Tassi, QE e carry trade (1 Viewer)

tontolina

Forumer storico
Ma c’è un pericolo più grave e imminente che sconsiglia un aumento dei tassi: il carry trade.
(Per chi non l’avesse ancora capito i vari quantitative easing non servono a creare produzione, innovazione e occupazione ma a promuovere questo tipo operazioni)

IL GRANDE BLUFF: DOLLARO FORTE? SE NEL 2008 C?E STATA ?UNA? CRISI, ORA POTREBBE ESSERCI ?LA? CRISI (guest post)



DOLLARO FORTE? SE NEL 2008 C’E STATA “UNA” CRISI, ORA POTREBBE ESSERCI “LA” CRISI (guest post)




DOLLARO FORTE? SE NEL 2008 C’E STATA “UNA” CRISI, ORA POTREBBE ESSERCI “LA” CRISI
http://www.investireconlacrisi.it/
di Gerardo Coco
La rivalutazione del dollaro sta impensierendo la Federal Reserve e non solo.
La maggior parte del debito mondiale è denominata in questa valuta ma il reddito per pagarlo è espresso in valute relativamente più deboli e pertanto il costo dell’esposizione per i debitori è aumentato: ci vuole più valuta locale per comprare dollari per pagare capitale e interessi.
Dollaro forte significa turbolenza in arrivo.
Un criterio per stimare la vulnerabilità dell’economia mondiale e il rischio di una sua involuzione è dunque la valutazione del debito in dollari.
Negli ultimi 40 anni è stato raro vedere un dollaro forte ma quando lo è diventato è stata subito crisi.
Nel 1997/98 parecchi paesi asiatici e la Russia furono costretti a svalutazioni drammatiche e default dei debiti contratti in dollari.
Il termine “contagio” entrò nel vocabolario finanziario e oggi il rischio di contagio mondiale dovuto alla rivalutazione del dollaro è, rispetto a quell’epoca, alla terza potenza.
Nel mercato globale sono stati presi in prestito 9 trilioni di dollari.
Per render l’idea: un valore pari alla somma del PIL del Giappone e della Germania.
Movimenti bruschi o contrazioni di questa massa di denaro possono sconvolgere in pochi secondi l’intera finanza mondiale.
Fino al 2008.............
.
Il dollaro era rimasto debole rispetto alle più importanti valute fino a quando, dopo lo scoppio della crisi, la U.S. Federal Reserve adottando il primo quantitative easing inondò di liquidità il mercato dei capitali.
Di norma massicce dosi di liquidità indeboliscono una valuta ma il dollaro invece si è rafforzato.
Il panico conseguente alla crisi mondiale lo ha trasformato in moneta rifugio globale.
A rivalutarlo hanno contribuito non poco i capitali in fuga dall’Europa e investiti in titoli del tesoro americano.
Nel 2013 il Giappone ha iniziato la sua campagna monetaria con l’obiettivo di svalutare lo yen per guadagnare quote di mercato a spese del dollaro.
E ora è arrivata l’offensiva europea con lo stesso obiettivo dopo che la FED ha sospeso il suo quantitative easing.
Nel gennaio di quest’anno è bastato che la BCE, annunciasse il programma di € 1.2 miliardi di QE per far scendere l’euro rispetto al dollaro da una media di $1.30 nei tre anni precedenti, a $1.14.
A marzo dopo la prima infornata di liquidità, l’euro è caduto a quota $1.05.
Dal settembre 2014 l’euro ha perso complessivamente il 20% rispetto al dollaro: un calo enorme per la seconda valuta mondiale.


Goldman Sachs prevede la parità tra dollaro ed euro entro il 2016
e addirittura sotto, a 0.90 entro il 2018.


