SPAGNA: è rivoluzione (1 Viewer)

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Elezioni Spagna, Podemos vince a Barcellona, a Madrid allenza con il Psoe. Rajoy primo, ma è crisi di voti

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Il terremoto annunciato per la politica spagnola alla fine si è verificato alle amministrative e regionali di ieri, che hanno visto i post-indignados di Podemos prendere Barcellona, avvicinarsi anche alla conquista della capitale e imporre ai due grandi partiti tradizionali Pp e Psoe un drastico ridimensionamento




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Spagna. Valanga Podemos logora PP. Madrid a sinistra dopo 24 anni - euronews


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Banca di Spagna preleva oro dalla Catalogna in vista del voto sull'indipendenza

Stampa Invia Commenta (1) di: WSI | Pubblicato il 25 settembre 2015| Ora 10:24


Giornata cruciale quella di domenica 27 settembre per la Spagna quando gli elettori saranno chiamati a votare per l’indipendenza o meno della Catalogna dal resto del Paese.

Dopo il referendum in Scozia che è stato perso dagli indipendentisti, la Catalogna che da sempre si è sentita "diversa" dal resto della Spagna, vuole dichiarare la sua indipendenza.
Secondo gli ultimi sondaggi i partiti indipendentisti riuniti nella coalizione del "Junts pel sì" (Insieme per il sì) sarebbero in netta maggioranza e pronti a conquistare tra 75 e 77 seggi.

I pro e gli anti indipendentisti guardano a Barcellona come il campo di battaglia cruciale. La città, polo turistico d’eccellenza, che ha ospitato i Giochi olimpici e gioiello dell’architettura mondiale, è da sempre al centro delle discussioni e polemiche in merito alla secessione dalla Spagna.

I sostenitori della non indipendenza si aspettano che la città e tutta la sua periferia agiscano difendendo Barcellona dagli attacchi dei secessionisti.
"Cosa accadrà in Catalogna il 27 settembre non dipenderà dagli indipendentisti, ma dipenderà da uomini e donne nella città di Barcellona che non sono indipendentisti e che tradizionalmente non votano alle elezioni regionali" – ha detto Xavier Garcia Albiol, leader del Partito Popolare conservatore – "Se votano questa volta nessuno sarà in grado di dividere la catalogna dal resto della Spagna".

Dovrebbe avvenire nel giro di 18 mesi invece, ha detto Artur Mas segretario generale della CDC, la Convergenza Democratica di Catalogna che reclama proprio l’autonomia della Catalogna, la procedura per l’indipendenza dalla Spagna.

Insomma un momento cruciale per la storia spagnola e in questo contesto la Banca di Spagna, proprio in vista del voto sull’indipendenza, si starebbe apprestando a ritirare l’oro dalla Catalgona.

Tanti furgoni blindati hanno invaso Catalogna Square, sede della Banca e poi si sono diretti in direzioni sconosciute. Nessun commento da parte della Banca di Spagna che ha liquidato l’accaduto parlando di una normale operazione di routine.
 

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Telegraph: La rivoluzione politica in Spagna manda in pezzi l’illusione di una ripresa dell’Eurozona

http://vocidallestero.it/2015/12/23/telegraph-la-rivoluzione-politica-in-spagna-manda-in-pezzi-lillusione-di-una-ripresa-delleurozona/




Un interessante commento di Ambrose Evans Pritchard al risultato elettorale spagnolo, con un’ampia disamina delle gravi condizioni dell’economia spagnola, nonostante la propaganda che la vorrebbe in crescita e fuori dalla crisi. Tanto è vero che le elezioni hanno punito i partiti che hanno condotto a questo. Resta da vedere se una coalizione tra le forze di sinistra saprà rispondere alle aspettative del popolo elettore, ma purtroppo questo rischia di essere un film già visto.

