Tassi, QE e carry trade (2 lettori)

tontolina

Forumer storico
Jimmy Carter aveva ragione (I Parte)
di Charlie Minter - 10/10/2016

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Nel 1979, in un discorso alla nazione, Jimmy Carter segnalò alla nazione una crisi di fiducia che attanagliava gli Stati Uniti. All’epoca gli USA soffrivano per la “stagflazione”: una tossica combinazione di inflazione e recessione.
L’ex presidente ci aveva visto giusto se è vero che, 37 anni dopo, la nazione soffre di una grave malattia, dal momento che ha sperimentato la ripresa post-bellica più fiacca dopo la Grande Recessione del 2008-2009. Sebbene la nazione non soffra per l’inflazione, almeno quella ufficiale misurata dal governo; il fatto che il PIL non abbia mai prodotto slanci in tutti questi anni, con un’espansione annuale media del 2%, ci avvicina alla fine degli anni Settanta.
È una questione su cui ci siamo soffermati diverse volte, negli ultimi anni: la crescita stagnante ha a che fare con il debito federale eccessivo, e con un indebitamento impressionante da parte di famiglie – inclusi gli studenti! – e imprese.
La Federal Reserve ha affrontato il problema espandendo il proprio bilancio, comprando titoli governativi ed emessi dalle agenzie federali, e manipolando i tassi di interesse, allontanandoli dal livello di equilibrio stabilito dalle forze di mercato. Sebbene queste misure fossero orientate a stimolare la crescita, ciò che in ultima analisi hanno prodotto è stata la lievitazione dei prezzi delle attività finanziarie a livelli drammaticamente elevati: sia storicamente parlando, sia con riferimento alle prospettive future di crescita.

Dal loro canto, le banche centrali di Giappone ed Europa si sono spinte anche oltre, inaugurando una stagione di tassi di interesse negativi, oltre a comprare titoli del debito sovrano e (Giappone) addirittura azioni. Anche qui si registra un malessere, sotto forma di crescita lenta e insuccesso nello stimolare le rispettive economie. L’unico contesto dove queste misure si sono rivelate efficaci è stato l’incoraggiamento del tasso di risparmio, andato in direzione diametralmente opposta rispetto alle aspettative dei banchieri centrali. Questo ovviamente ha rallentato ulteriormente l’attività economica.
Per cui parliamo di bassa crescita, con aspettative improntate al pessimismo. In questo contesto, come si sono comportati i profitti aziendali e in che misura ciò è prezzato dalle quotazioni di mercato? Al solito, facciamo riferimento agli utili “GAAP”, che riflettono la profittabilità aziendale meglio degli utili operativi, i quali escludono componenti straordinarie. Secondo gli ultimi dati resi noti dalla Standard&Poor’s, relativi al 97% delle società quotate nell’S&P500, alla fine del secondo trimestre gli EPS vantano un’espansione di appena il 2% rispetto ad un anno fa. Questo dopo sei semestri di discesa consecutiva: ben più di una formale recessione dei profitti.

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Jimmy Carter aveva ragione (II Parte)
di Charlie Minter - 13/10/2016

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Se prendiamo per vere le previsioni degli analisti per il terzo trimestre, gli utili degli ultimi dodici mesi alla fine di settembre si saranno attestati a 90.65 dollari il che, sulla base di una quotazione a 2168 punti, fornisce un P/E di 23.9 volte. Se non trovate che sia un mercato sopravvalutato, ponetevi questa domanda: se aveste ereditato un’azienda che produce un utile netto di 100.000 dollari all’anno al netto di tasse, che crescesse di non più del 2% all’anno, e qualcuno vi offrisse per rilevarla quasi 2.4 milioni di dollari, non la vendereste? Io penso che sareste sciocchi se non afferraste il denaro, avviando nel caso un’altra azienda. In caso contrario o siete degli inguaribili ottimisti, o credete di poter trovare un compratore ancora più pazzo.
Come riferimento storico, prendiamo le ultime due bolle dell’era moderna: quella della tecnologia di fine anni Novanta, e quella immobiliare dello scorso decennio.
La prima, culminata nel 2000, vide il P/E arrampicarsi fino a 27.8 volte gli utili. Era un’epoca in cui la follia arrivava al punto tale che la gente valutava le aziende sulla base dei click che potevano vantare i rispettivi siti. Quando la bolla scoppiò, la decurtazione sfiorò il 50%. È vero che il P/E raggiunse livelli anche superiori a quelli correnti, ma la follia dell’epoca è oggettivamente eccezionale e irripetibile.
In occasione della bolla immobiliare, il P/E raggiunse un estremo di 17.8 volte gli utili. Un anno dopo, prima del crollo del mercato azionario, gli utili erano nel frattempo precipitati, sicché il P/E schizzò a 25.4 volte (non lontano dai livelli correnti). Alla fine il mercato perse il 57% rispetto al massimo di ottobre 2007.
Il punto, come i nostri lettori più anziani ben sanno per averne parlato diverse volte in tutti questi anni, è un bear market non è troppo lontano. Il multiplo di borsa raggiunto è molto elevato, sul piano storico. In circostanze simili, nel passato, il ridimensionamento del listino è risultato molto severo. Quando arriverà il prossimo bear market, favorito da un “cigno nero” al momento ignoto? nessuno lo può sapere.
Tuttavia, poiché ci troviamo nella terza bolla dell’era moderna, quella delle banche centrali, e visto che gli investitori di tutto il mondo sono stati costretti a mollare i titoli di Stato per cercare rendimento nel mercato azionario, tutto ciò non può che finire malissimo. Gli investitori si sono trasformati in speculatori. Siamo tutti sullo stesso lato della barca. E quando la navigazione si farà difficile, sarà difficile rimanere a galla.
 