Ma un dollaro così forte rischia di fare gravi danni.
Non solo ai paesi indebitati ma alla stessa economia USA: al settore esportazione, al turismo e non ultimo alle grandi società americane quotate nell’indice S&P 500 i cui redditi provenienti per oltre il 40% da vendite in paesi esteri, una volta convertiti in dollari, vengono svalutati.
In sede di Federal Reserve oggi la grande questione è se i tassi di interesse debbano aumentare o meno.
Nel dicembre del 2014 uscivano dati confortanti sull’economia americana e una ripresa economica comporta sempre l’aumento dei tassi di interesse dovuto alla maggior richiesta di credito per investimenti e consumi per cui il comitato di politica monetaria della Federal Reserve, il (Fomc) presieduto da Janet Yellen pianificava un aumento del federal fund rate, il tasso interbancario fermo al 0.25 (contro lo 0.05 dell’eurozona e 0.01 del Giappone).
Ma la ripresa americana era un’illusione tanto è vero che la Yellen ha rivisto al ribasso le previsioni del PIL del primo trimestre di quest’anno: un aumento del tassi invece di accompagnare la ripresa innescherebbe una recessione.
Un aumento di solo l’1% significa 150 -175 miliardi in più di interessi sul debito statunitense, una bolla a rischio di esplosione.

Ma c’è un pericolo più grave e imminente che sconsiglia un aumento dei tassi:
il carry trade.
Cos’è il carry trade?

E’ la pratica che consiste nel prendere a prestito una valuta di un paese con un basso tasso di interesse, convertirla in una valuta di un paese dove l’interesse è più alto.
Il carry trade si finanza con forte leva finanziaria anche superiore al 100%.
Ad esempio ci sono operatori che si sono indebitati per milioni di euro con le banche europee, li hanno trasformati in dollari, comprato attività finanziare a più alto rendimento negli USA e ora ripagano il debito in euro svalutati del 20%.
Il tutto con una leva finanziaria di 100:1 cioè mettendo a garanzia di tutta l’operazione un centesimo di capitale.
(Per chi non l’avesse ancora capito i vari quantitative easing non servono a creare produzione, innovazione e occupazione ma a promuovere questo tipo operazioni).

Ma c’è anche il carry trade del dollaro: almeno 3 trilioni sono stati investiti nei mercati emergenti in questo modo.
Se si prende a prestito allo 0.25% in USA e si acquistano titoli finanziari che rendono il 13% è un bell’affare.

Quali sono i rischi?
Il primo è che se la valuta in cui il prestito è denominato, cioè il dollaro, si rafforza e la valuta in cui si percepiscono gli interessi, ad es. il real brasiliano si svaluta, il vantaggio del carry trade svanisce.
Il secondo rischio è che il paese emergente indebitato in dollari non riesca a rifinanziarsi man mano che il dollaro si rivaluta e collassino tutte le sue attività finanziarie.

Già ci sono dei segnali pericolosi:
Il real brasiliano ha perso il 20% sul dollaro,
l’Australia il 16%,
e così il rand sudafricano, il peso messicano, la lira turca ecc. sono tutte valute in discesa rispetto al dollaro.
Un default di questi paesi comporterebbe una contrazione monetaria spaventosa e il crollo di tutte le borse.
Qualsiasi investimento finanziato in dollari collasserebbe.

Come si esce dal carry trade?
Vendendo le attività finanziarie acquistate nei paesi emergenti e rimpatriando i dollari.
Ma questo disinvestimento avrebbe un immediato effetto su tutte le valute.
Quelle dei paesi emergenti crollerebbero e il dollaro si rafforzerebbe ancora di più erodendo la competitività degli USA e aumentando il valore del suo debito.
E’ dunque pensabile che la Yellen aumenti i tassi?
No, è più probabile che lanci un nuovo quantitative easing per scongiurare una precipitosa fuga dal carry trade e fermare la corsa folle del dollaro alla ricerca di rendimenti più alti.