di Ambrose Evans-Pritchard, 21 Dicembre 2015
traduzione di @Rododak
“Il nostro messaggio all’Europa è chiaro. La Spagna non sarà mai più la periferia della Germania. Noi riaffermeremo il significato della sovranità”, ha affermato Podemos
La Spagna rischia mesi di paralisi politica e una micidiale resa dei conti con la Germania sull’austerità fiscale, dopo che il movimento di protesta ha sfasciato il tradizionale sistema a due partiti, lasciando il Paese praticamente ingovernabile.
Il terremoto elettorale dello scorso weekend in uno dei quattro grandi Stati dell’Eurozona ha richiamato gli scioccanti capovolgimenti di quest’anno in Grecia e Portogallo, avvertendo che la bomba politica a scoppio ritardato di questi anni di depressione economica e disoccupazione di massa può esplodere anche quando il peggio sembra essere alle spalle.
Non c’è una via d’uscita facile all’insormontabile disastro economico della Spagna
Sulla borsa di Madrid i titoli bancari sono crollati quando gli investitori, allarmati, si sono resi conto della possibilità che si formi una coalizione di sinistra, che includa il partito estremista di Podemos: che ha conquistato il 20,7 per cento dei voti minacciando di mandare all’aria il salvataggio delle banche stabilito dal governo e di ristrutturare il debito pubblico.


Pablo Iglesias, il leader – con coda di cavallo – dei ribelli di Podemos ha avvertito Bruxelles, Berlino e Francoforte che la Spagna riprende il controllo del suo destino, dopo gli anni in cui si è inchinata alle richieste dell’eurozona.
Il nostro messaggio all’Europa è chiaro. La Spagna non sarà mai più la periferia della Germania. Lotteremo per riaffermare il significato della parola sovranità per il nostro Paese“, ha dichiarato Iglesias.
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Lo spread sui bond spagnoli a 10 anni è balzato in su di otto punti base, arrivando a 123 punti sopra i Bund tedeschi, benché non ci sia il rischio imminente di una nuova crisi di debito, finché la BCE compra bond spagnoli nel quadro del quantitative easing. L’indice IBEX è scivolato del 2,5 per cento, con Banco Popular e Caixabank giù entrambi del 7 per cento.


Il premier Mariano Rajoy ha perso la maggioranza assoluta in parlamento. Il Partito Popolare, conservatore, è crollato dal 44 al 29 per cento: 5 milioni di voti in meno che Rajoy ha perso anche in seguito ai veleni disseminati da uno scandalo legato a questioni di corruzione.


Gli elettori hanno punito i due partiti principali che hanno dominato la politica spagnola fin dalla fine della dittatura di Franco, negli anni ’70, e che si sono avvicendati nel ruolo di riluttanti guardiani delle politiche di austerità dell’eurozona.


I socialisti del PSOE hanno evitato il disastro elettorale, ma hanno perso l’egemonia a sinistra e rischiano di essere aggirati e infine distrutti da Podemos, così come Syriza in Grecia ha incenerito il Pasok, che un tempo dominava.


Era stato ampiamente dato per scontato che Rajoy avrebbe avuto abbastanza seggi alleandosi con Ciudadanos, partito liberista e anticorruzione, ma questo nuovo movimento riformista si è arenato nelle ultime settimane di chiusura della campagna elettorale.
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C’è un’enorme fatica legata all’austerità e il Paese nel suo insieme si è chiaramente spostato a sinistra“, ha commentato Nicholas Spiro, stratega di investimenti in obbligazioni sovrane. Però la sinistra non ha conquistato abbastanza voti per formare un governo certo.
Ora il problema è se la Spagna è governabile. Tutti i partiti sono ai ferri corti e questo potrebbe trascinarsi per settimane. Non vedo alcuna soluzione sostenibile. Di sicuro possiamo scordarci le riforme“, ha concluso.


Secondo Nicholas Spiro, la Spagna ha già visto un “deterioramento accentuatissimo” dello stato delle finanze pubbliche negli ultimi diciotto mesi, benché questo sia stato mascherato da un rimbalzo ciclico, dallo stimolo legato al basso prezzo del petrolio e all’euro debole, e dal QE di Francoforte. “Sono stati semplicemente scambiati per crescita“, dice.