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Forumer storico
Draghi sbotta e difende il QE. Monito bolla, parlamentari olandesi gli regalano un tulipano
Finanza.com - Draghi sbotta e difende il QE. Monito bolla, parlamentari olandesi gli regalano un tulipano


Laura Naka Antonelli
10 maggio 2017 - 16:31
MILANO (Finanza.com)

Mario Draghi parla al Parlamento olandese, e affronta un vero e proprio interrogatorio. Sul banco degli imputati è il bazooka monetario che il numero uno della Bce ha lanciato per sostenere i fondamentali dell'economia dell'Eurozona: il QE, piano di acquisto di asset, che in Italia è stato ribattezzato anche scudo BTP, visto che senza di esso difficilmente i titoli di stato italiani avrebbero performato come negli ultimi anni (e in tassi di interesse scesi, come è accaduto).

Più volte il banchiere italiano viene attaccato da diversi parlamentari olandesi, proprio a causa della sua intenzione di mantenere attivo il programma di Quantitative easing. Gli attacchi sono tali da fargli perdere anche la pazienza.
Un parlamentare lo accusa per esempio di aver favorito i paesi che presentano elevati livelli del debito pubblico, rivolgendosi così : "Potrà essere un eroe per l'Italia e per Goldman Sachs, ma qui lei non è un eroe".
Lui risponde: "Non sono un eroe, non è il mio lavoro esserlo, il mio mandato è la stabilità dei prezzi" e "non ci sono distinzioni tra Paesi europei del Sud e del Nord".

Draghi sbotta anche alla domanda sulla possibilità che un paese membro dell'Eurozona abbia bisogno di una ristrutturazione del debito:
"Non vogliamo speculare sulla probabilità di situazioni che non hanno alcuna chance di accadere. Perchè mi fa questa domanda?

Così come risponde in tono alterato all'osservazione del parlamentare euroscettico Thierry Baudet sulla possibilità che l'Olanda, che vanta un surplus di 100 miliardi di euro circa verso il sistema Target 2, riceva questi 100 miliardi proprio dall'Italia, in caso di uscita dall'euro dell'Italia stessa.
Così Draghi: "L'euro è irrevocavile. Questo è il trattato. Non farò congetture su qualcosa che non ha alcuna base. La nostra politica monetaria ha creato 4,5 milioni di posti di lavoro. Questa è la realtà, il resto è speculazione".

Il monito finale è sul rischio di crisi finanziarie e di bolle speculative sugli asset, e arriva sotto forma di un tulipano di plastica a energia solare, che viene consegnato a Draghi. Giusto per non fargli dimenticare la tulipomania, bolla finanziaria che esplose in Olanda.

Il tulipano viene consegnato a Draghi dal parlamentare Pieter Duisenberg, figlio del primo governatore della Bce, Wim Duisenberg e numero uno della Commissione di finanza, che afferma:
"Desideriamo che lei guardi questo tulipano ogni volta prima delle riunioni" della Bce.

Riguardo alle dichiarazioni rilasciate al Parlamento olandese, Draghi ha affermato che "è troppo presto per dichiarare vittoria nella battaglia sull'inflazione".