Ma i segnali del contagio come abbiamo detto, sono già apparsi. Sarà dunque la forza del dollaro a scatenare il prossimo inferno finanziario?
Altro che crisi asiatica del 1997/1998.
Quella si misurava in miliardi.
Quella odierna in trilioni, grazie ai quantitative easing destabilizzanti delle banche centrali.
Nel 2008 c’è stata una crisi.
Fra non molto ci potrebbe essere La Crisi.
 

tontolina

Forumer storico
Lavoro: che bella parola...

E sia, ma spesso questi concetti sono inglobati in una più generica precarizzazione degli stessi lavoratori i quali, alla fine, sono anche consumatori. E se un lavoro non è stabile, difficilmente ci si può permettere il lusso di poter affrontare nuove spese soprattutto sul lungo periodo. il che blocca il classico concetto di fondo e cioè “far girare l’economia”. Senza contare che anche il costo del lavoro è calmierato, questo lo è per le aziende solo sui tre anni. In altre parole se tra tre anni chi ha assunto non è più in grado di reggere il costo della risorsa (magari per una crisi che nel frattempo non è passata) potrebbe tranquillamente licenziare in tutta libertà. Quindi il problema potrebbe essere rimandato ed esplodere tra tre anni.


da Europa: e se invece del Boom avessimo un Flop?


Europa: e se invece del Boom avessimo un Flop? | Trend Online
 

tontolina

Forumer storico
Eurosistema, cos’è il TARGET2 – i valori aggiornati a febbraio 2015

TARGET2, l’approfondimento a cura di ABC Economics (Stefano Fugazzi)
CHE COS’È IL TARGET2?
All’indomani dell’introduzione della moneta unica, il comitato delle banche centrali europee (l’Eurosistema) ha varato un meccanismo noto come TARGET1 (acronimo perTrans-European Automated Real-time Gross Settlement Express Transfer System) con lo scopo di regolamentare le attività e i pagamenti interbancari. Tuttavia, l’avvento della moneta unica ha segnalato la necessità di affinare e integrare maggiormente i processi di regolamentazione concordati nel 1999. A tal fine è stato allestito il TARGET2, un sistema centralizzato in grado di regolamentare – e quindi riequilibrare in tempo reale – gli squilibri della bilancia dei pagamenti dei Paesi membri dell’Unione Europea. I sistemi di pagamento delle banche centrali sono tipicamente utilizzati per la liquidazione dei crediti provenienti dalle operazioni interbancarie e dai sistemi ausiliari. Tali sistemi ausiliari regolamentano una serie di attività quali il pagamento al dettaglio (retail), le stanze di compensazione, le operazioni in titoli e in valuta. Nel bilancio delle banche centrali, tali regolamentazioni vengono contabilizzate alle voci “Rapporti con l’Eurosistema (TARGET)” nell’attivo e nel passivo.
La seguente tabella riassume le principali voci dello stato patrimoniale di una banca centrale.

COME FUNZIONA IL TARGET2
Al fine di comprendere meglio il funzionamento di TARGET2 si faccia riferimento al seguente esempio. Si presupponga che un’azienda privata italiana richieda alla propria banca un prestito per finanziare l’acquisto di un’autovettura tedesca. Per adempiere la richiesta del privato, l’istituto di credito richiede alla Banca d’Italia di stampare la somma di denaro corrispondente da prestare al proprio cliente. Ciò determina la contabilizzazione di un’attività (il prestito di denaro alla banca commerciale viene contabilizzata alla voce “crediti” nel bilancio di Bankitalia) e passività (emissione di moneta, “banconote in circolazione in Italia”) nel bilancio della banca centrale italiana. Una volta ottenuto il finanziamento, tale somma viene accreditata sul conto corrente bancario della casa automobilistica tedesca. Tuttavia, il nuovo denaro entrato in circolo nell’economia tedesca crea uno scompenso. Infatti, tale denaro non è stato emesso dalla Bundesbank la quale, tuttavia, sarà costretta a contabilizzare la passività (“banconote in circolazione in Germania”) senza aver effettivamente elargito alcun credito verso la banca privata tedesca (e di riflesso verso la casa automobilistica). Al fine di estinguere lo scompenso monetario venutosi a creare all’interno dell’economia tedesca, la Bundesbank normalizza in tempo reale la posizione avvalendosi dello strumento TARGET2 dell’Eurosistema.
TARGET2, GLI ULTIMI DATI (fonte: “Euro Crisis Monitor”, elaborazione dati ECB)