Yvan Mamalet della Société Générale ha dichiarato che il tasso potenziale di crescita della Spagna è crollato all’1%, dal 3% precedente alla crisi, segno dei danni provocati dall’effetto “isteresi” legato alla disoccupazione a lungo termine e alla mancanza di investimenti.
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Il debito pubblico è balzato al 100% del Pil e sta raggiungendo il limite di sicurezza per un Paese che fa parte di una unione monetaria e non ha una banca centrale sovrana.

La Spagna in questo momento ha uno spazio di manovra fiscale estremamente limitato e un qualsiasi shock esterno potrebbe spingere il debito verso livelli meno sostenibili, oltre il 130%“, ha dichiarato Yvan Mamalet.


La Spagna è stata portata in palmo di mano come Paese modello dei risultati dell’austerità e delle riforme per l’Europa del Sud. Ma sebbene sia vero che la crescita ha avuto un rimbalzo, il Pil è ancora del 5% inferiore al suo livello massimo precedente. E le più profonde patologie e gli squilibri dell’epoca prima della crisi ci sono ancora tutti.


Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) afferma che il “deficit strutturale” è salito dall’1,8% del Pil l’anno scorso al 2,5 per cento quest’anno. Questo affretta il disastro, se teniamo conto che la posizione netta sull’estero della Spagna è meno 90% del Pil, molto sotto il limite di sicurezza del 30%.
Rimangono profondi problemi strutturali e la vulnerabilità persiste“, dichiara il FMI.
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Il FMI ha avvertito che la Spagna ha ancora bisogno di riforme radicali della legislazione del lavoro per alzare il basso livello di produttività e far salire la catena del valore, e ha indicato come rischio principale quello che si torni indietro sulle riforme già fatte. Che è esattamente quello che potrebbe succedere.
Se una coalizione tra socialisti e Podemos prende il controllo di un’alleanza delle forze di sinistra, non sarà per farsi dare il là dal Fondo monetario.
Sarebbe anche un disastro sul fronte della politica estera per la cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha già ceduto alla sinistra Italia, Grecia e Portogallo, e si trova di fronte al rischio crescente di un “blocco latino” antiausterità, guidato in Francia dai socialisti.
Una sterzata a sinistra in Spagna modificherebbe l’equilibrio di potere nel Consiglio europeo e segnerebbe la fine del controllo della Merkel sui meccanismi politici dell’Unione europea.
Pablo Iglesias ha smorzato la sua visione radicale, cercando di darsi un tono di autorevolezza nelle questioni di politica estera ed economica. “Quando vuoi essere alla guida del tuo Paese – ha dichiarato – devi essere credibile“.

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Il partito ha lasciato cadere la sua richiesta di prendere in mano telecomunicazioni, trasporti, banche, compagnie elettriche e le strutture chiave dell’economia, limitando le nazionalizzazioni a circostanze “eccezionali”.
Non richiede più la ristrutturazione del debito pubblico del Paese, che ammonta a 1.100 miliardi di euro, optando invece per un audit che abbia lo scopo di determinare quale parte del debito legato al salvataggio delle banche sia da ritenere inaccettabile e da rigettare. Vuole ancora una settimana lavorativa di 35 ore, ma ora accetta che l’età della pensione debba salire a 65 anni.