Il miglioramento dell'economia è evidente, ha ammesso, in quanto la ripresa, da fragile e sbilanciata com'era, è diventata più ampia e più solida. Ma è vero anche che "le pressioni inflazionistiche sottostanti continuano a rimanere contenute e devono ancora mostrare un trend al rialzo convincente. I fattori trainanti domestici dell'inflazione, ovvero i salari, non stanno rispondendo ancora alla ripresa (...) è dunque necessario mantenere l'attuale livello molto accomodante di politica monetaria, in modo tale da assicurare la crescita delle pressioni inflazionistiche e per garantire che l'inflazione venga sostenuta nel medio termine".

La rimozione degli stimoli monetari, ha precisato Draghi, avverrà "in modo naturale", insieme al miglioramento dell'economia e alla ripresa dell'inflazione.



Tutte le notizie su: Mario Draghi, tulipomania, Draghi tulipano, goldman sachs, Parlamento Olanda, quantitative easing, scudo BTP
 

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Forumer storico
Rialzo dei tassi in area euro: ecco quando bisognerà preparare il vostro portafoglio
Cedole & dividendi

A chi credere? Alla Bce, alla politica o ai mercati?
Sul tema del rialzo dei tassi di interesse in area euro si sta facendo troppa confusione, con dichiarazioni e indicazioni spesso contradditorie. Ai nostri lettori poco interessa tutto questo baccano di fondo. Loro vogliono capire quando partirà realmente una politica monetaria restrittiva, che potrebbe impattare ancor più negativamente sulle quotazioni dei bond dopo il movimento ribassista in atto già da mesi. Dovuto – questo – alla prima fase, ovvero allo sgonfiamento di una situazione puramente speculativa da Quantitative Easing.

Che ci sia confusione lo dimostra un fatto inequivocabile avvenuto sul fronte statunitense: al momento dell’annuncio da parte della Fed della sua strategia di rialzo dei tassi di qui a tutto il 2018 è avvenuto l’opposto di quanto si poteva prevedere, con le quotazioni salite e mica di poco. Lo “yield” del decennale Usa è precipitato da oltre il 2,5% a poco sopra il 2,3%, smentendo qualsiasi previsione ma confermando l’esattezza dell’analisi tecnica che in quei giorni diceva “buy” per i Treasuries, al contrario del pensiero comune dei commentatori. Non solo! Lo “yield” è sceso esattamente sul supporto del 2,32% su cui si è già appoggiato molte volte nel recente passato. Alla faccia dell’annuncio appunto di rialzo dei tassi oltre Oceano!

La stessa analisi tecnica segnala che il Treasury si sta comunque muovendo sempre all’interno di un canale ribassista delle quotazioni, iniziato proprio dai massimi dell’estate 2016. Lasciamo quindi stare parole e paroloni di governatori e politici e seguiamo, almeno in parte, con rigore i segnali proposti dai mercati.

Quando scatterà il momento di vendere indiscriminatamente titoli di Stato e “corporate” a tasso fisso in euro?
Ci sono vari modi per determinarlo.


Il rialzo dei tassi partirà…
Primo segnale: il rialzo dei tassi scatterà quando il “future” sul Bund lo anticiperà con un preciso indizio, tornando cioè nell’area dei 150, contro l’attuale quotazione sui 163. Attenzione però a valutare con rigore il dato dei 150. Già un eventuale spostamento verso i 153,5 punti sarà un avviso ai naviganti.

Secondo segnale: il rialzo dei tassi si avvierà nel momento in cui i governativi extralunghi (soprattutto a 50 anni) dell’area euro romperanno certi livelli. Trascurando il Btp 2067, troppo giovane per fornire indicazioni attendibili, questo il quadro di quattro titoli utili per monitorare il quadro generale:
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Consideriamo la media: il loro “yield” ora è al 2,695%, mentre quello obiettivo si attesta al 3,49%, in altre parole al 3,5%. Evidentemente senza considerare variabili (sempre possibili) dipendenti da rischio di credito, che nell’intervallo da oggi al rialzo dei tassi dovrebbe comunque restare sotto sorveglianza.

Terzo segnale: il rialzo dei tassi salperà solo quando l’inflazione “core” (aumento medio dei prezzi che non tiene conto dei beni a forte volatilità, quali energia e alimentari) in area euro - ora allo 0,8% - supererà almeno l’1,2%, con una traiettoria però definita sostenibile.

Quarto segnale: c’è chi sostiene che il rialzo dei tassi potrebbe avviarsi prima della fine del Quantitative Easing in salsa Bce. Draghi di recente ha dichiarato: “L’inflazione obiettivo deve rimanere sui livelli fissati anche quando il sostegno delle politiche monetarie in atto non ci sarà più”. Può darsi che debba cambiare strategia, ma in linea di massima non sembra che il rialzo possa avere il sopravvento sullo smembramento del QE.