Consigliamo anche il seguente approfondimento a cura di Vito Lops de Il Sole 24 Ore: LINK
 

big_boom

Forumer storico
io penso che europa e usa con il QE non interessa "il lavoro" e il benessere
sapete cosa interessa? diminuire i consumi interni, trasferire ricchezza nelle mani dei potenti, azzerare la sovranita' degli stati, spezzare la forza sindacati/lavoro trasferendo le attivita' produttive di bassa tecnologia all'estero, diminuire l'import, svalutare le proprie valute nazionali, finanziare attivita' militari di aggressione ed espansione

insomma roba da veri "cattivi" altro che qualche mafiosetto italiano
 

tontolina

Forumer storico
ho sempre ammirato la capacità di argomentare del dott. alessandro Fugnoli
ma questa volta mi piace davvero tanto... :D

FRONTE DEL PORTO 2 aprile 2015
Dai profitti ai salari, il pendolo inizia a cambiare direzione
Per spiegare la debolezza del Pil americano nel primo trimestre che si è appena concluso si parla moltissimo del freddo e, molto meno, dello sciopero dei portuali della costa ovest. Il maltempo invernale fa discutere tutti gli anni perché tutti gli anni il global warming gira alla larga dal Nordamerica, che rimane stretto nella morsa del gelo e avvolto dal vortice polare.
Ogni anno, quindi, si accendono due tipi di dibattiti. Il primo è tra quelli che sostengono che l’inverno in corso è eccezionalmente freddo e quelli che fanno invece notare che erano parsi al momento eccezionalmente freddi anche tutti gli inverni precedenti. Il secondo dibattito è tra quelli che sostengono che il freddo spiega il deludente risultato del Pil e quelli che invece affermano che i principali dati macro escono da sempre regolarmente destagionalizzati, ovvero intiepiditi in inverno e rinfrescati d’estate, per cui è inutile girarci intorno e se un dato è brutto, è brutto e basta.
Più interessante, vista la qualità di questi dibattiti, appare quindi l’altra questione, quella dello sciopero che ha bloccato per alcune settimane i porti della costa ovest e impedito ai grandi magazzini di mezza America di esporre le nuove collezioni prodotte in Cina, rallentando altresì la produzione industriale, bloccata in molti casi dalla mancanza di componenti importati dall’Asia.
Abbiamo visto sul tema studi interessanti sulla perdita di competitività dei porti californiani, cari e inaffidabili. Abbiamo visto riflessioni sull’ampliamento del canale di Panama (e su quello che i cinesi vorrebbero scavare in Nicaragua) che permetterà a molte navi di evitare il porto di Los Angeles a favore dei porti texani.
Non ci è invece capitato di vedere commenti sul fatto che quello dei portuali è il primo grande sciopero del dopo-crisi. Basta infatti una rapida ricerca per notare che i grandi scioperi, una costante regolare nella storia americana, si sono fermati nel 2007-2008, quando vennero bloccate General Motors, Chrysler e Boeing. L’ultimo, epico per la sua durezza, fu quello dei 12mila sceneggiatori della radio, del cinema e della televisione. Durato quattro mesi, provocò per tutto il 2009 un drastico calo nel numero di film distribuiti nelle sale di tutto il mondo e l’accorciamento, a volte il dimezzamento, del numero di puntate delle serie televisive. Nelle serie del 2009, se ci avete mai fatto caso, l’ultima puntata è zeppa come un uovo di avvenimenti e colpi di scena perché quattro mesi di storie hanno dovuto essere concentrati in una settimana.
Dopo lo sciopero degli sceneggiatori, più nulla per sei anni.
La lunga pace sociale dei sei anni passati si spiega naturalmente con la debolezza dei sindacati, che l’amministrazione Obama ha cercato inutilmente di rafforzare in tutti i modi possibili. La cosa è perfettamente spiegabile nel contesto di disoccupazione dilagante, così come è invece normale che la pressione sindacale raggiunga il massimo quando c’è piena occupazione (come è stato il caso nel 2007-2008).
Lo sciopero dei portuali californiani ha dunque un elevato valore simbolico perché segna l’inizio di un nuovo ciclo in cui al Pil di uno o due trimestri all’anno capiterà di essere “sorprendentemente” colpito da un’esogena sindacale.
Ora, se mettiamo insieme lo sciopero, l’aumento delle retribuzioni orarie minime (deciso anche da stati repubblicani), le grandi catene di distribuzione
che aumentano i salari spontaneamente per non perdere i dipendenti e la disoccupazione scesa in sei anni dall’11 al 5.5 per cento, vediamo che la vecchia talpa del ciclo economico ha ben scavato e ora sta spuntando in superficie.
In questi anni del dopo-crisi abbiamo sentito due grandi narrazioni. La prima ci ha costantemente ricordato che i cicli economici ci sono ancora. La seconda ci ha invece detto che questa volta siamo dominati dal ciclo del credito, ancora orientato verso un deleveraging così potente da neutralizzare il ciclo economico ordinario.