I progetti per lasciare la NATO sono stati accantonati.
Eppure Podemos, figlio della rivolta degli “Indignados” contro l’austerità, è capeggiata da giovani professori universitari imbevuti delle teorie del leader comunista italiano di un tempo Antonio Gramsci. Hanno imparato la lezione dagli errori di Syriza in Grecia, ma non sono meno radicali.
Simon Tilford, del Center for European Reform, dice che la Spagna non è fuori dai guai e che le élites europee stanno “scambiando una modesta risalita ciclica per qualcosa di più profondo“.
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C’è stato una sorta di miracolo delle esportazioni, spinto da un’impennata nella produzione di auto, dovuta al fatto che le aziende hanno spostato la produzione dalla Francia alla Spagna per approfittare dei tagli dei salari: negli impianti di Valladolid le assunzioni sono aumentate del 27%.
Ma quello che ha davvero eliminato il deficit delle partite correnti è stato il crollo del 12% della domanda interna. Le importazioni sono state soffocate. C
on una disoccupazione al 22 per cento, il Paese riesce a malapena a tenere in equilibrio i suoi conti con l’estero. Una piena ripresa metterebbe rapidamente in crisi la cronica mancanza di competitività della Spagna all’interno del sistema dell’euro.
Simon Tilford avverte che la Spagna affronterà la prossima crisi globale con le sue difese economiche ampiamente esaurite e poche armi rimaste per combattere la recessione, e soprattutto con partiti populisti che hanno già preso largamente piede. Lo shock politico dello scorso weekend è il primo rombo di tuono.
 

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L'austerità europea colpisce ancora e aggrava sempre i problemi

Spagna, la disoccupazione continua a salire
Il Messaggero - ‎52 minuti fa‎

(Teleborsa) - In lieve crescita la disoccupazione in Spagna, che resta fra le più alte in Europa. Alla fine del 1° trimestre 2016, il tasso di disoccupazione è salito, portandosi al 21% rispetto al 20,9% del trimestre precedente. Il dato risulta ...
 

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Stallo politico
A che punto è la Spagna?
È senza un nuovo governo da nove mesi.
Dopo due elezioni inconcludenti, rischia di tornare alle urne a Natale: sarebbe la terza volta in un anno.
Le regionali basche e galiziane potrebbero sbloccare lo stallo.
Mentre l’Europa resta a guardare, il bipartitismo spagnolo è in coma da un pezzo e l’impatto della crisi istituzionale potrebbe farsi sentire, nonostante i dati sulla crescita (finora) incoraggianti.
Intanto il 43.9% dei giovani è senza lavoro.
La fine dell’austerity è vicina?

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Se il Belgio è stato 589 giorni senza un governo eletto, da nove mesi la Spagna è in un pantano politico simile.
Dopo due elezioni inconcludenti (a dicembre e a giugno), non ha un nuovo governo e rischia di andare a votare per la terza volta – episodio senza precedenti nell’Europa democratica dal 1945. Il Parlamento è paralizzato. Se entro il 31 ottobre i partiti non si metteranno d’accordo, il giorno di Natale gli spagnoli saranno chiamati alle urne. Il premier Mariano Rajoy del Partido Popular, in questi mesi incaricato di sbrigare solo gli affari correnti, finora ha ottenuto 137 seggi su 350 (quindi niente maggioranza assoluta) e da solo non può governare. Dal 20 dicembre, scrive El Confidencial, sarebbe stato approvato solo un decreto legge: «L’attuale governo è il meno attivo degli ultimi vent’anni».
L’Unione europea, per ora, resta a guardare. Il 15 ottobre Madrid dovrà presentare a Bruxelles il bilancio e il tetto di spesa per il 2017, visto che a luglio la Commissione europea aveva evitato la multa per l’eccessivo disavanzo e il Consiglio d’Europa aveva esortato a ridurre il deficit al 4,6% del Pil entro quest’anno. La Spagna è la quarta economia d’Europa, dopo Germania, Francia e Italia. Al momento ci sono 5 milioni di disoccupati e, secondo i dati Eurostat, aggiornati a luglio 2016, il 43.9% dei giovani spagnoli è senza lavoro.