Quinto segnale: del tutto indiretto, ma importante. Attenzione a quanto avviene oltre Oceano. Solo dopo la cosiddetta “trumperizzazione” della Fed si capirà se la politica monetaria annunciata dalla Yellen verrà confermata. Ci vorrà circa un anno. Nel frattempo occorrerà monitorare il rendimento del decennale Usa. Nel caso di superamento del 3% l’effetto si farà sentire anche in Europa, con inevitabile impatto su un rialzo dei tassi.

Troppi segnali? E’ evidente che ne basterà la concretizzazione di alcuni perché la Bce si veda costretta a cambiare la sua politica. Il quadro però (almeno utilizzando i numeri) comincia a diventare più chiaro. E’ il caso di preparare il portafoglio? Sì, con progressività e senza le grandi paure che alcuni analisti esprimono, sebbene parte dei buoi sia già scappata dai recinti. In questa fase fidatevi comunque dell’analisi tecnica. Vi eviterà molti errori.

P.S.) Noi – naturalmente – sul tema vi terremo via via aggiornati. Rialzo dei tassi in area euro: ecco quando bisognerà preparare il vostro portafoglio
 

tontolina

Forumer storico
Fed, guardate alla luna e non al dito
Forse non tutti sanno che quando termina il Quantitative Easing (acquisto di titoli da parte di una banca centrale) non cessano del tutto gli acquisti.

Ciò è dovuto al fatto che cedole e dividendi incassati vengono reinvestiti, al tempo stesso i titoli scaduti vengono rimpiazzati. Così facendo viene mantenuto il livello di detenzione di titoli raggiunto dalla banca centrale.

Come sappiamo la FED sta progressivamente rialzando i tassi di interesse, quando ciò avviene i media ci danno ampio risalto: due giorni fa ad esempio la FED ha rialzato per la seconda volta quest’anno il tasso di interesse portandolo all’1,25%.

Ma tutti i miliardi di dollari di liquidità che sono starti immessi nel sistema che fine fanno? La FED continua ad acquistare per mantenere il livello di bilancio? Quando inizierà a ridurre questi reinvestimenti?

L’aspetto positivo che è forse stato un po’ trascurato da questa riunione del FOMC (il consiglio che riunisce le varie banche centrali statunitensi) è la decisione per la prima volta di avviare un programma di riduzione. Una notizia importante a cui gli organi di informazione hanno dato poco risalto; vediamo in dettaglio di cosa si tratta.

Rimborsi da titoli di stato: riduzione iniziale dei reinvestimenti di 6 miliardi di dollari al mese, ogni tre mesi questo importo aumenterà di ulteriori 6 miliardi al mese raggiungendo dopo 12 mesi i 30 miliardi di dollari, cifra a cui si stabilizzerà.

Rimborsi da obbligazioni ipotecarie (MBS) e da titoli delle agenzie di debito: riduzione iniziale dei reinvestimenti di 4 miliardi di dollari al mese, ogni tre mesi questo importo aumenterà di ulteriori 4 miliardi al mese raggiungendo dopo 12 mesi i 20 miliardi di dollari, cifra a cui si stabilizzerà.

Il programma di riduzione inizierà entro la fine dell’anno e a regime, probabilmente nel 2019 comporterà un ritiro di liquidità per 50 miliardi al mese. Sono tanti, sono pochi? Per comprenderlo dobbiamo dare un’occhiata al bilancio FED.
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Il grafico sopra (Fonte FRED – Federal Reserve di St.Louis) ci permette di osservare che dal primo al terzo QE il bilancio della FED è passato da 905 miliardi di dollari a 4.476 miliardi, con un incremento di 3.571 miliardi pari al 395%. Detto in altri termini il bilancio FED dal 2008 ad oggi si è quadruplicato mediante acquisti di titoli di Stato e obbligazioni cartolarizzate.

Considerando il programma di riduzione dei reinvestimenti, sopra riportato, e ipotizzando che questo inizi a ottobre 2017, il rientro nei valori del 2008 si avrebbe solo a marzo del 2024.

Apparentemente potrebbe sembrare un lasso di tempo ragionevole, inoltre non si può escludere che la FED a un certo punto incrementi ulteriormente la riduzione dei reinvestimenti.

Tuttavia sette anni in finanza sono dei tempi biblici e chi può escludere che nel frattempo non giungano altri periodi di crisi che costringano a rivedere il programma di rientro?

