé – con la fine del vecchio mondo e delle certezze di cui il partito repubblicano liberista, pro-business, a favore del libero commercio, di una politica interventista e atlantica, si è per anni alimentato. Ma c’è qualcosa di più. Nelle parole di Bush, come in quelle di McCain, c’è probabilmente il timore che la stella di Trump possa non essere temporanea, che la sua elezione a presidente non sia un intoppo della Storia ma un elemento strutturale, che porti con sé la disgregazione delle vecchie élites, dei consolidati equilibri di potere, delle strategie politiche interne e internazionali su cui i repubblicani (ma in fondo anche molti democratici) si sono fondati per decenni.

Ci sono, da questo punto di vista, alcuni segnali che preoccupano la vecchia élite repubblicana. Per esempio, l’abbandono di una serie di deputati e senatori che in questi anni hanno appoggiato le leadership di Camera e Senato, quindi di Paul Ryan e Mitch McConnell. Alla Camera sono dati per partenti deputati come Pat Tiberi, Dave Trott, Charlie Dent (tutta gente molto vicina a Ryan). Al Senato se ne va sicuramente Bob Corker, e anche McCain lascerà con ogni probabilità il posto. La giustificazione ufficiale per gli addii è spesso di carattere personale. In realtà, sono le difficoltà del partito, le scarsissime realizzazioni legislative di questi mesi, l’impossibilità di fissare una strategia comune con la Casa Bianca, a far abbandonare il proprio posto a Washington.

Mentre pezzi importanti dell’establishment repubblicano lasciano, forze e uomini finora costretti ai margini cercano di emergere. In Alabama il giudice ultra-conservatore Roy Moore ha conquistato la candidatura repubblicana al Senato contro l’uomo appoggiato dall’establisment di Washington, Luther Strange. Moore ha goduto dell’appoggio incondizionato di Steven Bannon, l’ex capo stratega della Casa Bianca, che sta lavorando per il trionfo di altri candidati fortemente nazionalisti e conservatori – per esempio Chris McDaniel in Mississippi e Mark Green in Tennessee – grazie anche alle donazioni del miliardario degli hedge fund Robert Mercer. Il disegno di Bannon è piuttosto chiaro: concludere quella virata a destra del partito, iniziata con l’esplosione del Tea Party nel 2010 e continuata con l’elezione di Trump alla presidenza.

In questo quadro, discorsi come quelli di Bush e McCain sono al tempo stesso il segno di un forte disagio verso il possibile nuovo corso nazionalista e populista del partito repubblicano e il tentativo disperato di riprendere in mano le redini di quello stesso partito. Ci sono, da questo punto di vista, segnali incoraggianti per la vecchia leadership. I numeri di Trump paiono infatti disastrosi – i peggiori mai rilevati per un presidente degli Stati Uniti. Soltanto il 36 per cento degli americani approva la sua gestione degli affari (sondaggio Quinnipiac del 27 settembre). Se le primarie repubblicane (che ci saranno nel 2020) si tenessero oggi, Trump non sarebbe nemmeno sicuro di imporsi in New Hampshire (soltanto il 45 per cento degli elettori repubblicani dello Stato lo rivorrebbe candidato). Sanità e immigrazione sono emblemi di fallimenti legislativi di cui non si individua la fine.

Sfidare apertamente Trump, dall’interno del partito repubblicano, sperare in una sua débacle nel 2020, mostrarne la non riconciliabile distanza da valori, storia, uomini della tradizione conservatrice – insomma, quello che ha fatto Bush – potrebbe dunque essere l’ultimo, disperato tentativo del partito di bloccare la marea montante del trumpismo e dei suoi figli e alleati.
Usa, tutti contro Trump. Obama e Bush parlano a poche ore di distanza. E tra i Repubblicani parte la diaspora - Il Fatto Quotidiano
 

alingtonsky

Forumer storico
di ALBERTO FLORES D'ARCAIS


19 ottobre 2017

NEW YORK - Era stato in silenzio negli otto anni di Obama, in omaggio alla tradizione per cui un ex presidente non attacca il suo successore, è stato zitto nei primi dieci mesi di Donald Trump, ma adesso anche George W. Bush ha deciso che The Donald ha oltrepassato ogni limite. In un raro discorso pubblico l’ex presidente - che a quattordici anni dal disastro in Iraq vede oggi rivalutati molti aspetti della sua Casa Bianca - si è scagliato contro intolleranza e pregiudizio, contro bullismo e suprematisti bianchi.