L’ultimo fallimento
Il 31 agosto e il 2 settembre sono andati a vuoto due tentativi di investitura di Rajoy quale nuovo premier. Il Congresso dei deputati di Madrid gli ha negato la fiducia: la seconda volta con 170 voti a favore e 180 contrari. Se solo undici parlamentari si fossero astenuti (non serviva la maggioranza assoluta), Rajoy ce l’avrebbe fatta. I socialisti del PSOE (Partido Socialista Obrero Español) si sono messi di traverso e hanno bloccato la nomina. Sono sessanta i giorni di tempo per trovare un candidato alternativo, altrimenti il re Felipe IV potrà sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni.

Come uscire dal limbo
Il 25 settembre sono in programma le elezioni regionali basche e galiziane ed è molto probabile che i partiti aspetteranno l’esito del voto per sbloccare la situazione. I sondaggi d’inizio mese danno Rajoy come possibile vincitore e il PSOE grande sconfitto (potrebbe perdere 8 degli attuali 16 seggi al Parlamento di Vitoria). Il Partito nazionalista basco (PNV), con i suoi cinque seggi, potrebbe spostare gli equilibri al Parlamento nazionale a vantaggio del premier uscente. Se così fosse, e qualora i socialisti guidati da Pedro Sánchez decidessero di fermare il loro ostruzionismo astenendosi dal voto (ipotesi improbabile al momento), l’impasse potrebbe essere superato in favore di Rajoy.

Ma la Spagna di oggi è molto di più di due partiti e un governo da formare. È proprio nel sistema bipolare del Paese (attualmente in crisi) che ha origine lo stallo politico che Madrid vive dal dicembre 2015.

Il bipartitismo è in coma: questo è il problema (o la risorsa)
Era il 1977, la Spagna andava a votare alle prime elezioni democratiche. Dopo oltre quarant’anni di dittatura franchista, il Paese sceglieva l’Unión de Centro Democrático di Adolfo Suarez. All’opposizione c’era il Partido Socialista Obrero Español (PSOE) di Felipe González. Due grandi partiti si contendevano la scena. Dal 1989 in poi l’alternativa al PSOE veniva incarnata dal Partido Popular di José Maria Aznar.
È lunga la storia del sistema bipartitico spagnolo, che domina la politica da quasi quarant’anni. Adesso, però, quel modello è in coma. La crisi, gli scandali legati alla corruzione, il desiderio di cambiamento hanno infatti portato due nuove formazioni politiche: Podemos, a sinistra, e Ciudadanos al centro-destra. Con quattro partiti, specialmente in un Paese che deve abituarsi a questa realtà, la ricerca di nuove coalizioni ed equilibri richiede tempo.

Le opzioni possibili
Albert Rivera, leader dei liberali di Ciudadanos, aveva aperto i negoziati con il Partido Popular per la formazione di un governo già da mesi. Il suo partito, alle ultime elezioni, si è aggiudicato 32 seggi che potrebbero fare comodo a Rajoy. Il problema è che i ripetuti scandali nel Pp sono diventati degli ostacoli praticamente insormontabili. La condizione di Rivera per un’alleanza è la seguente: un piano di riforme anti-corruzione, altrimenti non se ne fa nulla.
I conservatori e i liberali accusano il socialista Sánchez di opporre resistenza a oltranza e di essere il responsabile del pantano politico in cui è scivolato il Paese (senza contare l’opposizione interna). La situazione appare, però, parecchio più complessa. Se è vero che il leader socialista si è opposto all’idea di una Gran Coalicion con il PP ventilata da Rajoy, il PSOE (che ha 85 seggi contro 137 del Pp) potrebbe proporre Sánchez come premier e cercare consensi altrove. Potrebbe allearsi con Podemos, insieme a indipendentisti e a Ciudadanos. L’ipotesi è, però, improbabile, viste le posizioni politiche antagoniste dei due partiti coinvolti (uno a sinistra e l’altro liberale), e la reticenza di una parte di Podemos all’alleanza con i socialisti. «Nessun partito decente potrebbe allearsi con il Pp», dicono da Podemos. Qualora Sánchez si proponesse come alternativa a Rajoy, il PSOE, insieme alla coalizione Unidos Podemos (Podemos, Izquierda Unida, Equo), potrebbero ottenere 156 seggi. Senza l’appoggio di Ciudadanos, sarebbero quindi fondamentali i voti dei Baschi e dei Catalani (le cui spinte indipendentiste sono difficili da digerire per molti nel PSOE).
In ogni caso, fino alle elezioni basche e galiziane, all’opposizione farebbe comodo riuscire a spostare la data dell’eventuale voto di dicembre dal giorno di Natale al 18, in modo che alle urne non vadano solo i più anziani (notoriamente più vicini ai conservatori). In base alla matematica politica, a Rajoy converrebbe andare di nuovo alle urne, nonostante «gli scandali che limitano le possibilità di governare al PP», come scrive El Pais. I conservatori, però, potrebbero anche sacrificare il premier uscente pur di vincere.
Per ora la guerra intestina tra partiti, fatta di veti incrociati a possibili coalizioni, peggiora lo scenario.