Gli esponenti della prima scuola di pensiero si sono a loro volta divisi in due correnti. Quelli con gli occhiali neri ci hanno costantemente avvertito dell’imminente rialzo dell’inflazione e dei tassi (mai avvenuto). Quelli con gli occhiali rosa ci hanno costantemente parlato di un’imminente forte accelerazione dell’economia (mai verificatasi).

Gli esponenti della seconda scuola di pensiero, quella del ciclo del credito, si sono anche loro divisi in correnti.
La Banca dei Regolamenti Internazionali, vagamente ispirata alla scuola austriaca, ha sostenuto che la zombificazione delle banche e del debito sovrano attraverso il Quantitative easing continuerà a non cavare un ragno dal buco (uno studio recente della Bri quantifica soavemente nello 0.13, cioè nulla, per cento la diminuzione di disoccupazione causata dal Qe).
I keynesiani alla Krugman o alla Koo sostengono dal canto loro che a rendere vano il Qe sono gli spiriti animali a zero e che solo la spesa pubblica, non la politica monetaria, rilancerà sul serio il ciclo economico.
Abbiamo l’impressione che possano avere ragione tutti quanti. Il ciclo economico è sovraimpresso al ciclo del credito. Il deleveraging e gli spiriti animali depressi depotenziano ma, attenzione, non annullano il ciclo economico.
Se questo è vero, ne discendono due conseguenze rilevanti.
1) Il ciclo c’è. Non è forte, ma c’è. Senza grande clamore l’America è passata dall’altissima disoccupazione del 2009 alla piena occupazione di fine 2015. Anche l’inflazione c’è. Non è forte ma c’è. Togliendo il petrolio il Cpi era all’1.5 un anno fa ed è all’1.9 oggi. Se la Fed più colomba dei suoi
anni di storia si appresta ad alzare i tassi è perché riconosce che il ciclo c’è. I margini delle imprese, assediati dal costo del lavoro (per ora più per un aumento del numero di dipendenti che per un aumento delle retribuzioni) e dal costo del denaro che fra poco inizierà a risalire, sono per la prima volta sotto pressione. Il trasferimento di reddito dai salari ai profitti è finito e sta per iniziare il movimento in senso contrario.