Poche settimane dopo che Barack Obama aveva lanciato il suo appello per i "valori della democrazia" (e nello stesso giorno in cui l’ex presidente democratico ha fatto il suo "ritorno in campo" con due comizi in Virginia e New Jersey) George W. Bush - dalla tribuna di un forum organizzato a New York dall’istituto che porta il suo stesso nome - ha usato parole durissime contro chi sta rovinando i valori e gli ideali della democrazia americana. Non ha citato direttamente Trump ma tutti hanno capito che stava parlando di lui, dei suoi uomini, dei metodi usati dalla Casa Bianca di oggi.

"L’intolleranza ha trovato nuovo vigore, la nostra politica è sempre più vulnerabile alle teorie del complotto ed alle invenzioni totali”. Ha ricordato come “l’identità stessa della nostra nazione dipende dalla trasmissione degli ideali di civiltà alle prossime generazioni. Motivo per cui abbiamo bisogno di nuova enfasi sull'insegnamento dell'educazione civica nelle scuole”. In questo momento invece “il bullismo e il pregiudizio nella nostra vita pubblica definisce i toni, consente crudeltà e intolleranza che, in qualsiasi forma, è blasfemia per i valori americani”.

L’America al tempo di The Donald, spiega all’affollato uditorio l’ex Commander in Chief (che ha guidato gli Stati Uniti nei difficili anni seguiti agi attacchi terroristici dell’11 settembre 2001) sta “perdendo di vista i propri ideali” e mette a rischio anche l’essenza stessa della democrazia americana: “Ma non è la democrazia che fallisce, il fallimento è di coloro che sono incaricati di proteggere e difendere la democrazia”.
...
Bush attacca l'America di Trump: "Troppa intolleranza"


Obama e Bush attaccano Trump: “Diciamo no alla politica della paura”


'Our democracy is at stake,' Obama says on Virginia campaign trail

Is Trump a Second George W. Bush? Obama? Clinton? No, He's Trump
 

alingtonsky

Forumer storico
Marina Catucci NEW YORK

EDIZIONE DEL 20.10.2017
PUBBLICATO 19.10.2017, 23:57

In questi ultimi giorni Donald Trump è al centro di una nuova serie di polemiche che riguardano e rischiano di incrinare il suo rapporto con i militari. Al presidente non sono stati perdonati i dodici giorni trascorsi prima di presentare le proprie condoglianze alle famiglie dei quattro militari morti in Niger.

A queste critiche Trump aveva replicato assicurando che non si sarebbe limitato alle condoglianze, ma avrebbe telefonato personalmente alle vedove dei caduti, cosa che, a suo dire, Obama e gli altri presidenti non avrebbero mai fatto.

Purtroppo Trump era male informato: i suoi predecessori erano soliti chiamare i parenti dei soldati caduti in guerra. Per Obama si sono sollevate le voci dei suoi ex collaboratori e Pete Souza, ex fotografo della Casa bianca, ha diffuso su Instagram fotografie dove Obama sta visitando i reduci o consolando i familiari dei soldati morti in servizio.

Frederica Wilson, deputata democratica della Florida, in un’intervista alla Cnnha pubblicamente criticato Trump per una frase insensibile detta al telefono alla moglie di uno di questi soldati Usa morti in Niger il 4 ottobre: «Suo marito sapeva cosa comportava il suo lavoro, anche se immagino che faccia comunque male», avrebbe detto Trump alla vedova, secondo Wilson che era a Miami con lei ad aspettare il corpo del marito.