Visti da Bruxelles
Prima di incassare l’ennesima bocciatura del parlamento alla sua investitura, il 2 settembre scorso, Rajoy invitava a non fare diventare la Spagna lo «zimbello d’Europa». Avvertiva che l’economia avrebbe potuto risentire della situazione istituzionale. «La Spagna ha bisogno di un governo efficace, e ne ha bisogno con urgenza», diceva prima di sottoporsi al voto. E ancora, riferendosi all’ipotesi di un governo PSOE-Podemos, usava l’arcinota retorica della dicotomia tra moderato e radicale: «La mia proposta rappresenta l’unica reale possibilità per la Spagna di avere un governo moderato, e non un’avventura radicale nell’incertezza e nell’inefficienza». Intanto Bruxelles restava a guardare, perché l’interesse dei tecnocrati dell’Unione europea è che la Spagna faccia le riforme: ovvero tagli e austerity. In quest’ottica, un governo dei conservatori darebbe maggiori garanzie rispetto a un esecutivo socialista.
Subito dopo aver subito lo smacco al Congreso de los Diputados, il governo uscente di Rajoy aveva fatto sapere all’Ue che non sarebbe riuscito a rispettare le richieste di Bruxelles riguardo a un piano con le nuove misure da approvare entro metà ottobre: «Molto difficile, quasi impossibile». Il messaggio arrivava durante il G20 tramite il ministro dell’Economia Luis de Guindos, a Pierre Moscovici, Commissario Ue per gli affari economici. Adesso, secondo quanto scrive Euractiv, i funzionari europei sarebbero orientati a dare più tempo a Madrid e dal 15 ottobre si slitterebbe a dicembre. D’altronde, senza un governo, Madrid come potrebbe tagliare il suo deficit dal 5,1% del Pil nel 2015 al 3,1% nel 2017?

L’impatto economico della crisi istituzionale
Se per Moody’s la crisi istituzionale ha un effetto negativo, secondo il Financial Times anche senza governo l’economia spagnola andrebbe a gonfie vele. Rajoy sostiene che dal 2011 al 2015 il suo governo ha fatto tutte le riforme chieste dall’Europa per fare tornare il Paese a crescere: leggi del lavoro più flessibili e abbassamento del costo del lavoro. Stando ai dati snocciolati da Bloomberg, «gli investimenti sono saliti del 2,2% nel secondo trimestre del 2016, le esportazioni del 4,3%. Nel complesso l’economia è cresciuta dello 0,8%, con 484.000 posti di lavoro a tempo pieno in più rispetto al 2015».
È davvero tutto merito del governo? C’è di più. L’economia spagnola ha beneficiato anche «degli stimoli della Banca centrale europea» e del ribasso dei prezzi del petrolio. Tra questi numeri apparentemente entusiasmanti restano quelli della disoccupazione giovanile, ancora troppo alti e del debito al 99.2% del Pil nel 2015. Secondo quanto spiega qui l’economista Jorge Uxó dell’Universidad Castilla La Mancha: «L’economia comincia a registrare una decelerazione della crescita. Un Paese può vivere senza un cattivo governo, ma non senza un buon governo. La ripresa è basata su pilastri molto fragili. Può mantenersi per inerzia per un certo tempo, ma per un altro modello di sviluppo è necessario un governo che prenda decisioni diverse da quelle degli ultimi anni. L’Unione europea non sta facendo pressioni perché ci sia un governo qualunque, ma perché ci sia un governo che adotti le misure che si stanno dettando da Bruxelles».