2) Il ciclo c’è ma è iscritto in un ciclo del credito che lo depotenzia. La montagna di soldi che le banche parcheggiano nelle banche centrali a tasso zero verrà prelevata poco e lentamente. L’economia non si surriscalderà. Qualsiasi accelerazione americana verrà rimangiata sul nascere dal dollaro più forte. I bond saranno da vendere ma non crolleranno e avranno anzi periodici violenti ritorni di fiamma al primo segno di rallentamento della crescita. Le azioni americane non trarranno particolari benefici dal maturare ulteriore del ciclo.


Alessandro Fugnoli +39 02 777181
 

tontolina

Forumer storico
La stampa di moneta non è mai a costo zero: se lo fosse, perché non stamparne ancora di più e per più tempo? In fondo, se così fosse, ci sarebbe solo da guadagnarci in termini occupazionali, di salari medi, di nuovi massimi sui mercati. O no? Viviamo un cotesto multi bubbles, tenute in vita da altre 2 bolle: quella del dollaro e del debito sovrano USA. La buona notizia è che abbiamo ancora un po' di tempo per prepararci all'impatto, magari prendendo -in futuro- posizione per scommettere contro e sbancare Wall Street. Nel frattempo voi staccate internet, la tv, la radio, riponete i giornali e riflettete: a fronte del più incredibile aumento delle basi monetarie mondali -e nello specifico statunitense- i risultati dell'economia reale, sono soddisfacenti?

TRA GLI SQUALI DI WALL STREET: QUANDO LA CAMPANA SUONERA'
 

tontolina

Forumer storico
Mentre la crescita globale è in una fase di rallentamento, la svalutazione della moneta è diventata la principale arma adottata da un numero considerevole di banche centrali.

Con livelli di inflazione discendenti e un quadro macroeconomico in rallentamento, un numero impressionante di banche centrali si sono precipitate in manovre espansive: fino a quando si sono mantenuti sopra lo zero, hanno agito sulla leva dei tassi; esaurita la possibilità di agire sui tassi, sono passati a manovre di quantitative easing e hanno portato i tassi in territorio negativo. Un territorio inesplorato.


In controtendenza rispetto alle altre grandi banche centrali c'è praticamente solo il Brasile, che si trova a fare i conti con livelli alti di inflazione.
Perfino la Russia ha tagliato i tassi del 2% dopo l'aumento shock di dicembre necessario per contenere il deprezzamento del rublo.
A proposito della politica monetaria degli Usa sappiamo che il rialzo dei tassi, allo stato attuale, non è per nulla scontato. La questione dei tassi Usa, quindi, è una partita tutta da giocare e molto dipenderà dai dati economici delle prossime settimane e dei prossimi mesi.

Lo scorso giugno, la BCE ha portato il tasso sui depositi a -0,2%. Dopo pochi mesi, con uno scenario deflattivo ormai alle porte, i tassi negativi non erano abbastanza per svalutare l'euro. Ed ecco che è nato il Qe da 1100 miliardi di euro.

In risposta all'azione della Bce, la Banca Centrale Svizzera ha abbandonato il peg a 1.20 contro euro e ha portato i tassi in territorio negativo a -0.75%. Conseguenza: un terremoto nel mercato valutario.

Anche la Danimarca ha spinto i tassi sotto lo zero.

L'ultima banca centrale che è intervenuta nella corsa alla svalutazione è la banca centrale svedese che ha ridotto ulteriormente il tasso di riferimento in territorio negativo e ha aumentato le dimensioni del suo programma di acquisto di bond.

La guerra valutaria ha determinato una grande svalutazione delle principali valute contro il dollaro: dollaro australiano, euro, yen, dollaro canadese e sterlina inglese hanno svalutato pesantemente contro USD.





L'assurdità della corsa globale alla svalutazione è che si ritiene che possa essere una panacea per il rallentamento della crescita globale. Ma se tutti svalutano è come se nessuno svaluta. E nella corsa globale alla svalutazione, pensare che una sola economia (quella USA) possa assorbire gli effetti della svalutazione di tutte le altre valute, è del tutto fuori da ogni logica. Dando per scontato che la svalutazione della moneta porti ad un incremento delle esportazioni, l'effetto collaterale è che qualcuno finisca per farsi male. Se da un lato le economie che svalutano godono di una maggiore capacità di esportare per via di una moneta più competitiva, dall'altro, l'economia che rivaluta (in questo caso il dollaro) patisce una perdita di competitività per via di una moneta più forte, che determina minori esportazioni. Non è un caso che il dollaro forte stia mettendo sotto pressione gli utili delle società USA.