Trump ha vigorosamente smentito quest’affermazione su Twitter, ma è stato a sua volta smentito dai familiari del soldato che hanno confermato la versione della deputata.

Dopo aver chiesto di estromettere i militari transgender dall’esercito, provocando le reazioni contrarie dei vertici del Pentagono, Trump non ha davvero bisogno di crearsi ulteriori inimicizie nell’esercito. Ma non lo ha capito e continua a fomentare una polemica dolorosa e meno presidenziale che mai.
il manifesto
 

tontolina

Forumer storico
che l'america ha soldati anche in NIGER?
non bastavano quelli in Siria in Libia in Iraq in Afganistan...

ma c'è uno stato al mondo che non subisce l'agressione USA?

da quando hanno bombardato a tappeto la Serbia per ordine di Clinton .... non c'è più stata pace sulla terra
dopo Bush ha portato la guerra in Afganistan, Pakistan e Iraq
mentre Obama, il sangue misto, ha portato la guerra in Siria in Libia e in Ukraina
Ma chi è l'Elohim che comanda il mondo? il guerrafondaio yhw?
 

alingtonsky

Forumer storico
che l'america ha soldati anche in NIGER?
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In Ucraina sono stati i russi a portare la guerra e Putin ha violato l'integrità territoriale dello stato dell' Ucraina annettendo la Crimea:
L’aggressione militare russa ha portato vantaggi a Mosca? | Russia

E che idiozie dici sul Niger?
Ci sono militari USA in Niger per aiutare le truppe del Niger nella lotta contro organizzazioni terroristiche.

Ultima modifica il 05/10/2017 alle ore 07:53

Tre soldati delle forze speciali Usa e 5 soldati del Niger, sono morti in un agguato durante una pattugliamento con truppe locali, al confine col Mali, dove spesso militanti legati ad Al-Qaida conducono raid oltre frontiera. Lo scrive il New York Times citando fonti militari anonime. Atri due militari statunitensi sono rimasti feriti.

Si tratta delle prime vittime americane in una missione in cui le forze speciali statunitensi forniscono addestramento e assistenza alle forze armate del Niger, compreso il supporto ad attività di intelligence, sorveglianza e ricognizione.

I due militari feriti sarebbero in «condizioni stabili» e sarebbero già partiti dalla capitale Niamey diretti in Germania per essere curati.

Le forze armate statunitensi hanno nel Paese piccoli gruppi di militari delle forze speciali che fanno da addestratori e consiglieri alle truppe locali impegnate a combattere due gruppi terroristici, Boko Haram affiliato a ISIS e il ramo Nord Africano legato ad al Qaeda nel Maghreb islamico.

«Una pattuglia congiunta statunitense e nigerina è caduta in un imboscata nel sud-ovest del Niger», ha dichiarato Anthony Falvo, comandante della missione statunitense. «Le forze Usa sono in Niger, ha aggiunto, per fornire assistenza e formazione alle forze armate, compreso il supporto per gli sforzi di intelligence, di sorveglianza e di ricognizione, per contrastare le organizzazioni terroristiche nella regione».


Niger, tre militari delle forze speciali Usa uccisi in un agguato
 

tontolina

Forumer storico
26 ott 17
Quel filo che lega gli archivi JFK agli arresti per il Russiagate: Trump sgancerà la bomba?

Certo che la storia degli archivi sull’omicidio di John Fitzgerald Kennedy è davvero paradossale. Già, perché se non ci fosse nulla da nascondere, se fosse tutto cristallino come ci è stato raccontato negli ultimi 50 anni, la pubblicazione integrale e senza restrizioni non dovrebbe costituire un problema. E invece…

Ancora oggi la verità resta parziale e, come noto, legittimamente contestata.

Donald Trump ha annunciato la desecretazione dei documenti ma non su qualche centinaio, i più sensibili, che resteranno segreti per altri sei mesi, il tempo necessario necessario per determinare se la loro divulgazione “possa recare danno alle operazioni militari, di difesa ed esecuzione della legge”.