Dunque, la domanda cruciale da porsi è la seguente (come recita il titolo di un paper di Uxó): «La fine dell’austerità fiscale in Spagna è possibile?».

Dalla penisola iberica alla Polonia, da Dublino all’Ungheria, emergono soggetti che – sulle ali estreme dello schieramento – scelgono di sostenere rivendicazioni universali di equità e convivenza o, all’inverso, chiusure nazionaliste e identitarie. Di conseguenza è legittimo presagire la fine prossima del modello politico incardinato sulle grandi coalizioni e sulla terzietà: quello che alcuni hanno chiamato «estremismo di centro», piano inclinato lungo il quale sono scivolati – fino a convergere – conservatori e socialisti. Da La morte clinica dell’Europa. Il Tredicesimo piano.
 

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Il fronte indipendentista torna a vincere in Catalogna
Mariangela Tessa
Il fronte indipendentista torna a vincere in Catalogna | Wall Street Italia



A meno di due mesi dalla proclamazione della “Repubblica”, la Catalogna è tornata a votare e ha scelto nuovamente per il campo indipendentista infliggendo un sonoro schiaffo politico al premier spagnolo Mariano Rajoy.

Le tre liste separatiste (JxCat, Erc e Cup), con il 48% dei voti, ottengono insieme la maggioranza assoluta nel nuovo Parlament con 70 seggi su 135. Le tre liste unioniste (Cs, Psc e Pp) con il 43% dei voti conquistano complessivamente invece 57 deputati. Il partito unionista Ciudadanos, con oltre 950mila voti e 37 seggi, è tuttavia il primo partito catalano.


“La vittoria degli indipendentisti alle elezioni regionali in Catalogna “è un risultato che nessuno può discutere” ha affermato dal suo “esilio” di Bruxelles il leader separatista catalano Carles Puigdemont. Il primo ministro spagnolo Mariano “Rajoy ha perso il plebiscito che cercava” e il fatto che il fronte indipendentista resti maggioranza rappresenta “uno schiaffo”, ha detto con orgoglio Puigdemont davanti a una piccola platea di militanti indipendentisti catalani e simpatizzanti nazionalisti fiamminghi, riunita in una sala nel centro di Bruxelles.

La vittoria degli indipendentisti è ancora più bruciante per Madrid in quanto è stata ottenuta in elezioni che hanno registrato un’affluenza senza precedenti,attorno all’82%, che danno una ancora maggiore legittimità popolare al destituito Puigdemont.

Gli scenari delle prossime settimane si fanno però complicati. Il principale candidato alla presidenza della Catalogna, Puigdemont, si trova in Belgio. Se rimette piede in terra spagnola sarà arrestato. Il suo vicepresidente, Junqueras, capo del secondo partito indipendentista, è in carcere. Puigdemont chiede che il governo destituito venga “restituito” al Paese, e che tutti i “detenuti politici” siano liberati.

Ma al momento sembra molto difficile che “i detenuti politici” possano occupare il loro nuovo scranno in Parlamento e partecipare all’elezione del President. La sessione costitutiva dell’assemblea catalana dovrà tenersi entro il 23 gennaio, il primo turno dell’elezione del President entro il 10 febbraio. Se per aprile non sarà stato possibile eleggere il nuovo presidente scatterà lo scioglimento automatico dell’assemblea con nuove elezioni a fine maggio.
 

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