Per contro, gli effetti delle manovre aggressive delle banche centrali impattano anche sui mercati azionari e obbligazionari. Più le banche centrali sono espansive tanto più i mercati sono rialzisti, con il rischio che si creino bolle per via del fatto che i prezzi delle attività non sono supportati da validi e robusti fondamentali economici. Ne costituisce un esempio tangibile la bolla che si è creata sui mercati obbligazionari, soprattutto europei.
Dal 2004, le banche centrali delle maggiori economie sviluppate hanno accumulato emissioni sovrane per USD 10 trilioni di dollari, continuando ad esprimere una domanda di Usd 3 trilioni all'anno a fronte di emissioni nette per Usd 2.5 trilioni. Questo squilibrio tra domanda e offerta è una delle principali cause del fatto che, solo in Erozona, circolano quasi euro 2000 miliardi di titoli con rendimenti negativi e molti altri ancora offrono rendimenti vicini allo zero, nonostante siano emessi da emittenti di dubbia solvibilità.

Gli effetti distorsivi sono enormi, così come lo sono anche i rischi per i risparmiatori che sono costretti ad orientare le proprie strategie di investimento a favore di attività via via più rischiose.
La fede riposta nelle banche centrali per risolvere i problemi economici del mondo non è mai stata così alta, ma l'effetto sui mercati sembra essere. Per anni le azioni delle banche centrali sono stati una fonte di stabilità finanziaria, ma stanno sempre più diventando una fonte di volatilità.

Un recente paper della Banca Internazionale dei Regolamenti (la banca centrale delle banche centrali) conclude affermando che le ricadute della politica monetaria possono essere importanti fonti di instabilità macroeconomica e finanziaria mondiale. Questo solleva questioni importanti sul fatto che le banche centrali dovrebbero fare di più per prendere in considerazione le conseguenze delle loro azioni.
Per dirla usando le stesse parole del Prof Orsi: "Anche se già il compromesso della moneta non convertibile in metalli preziosi (fiat currency) era basato su un altro difficile compromesso tra credibilità e fiducia, la gestione dell’offerta di moneta era pur sempre improntata al principio economico di scarsità, e all’idea del denaro come deposito di valore e lubrificante degli scambi, nell’ottica di una rapida circolazione dello stesso. Oggi ci troviamo in una situazione completamente diversa nella quale, soprattutto con riferimento al dollaro in qualità di moneta globale, l’offerta è potenzialmente illimitata e, dunque, non vi è scarsità. Ogni perdita può e deve essere appianata, secondo il principio del too big to faile per la protezione del sistema finanziario. Ma se non esistono più le perdite, per una questione dialettica non esistono più nemmeno i profitti. Se non esistono né perdite né profitti, non esistono più né la concorrenza né il mercato: il cerchio si chiude.

Per gentile concessione del blog VincitorieVinti.com


- See more at: Svalutazione globale - Economia - Commoditiestrading


http://commoditiestrading.it/spread-trading/Svalutazione-globale-2593.aspx#sthash.8SnSxrer.dpuf
 

tontolina

Forumer storico
Ecco perché le banche centrali hanno paura di alzare i tassi. E stanno creando un'altra maxi-bolla

di Vito Lops26 marzo 2015Commenti (38)
Ecco perché le banche centrali hanno paura di alzare i tassi. E stanno creando un'altra maxi-bolla - Il Sole 24 ORE

My24


yellen-tlf-afp-U10175353656W0E--258x258@IlSole24Ore-Web.jpg
Il governatore della Federal Reserve, Janet Yellen (Ap)