Lasciamo a ciascuno dei lettori la propria riflessione in merito, ricordando nel contempo che la BCE da marzo 2015 a maggio 2017 ha portato il proprio bilancio da 2.250 miliardi a 4.196 miliardi, quasi un raddoppio, e ancora non se ne vede la fine!

Sotto il grafico del Bilancio della BCE (Fonte FRED).

http://cloud.traderlink.com/app/

Maurizio Mazziero
www.mazzieroresearch.com
 

tontolina

Forumer storico
Roba pesante da digerire. Ma neanche troppo....


Vincitori e Vinti - Il blog di Paolo Cardenà - https://www.facebook.com/paolo.cardena


La mascella che recentemente si è aperta tra il differenziale dei rendimenti dei titoli di stato a due anni di Germania e Usa (linea blu del grafico, scala destra) e il cambio euro/usd (linea rossa, scala sinistra) non mi piace. Anzi, mi piace assai. Nel senso che questa divergenza, come in tutti i casi passati, è destinata a chiudersi. E non vi è motivo per cui, anche questa volta, non sia così.
La chiusura potrà avvenire in due modi:
- attraverso Il rafforzamento del dollaro sull'euro (improbabile in assenza di un catayst che ne guidi il movimento....ma vedremo)
- Attraverso la riduzione del differenziale di rendimento tra i due titoli, verosimilmente per via del rialzo dei rendimenti in Eurozona. In quest'ultimo caso mi aspetterei nuovi massimi per l'euro, seppur in presenza di una divergenza (tra il cambio e il differenziale dei rendimenti) che potrebbe tendere ad attenuarsi.

A tal proposito si dovrebbero considerare alcune questioni:
-I dati sull'inflazione sia in Usa che in Eurozona e quindi l'andamento delle due economie, tenuto conto che il rafforzamento dell'euro potrebbe pesare sulla crescita dell'Eurozona e stimolare quella Usa;
-La crisi di leadership della presidenza Usa, che non mi sembra sia una passeggiata (per Trump).
-Le azioni delle due banche centrali.

Per concludere è giusto sapere anche che vi sono un sacco di posizione speculative aperte a favore del rialzo dell'euro. Segno che gli operatori si attendono, quindi, un rialzo dei rendimenti in Ez. Se ciò non dovesse verificarsi.....

Staremo a vedere.

www.vincitorievinti.com
 

tontolina

Forumer storico
Il Quantitative Easing é riduzione del debito pubblico
Di Lorenzo Marchetti , il 9 agosto 2017 81 Comment
Il Quantitative Easing é riduzione del debito pubblico - Rischio Calcolato
Questo é un post fondamentale. Quello che vedrete scritto qui non lo troverete da nessun altra parte (in Italiano).
Parleremo di quantitative easing, ovvero di allentamento monetario, e di un aspetto che i media non dicono (perché non lo capiscono, e perché nei corsi di economia ancora insegnano un mucchio di cose inutili): per capire questi aspetti, sconosciuti ai piú, mi sono basato sul lavoro di Richard Duncan, grandissimo macroeconomista e autore di diversi libri (tra cui spicca The Dollar Crisis, 2005) , che nel suo MacroWatch spiega con dovizia di particolari il funzionamento della meccanica monetaria moderna.

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Ringrazio Richard Duncan per aver concesso di pubblicare il contenuto riadattato di alcune sue slides su Rischio Calcolato.

In precedenti post, abbiamo spiegato come il denaro viene creato dalle banche centrali e dalle banche commerciali.
Le prime, in tempi normali, creano denaro quando acquistano titoli di stato dalle banche commerciali.
Le seconde, tipicamente quando concedono prestiti a famiglie e imprese.

Siccome non viviamo in tempi normali, le banche centrali hanno iniziato una intensissima operazione di acquisto di titoli di Stato e, nel caso delle Banca Centrale Europea o della Banca Centrale Svizzera, anche di azioni di compagnie quotate in borsa. Questo enorme acquisto di titoli di stato da parte delle Banche Centrali é stato ribattezzato Quantitative Easing (QE). Ed é quello che ha impedito al sistema di collassare nel 2008 per mancanza di liquiditá, creando pesantissime distorsioni finanziarie. Per l’economia austriaca, questo non ha fatto altro che ritardare il bust, e sono d’accordo, ma il punto che mi preme sottolineare in questo post é il motivo per cui si é ricorso massicciamente al QE, cioé la cancellazione del debito sovrano.

Le Banche Centrali (FED, BCE e BOJ ) stanno lavorando di concerto fra di loro per gestire l’allentamento monetario su scala globale, con sempre almeno un paio di banche centrali che fanno QE per tenere in piedi la baracca. Al momento, visto che la FED e la BOE (Bank of England) non fanno piú QE, ci stanno pensando BCE e BOJ (Bank of Japan).