Tuttavia anche i files desecretati contengono alcune rivelazioni interessanti. Ad esempio, come ricorda Zero Hedge in un file si cita il potentissimo capo dell’FBI, J. Edgard Hoover, che afferma "La cosa che mi preoccupa è di avere qualcosa di pubblicato in modo da convincere il pubblico che Oswald sia il vero assassino"

Frase sibillina che, ne converrete, si presta a una duplice interpretazione.

Si rivela che un giornalista britannico ricevette una telefonata anonima che lo invitava a contattare l’ambasciata americana per alcune “notizie molto importanti” 25 minuti prima dell’omicidio. Chi la fece? Di certo non Oswald…

In un altro file si cita un esponente locale che parla di due sparatori. E salta fuori un file in cui si sostiene che Lee Harvey Oswald fosse un agente della Cia.

Sono frammenti di verità. Manca la pistola fumante, che potrebbe essere pubblicata il prossimo aprile.

Potrebbe, perché in realtà la decisione di Trump di pubblicare i files va letta soprattutto come il sintomo di uno scontro durissimo, forse definitivo con il Deep State. Già, perché tra poche ore il procuratore speciale del Russiagate annuncerà le prime incriminazioni che dovrebbero condurre all’arresto di alcuni ex fedelissimi di Trump.

Questo annuncio segue altri scandali, che riguardano non il presidente ma la sua ex contendente, Hillary Clinton. Si è scoperto, guarda un po’, che a fare affari con la Russia sia stato, senza le necessarie autorizzazioni, il Podesta Group, la società dei due fratelli Podesta, uno dei quali divenne il capo della campagna di Hillary.
E ancora: quando era segretario di Stato la Clinton avrebbe utilizzato la sua carica per aiutare la Russia ad acquisire il controllo di un quinto delle riserve americane di uranio in cambio di milioni di dollari versati alla Clinton Foundation, la fondazione di famiglia. Imbarazzante, vero?

Infine si viene a sapere che a commissionare per primo il dossier anti-Trump del Russiagate furono gruppi repubblicani, che poi lo passarono a Hillary.

Un bel ginepraio, che rischia di travolgere sia Trump sia una Clinton che pare essere stata scaricata dal Partito democratico, il quale la considera un intralcio sia in vista delle legislative dell’anno prossimo sia delle presidenziali, come spiega bene Gianfranco Campa sul sito Italia e il mondo.
Con una differenza: lei non dispone del potere necessario per difendersi, lui invece sì.
Il retroscena sul dossier passato dai repubblicani alla Clinton conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che le differenze fra i due partiti erano o sono di facciata e che entrambi erano accomunati dall’appartenenza allo stesso club che si traduceva nell’occupazione incontrastata dell’establishment. Incontrastata perché sapevano (loro, ma non gli elettori) che nulla sarebbe cambiato chiunque avesse vinto le elezioni. Bush o Kerry, Obama o McCain, era indifferente. Non è un caso che proprio Bush e McCain tifassero per Hillary contro “RealDonald”.

Trump era l’outsider, odiato dal suo partito; come il suo ideologo Steve Bannon, che ora guida la rivolta dentro al Partito repubblicano, sostenendo ovunque candidati alternativi.

Nel frattempo Trump è stato “normalizzato” su molti dossier ma, evidentemente, non su tutti o comunque è verosimile che il Deep State non si accontenti di una resa ma voglia la sua testa ovvero le sue dimissioni, affinché serva da monito per tutti.

Trump, però, si difenderà fino alla fine. E c’è chi sostiene che la vicenda dell’archivio di JFK rappresenti un avvertimento pesantissimo all’establishment. La bomba da sganciare al momento giusto per dimostrare agli americani il vero volto delle élite che li ha governati per 50 anni e screditare, così, l’inchiesta del Russiagate.

Sempre che ne abbia il coraggio, sempre che la pistola fumante su quell’omicidio esista davvero.
In ogni caso, non finisce qui nella Washington degli intrighi e delle tante verità nascoste.
Quel filo che lega gli archivi JFK agli arresti per il Russiagate: Trump sgancerà la bomba? –
 

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