Da sette anni il tasso di interesse negli Usa è fermo al range 0-0,25%. Nell’Eurozona, dove il tasso della Bce è fermo allo 0,05% accade anche che circa il 60% delle obbligazioni governative tedesche in circolazione offrano rendimenti negativi, così come il 45% di quelle francesi, l'80% di quelle svizzere. Sottozero viaggia anche il 30% dei titoli giapponesi. Ma, se vogliamo, questa non è una novità dato che da 15 anni il Giappone combatte con la deflazione e fa fatica a riportare un po’ in alto il livello dei prezzi pur avendo varato dal 2012 un corposo piano di iniezione monetaria (quantitative easing).
La sfilza dei paradossi non finisce qui. Da inizio anno 26 banche centrali in tutto il mondo hanno tagliato i tassi di interesse. La Svezia ha portato il tasso di riferimento a -0,25%, la Svizzera a -0,75%. Lo stesso livello della Banca della Danimarca che ha operato quattro tagli in un mese portando appunto il tasso di riferimento su livelli glaciali: -0,75%. Un tasso che “costringe” adesso le banche danesi a vendere mutui a tassi negativi. In pratica il cliente riceve degli interessi per chiedere denaro in prestito.

È il ribaltamento della finanza. Uno dei tanti segnali che qualcosa sta andando storto, che al di là delle frasi di facciata che riproducono ottimismo la nuova era glaciale della finanza, quella dei tassi sottozero delle banche centrali, non promette nulla di buono del medio-termine.
Del resto, perché è scoppiata l’ultima crisi finanziaria globale nel 2007? I derivati subprime venduti dalle banche Usa in tutto il mondo sono collassati dopo che la Federal Reserve ha iniziato ad alzare i tassi di interesse. L’ex governatore Alan Greenspan viene ancora accusato di questo quando gira il mondo nel suo nuovo ruolo di conferenziere. Siamo a metà 2000 quando decise di iniziare a tagliare i tassi portandoli rapidamente dal 6% all’1% del 2004. Allo stesso tempo di fronte a tassi di interessi così bassi (a quel tempo erano ai minimi storici) le banche Usa iniziarono a prestare a raffica mutui a tasso variabile senza chiedere troppe garanzie. Perché l’obiettivo finale non erano i guadagni sui mutui ma quelli derivanti dall’impacchettamento di quei prestiti in obbligazioni da vendere in giro con cedole più alte dei magri tassi di interesse dei bond governativi. Per questo motivo venivano concessi a maglie larghe, anche a redditi subprime.
La bolla è scoppiata quando lo stesso Greenspan, preoccupato per un surriscaldamento dell’economia e di un’impennata dell’inflazione, rialzò i tassi velocemente portandoli dall’1% del 2004 al 5,5% del 2006. A quel punto il castello dei mutui a tassi variabili subprime e dei derivati annessi ci ha messo un paio d’anni per crollare del tutto, culminando nel settembre del 2008 con il fallimento di Lehman Brothers.
 

tontolina

Forumer storico
Nel numero di Time del 13 giugno 2005 il giornale ha, ancora una volta con tempestività e ottimo intuito, pubblicato un articolo sulla mania per l’acquisto delle case. Il titolo del servizio, Home $weet Home, la dice tutta sull’opinione in merito all’incremento dei prezzi esplosivo. Due anni dopo, nel 2007, a causa dei prezzi elevati e del costo del denaro sempre maggiore scoppierà la bolla dei mutui subprime che costringerà molti possessori di case a vendere il proprio immobile all’asta. Il credito concesso troppo facilmente dalle banche è considerato, ancora una volta, una delle cause della crisi. Nel 2008, la banca d’affari Bear Stearns, rischierà il fallimento proprio a causa delle insolvenze sul pagamento dei mutui.

da Il boom immobiliare in Florida - Traderpedia
 

Users who are viewing this thread

Alto