Ma di che cifre parliamo?
Parliamo di cifre ASTRONOMICHE.
Guardiamo questa tabella (numeri si riferiscono alla fine del 2016).
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Si tratta di cifre spaventose in assoluto. Osservate che l’unitá di misura é il miliardo, in alcuni casi il trilione (mille miliardi).

Ma di per sé dicono poco: dobbiamo rapportarle al debito pubblico di ogni stato (o macrostato come la zona euro, nel caso della BCE).
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Si tratta di percentuali a doppia cifra. E calcolate che BOJ e BCE stanno continuando ad acquistare titoli al ritmo di 6.67 mila miliardi di Yen e 60 miliardi di euro al mese. Al mese! noi, per una manovra di 4 miliardi in un anno sentiamo politici, confindustria e i sindacati scannarsi.

Ma che succede quando una banca centrale compra debito di un paese, se lo tiene in bilancio e non lo rivende fino a che il debito non matura?

Quando una banca centrale acquista debito di stato, riceve interessi dallo stato, ma la banca centrale restituisce indietro al governo (quasi tutti) gli interessi. In altri termini, questo significa che i titoli di stato sono stati cancellati, fino a quando la banca centrale non rivende a terzi i titoli. (vi invito a guardare questo video
per avere i dettagli nel caso della FED)

Cosa comporta tutto ció? comporta che il debito pubblico degli stati in realtá é molto inferiore rispetto a quanto riportato dai giornali. Ecco perché Paesi come il Giappone riescono a rimanere in piedi pur avendo un debito/PIL nell’ordine del 250%. E’debito in buona parte comprato dalla Banca Centrale Giapponese. Ad esempio, a fine 2015, il debito degli USA non era il 105%, come i giornali dicevano. Di fatto, considerando che la FED aveva in pancia 2.5mila miliardi di titoli, ovvero il 15% del totale del debito, il debito USA effettivo -verso terzi- era del 90%.

Il succo é che quando una banca centrale acquista titoli di stato, essa prende dal governo gli interessi (pagati dalle tasse dei cittadini), ma poi restituisce al governo questi stessi interessi. E’un immenso circolo chiuso, in cui chi fa i soldi a palate sono quelli che compravendono i bond.

E’possibile creare debito ad libitum da parte delle banche centrali? e perché non c’é inflazione se creano tutti questi soldi?

La prima risposta é: sí. Ovviamente con distorsioni che si andranno sempre piú accentuando (bassi tassi di interesse, incremento disparitá fra ricchi e poveri, pessima allocazione del capitale, distruzione del manifatturiero perché si presta per fare finanza, non industria o ricerca).

La risposta alla seconda domanda é articolata:
primo, questa massa monetaria é rimasta circoscritta agli asset finanziari (titoli di stato ai massimi, rendimenti ai minimi e azioni ai massimi grazie al fatto che le aziende con i bassi costi del denaro fanno debito per ricomprarsi le proprie azioni, e ai prezzi delle case – in Olanda stiamo assistendo per esempio ad una fortissima ripresa della bolla immobiliare). Per definizione, l’inflazione misura il costo dei beni di consumo. Solo marginalmente (o per nulla affatto) il costo di affitti, case, titoli di stato e azioni, dove invece sono andati a finire i soldi creati dalle banche centali. Quindi l’indicatore CPI (consumer price index) é assolutamente inattendibile per misurare l’inflazione che sta colpendo altrove: non zucchine, bensí azioni in borsa e appartamenti.
Secondo
, e ben piú importante, la globalizzazione é estremamente deflattiva. Ci sono miliardi di persone che lavorerebbero per due dollari al giorno, quindi delocalizzare per le aziende é un affare. Questa é la causa primigenia della morte della classe media nei paesi occidentali.
Terzo, aggiungiamoci la deflazione tecnologica, che consente di rimpiazzare manodopera di medio (una volta solo basso) profilo con robot e software e si capisce che gli stipendi dei paesi occidentali staranno al palo per anni. Pensiamo ad Amazon e alla soppressione delle vendite dei negozietti, delle librerie, all’home banking, alla robotica in campo industriale, al 3d printing, ai robot-trader.

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Certo, si creeranno altri posti di lavoro, ma la concorrenza sará globale ed é bene che cambiamo i programmi scolastici per far fronte a queste sfide (ovviamente in Italia la vedo dura visto che il ministro dell’istruzione ha la terza media).

Conseguenze? i (uso il plurale, perché le banche centrali si muovono di concerto) quantitative easing potrebbero andare avanti su scala globale e potremmo non vedere inflazione per anni. Se una banca centrale “comprime”, state pur certi che un’altra “espande”. Se solo i QE vengono soppressi, si innescherá una paurosa crisi di liquiditá che sgonfierá in breve tempo i valori di azioni, titoli e case, portando disoccupazione e distruzione di ricchezza nominale. Cosa che i politici non accetteranno mai.

Ci sono altri tre aspetti che a mio avviso vanno a braccetto con i QE: uno é il rafforzamento dello Stato nei controlli di acquisti con incremento della tassazione, un altro l’abolizione del contante, con prelievo coatto dai conti correnti, e per ultimo viene il reddito universale. Ne parleremo in un’altra occasione.
 

tontolina

Forumer storico
Ma siamo davvero sui massimi?

Tony Cioli Puviani
Se ci riferiamo ai prezzi degli asset finanziari, è il concetto di "alto" o "basso" che è errato. Non esiste mai per definizione un prezzo alto o un prezzo basso, il prezzo esprime sempre l'equilibrio del mercato, amen.
Il Prezzo è il valore economico di un bene o di un servizio espresso in valuta, ma è per natura fluttuante perché si confronta continuamente con il mercato che a sua volta prende in esame moltissimi fattori che sono in continua evoluzione.
Il Prezzo quindi viene determinato dalla domanda e dall'offerta, che a sua volta è continuamente influenzata da tante cause, la maggior parte delle quali imponderabili. Da qui la necessaria aleatorietà dei prezzi che è obbligatoria e necessaria.
Considerare la storia di un prezzo per tentare di determinarne "ex ante" i valori massimi o minimi futuri è un esercizio sterile. Sono troppe le variabili che andrebbero valutate e troppe le variabili future imponderabili.
Solo qualche anno fa, un'azione che aveva una prospettiva solida di poter dare un dividendo del 2% era ritenuta non interessante. Oggi questa considerazione è obsoleta; le valutazioni sono cambiate perché i rendimenti dei titoli ritenuti più sicuri sono stati azzerati o addirittura sono negativi. Non sono negativi "perché è follia", lo sono perché la domanda aggregata di asset obbligazionari si è intensificata in maniera straordinaria e perché al sistema bancario detenere liquidità costa. Constatiamolo e basta!
Quello che solo ieri poteva apparire assurdamente "alto" oggi invece appare conveniente. E' un dato di fatto, amen.
Parlare di S&P a 2550 solo un paio d'anni fa pareva una follia, oggi no.
L'assenza di volatilità e la lentezza dei movimenti in uptrend ha l'effetto di consolidare nel cervello degli operatori i nuovi valori ai quali in breve tempo ci si abitua. L'assenza di strappi in un senso o nell'altro abbassa le probabilità tipiche della bolla, come invece, almeno stando agli attuali movimenti, potrebbe già sussistere nelle criptovalute.
Quando il bund (2009) rendeva anche oltre il 3% per ottenere €3.000 di rendimento ci volevano € 100.000, adesso con il decennale tedesco che rende lo 0,4%, per ottenere gli stessi €3.000 ce ne vogliono €750.000. Per chi ama ragionare credo sia un esempio significativo.
 

tontolina

Forumer storico
Ma siamo davvero sui massimi?

Tony Cioli Puviani
Se ci riferiamo ai prezzi degli asset finanziari, è il concetto di "alto" o "basso" che è errato. Non esiste mai per definizione un prezzo alto o un prezzo basso, il prezzo esprime sempre l'equilibrio del mercato, amen.
Il Prezzo è il valore economico di un bene o di un servizio espresso in valuta, ma è per natura fluttuante perché si confronta continuamente con il mercato che a sua volta prende in esame moltissimi fattori che sono in continua evoluzione.
Il Prezzo quindi viene determinato dalla domanda e dall'offerta, che a sua volta è continuamente influenzata da tante cause, la maggior parte delle quali imponderabili. Da qui la necessaria aleatorietà dei prezzi che è obbligatoria e necessaria.
Considerare la storia di un prezzo per tentare di determinarne "ex ante" i valori massimi o minimi futuri è un esercizio sterile. Sono troppe le variabili che andrebbero valutate e troppe le variabili future imponderabili.
Solo qualche anno fa, un'azione che aveva una prospettiva solida di poter dare un dividendo del 2% era ritenuta non interessante. Oggi questa considerazione è obsoleta; le valutazioni sono cambiate perché i rendimenti dei titoli ritenuti più sicuri sono stati azzerati o addirittura sono negativi. Non sono negativi "perché è follia", lo sono perché la domanda aggregata di asset obbligazionari si è intensificata in maniera straordinaria e perché al sistema bancario detenere liquidità costa. Constatiamolo e basta!
Quello che solo ieri poteva apparire assurdamente "alto" oggi invece appare conveniente. E' un dato di fatto, amen.
Parlare di S&P a 2550 solo un paio d'anni fa pareva una follia, oggi no.
L'assenza di volatilità e la lentezza dei movimenti in uptrend ha l'effetto di consolidare nel cervello degli operatori i nuovi valori ai quali in breve tempo ci si abitua. L'assenza di strappi in un senso o nell'altro abbassa le probabilità tipiche della bolla, come invece, almeno stando agli attuali movimenti, potrebbe già sussistere nelle criptovalute.
Quando il bund (2009) rendeva anche oltre il 3% per ottenere €3.000 di rendimento ci volevano € 100.000, adesso con il decennale tedesco che rende lo 0,4%, per ottenere gli stessi €3.000 ce ne vogliono €750.000. Per chi ama ragionare credo sia un esempio significativo.

Massimo Moschella Io non so se siamo sui massimi - e non lo sa nemmeno Bollinger intervistato l'altro ieri a Milano - ma qualche conto comincia a non tornare. A parte la evidente cavalcata degli indici Usa (Bollinger parlava di una long long run da attenzionare), Tom McClellan ci avvisa che da ben 16 anni il suo oscillatore non toccava gli stessi minimi fatti riscontrare nel 2001. Trend is your friend. Ma teniamo le orecchie drizzate...
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Massimo Moschella
 

tontolina

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Pericolo recessione, curva dei rendimenti Treasuries rischia inversione nel 2018
13/10/2017 11:41 di Laura Naka Antonelli
Pericolo recessione, curva dei rendimenti Treasuries rischia inversione nel 2018

La curva continua ad appiattirsi a livelli record. Manca poco all’inversione: che di solito non è di buon auspicio.

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La curva dei rendimenti dei titoli di stato Usa non è mai stata così piatta dall’inizio dell’ultima recessione. E’ quanto fa notare Bloomberg, sottolineando che la differenza tra i tassi dei Treasuries a 5 anni e quelli a 30 anni è scesa sotto i 92 punti base.



Il trend potrebbe continuare, fino a creare una curva dei rendimenti invertita, in cui i tassi a lungo periodo sono più bassi di quelli a breve scadenza: una situazione che, di norma, viene considerata campanello di allarme di una imminente recessione.



Intervistata da Bloomberg, Lacy Hunt, responsabile economista presso Hoisington Investment Management, bullish sui bond dal 1990, afferma che la Fed sta facendo un gioco pericoloso, nell’iniziare a smantellare quei $4,5 trilioni di asset acquistati durante le precedenti operazioni di QE, che zavorrano il suo bilancio.

Per Hunt si tratta di una mossa che rischia di strozzare la crescita del credito, indebolire l’economia, e schiacciare l’inflazione, che rimane già testardamente bassa.

Di conseguenza secondo l’esperto, se la Fed dovesse ridurre il bilancio fino alla fine del 2018, il risultato sarebbe molto probabilmente l’inversione totale della curva dei rendimenti.

Ex economista presso la Fed di Dallas, Hunt ha spiegato nel corso di un’intervista telefonica che, di norma, “i bond a lungo termine sono volatili ma ciò che determinerà i loro rendimenti saranno le aspettative sull’inflazione“. E visto che la Fed, come è emerso d’altronde anche dalle ultime minute, andrà avanti nel percorso di rialzo dei tassi, avviando anche la riduzione del bilancio, i tassi di lungo periodo scenderanno.

L’ultima volta in cui la curva dei rendimenti dei Treasuries si è invertita è stato nell’agosto del 2007, quattro mesi prima che gli Usa entrassero ufficialmente in una recessione, che sarebbe durata 18 mesi.

L’inversione della curva non ha anticipato solo quella recessione ma, in totale, le ultime sette crisi economiche.



I funzionari del Fomc, il braccio di politica monetaria della Fed, stimano che il target sui fed funds sarà pari al 2,125% entro la fine del 2018, superiore di 1 punto percentuale rispetto ai valori attuali.

Bloomberg sottolinea che, affinché si assista a una inversione dell’intera curva, i tassi dei Treasuries a 30 anni dovrebbero scendere al minimo record del 2,09%, testato nel luglio del 2016.
 

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