Solo politica (5 lettori)

Val

Torniamo alla LIRA
Ecco Amadeus, più istituzionale che mai, istituzione egli stesso, anche nel cordoglio tragico,
gran ciambellano dell’effiimero pesante e del patriottismo trash
con l’inno nazionale recitato dal manone, Morandi, per puro servilismo presidenziale.

Verrà Rosa il Chimico, cantante en travesti con sotto il travestimento, temiamo, niente,
ma già i Coma Cose, insulsi già dal nome, e via via il resto di una compagnia poco cantante ma molto fluidificante.

E qui si coglie un metasignficato, una tensione diremmo generazionale:
gli ultrasenatori, i Morandi, Ranieri, Al Bano, Pooh redivivi a stento, perfino Pelù, il più corroso di tutti,
sopportano poco e male la bagarre con quelli che, a buon diritto, considerano degli avventizi, degli animali incomprensibili.

Li tollerano perché questo è loro richiesto, perché a Sanremo bene o male
ci sono venuti sia per quei favori che non si possono rifiutare sia per i calcoli tipici della quarta età artistica.

Ma ci si muovono a disagio e si vede, hanno quella degnazione vagamente offesa anche se si prestano, malvolentieri.


Ma senza creare rogne.


Chi non ha problemi di tenuta fisica, ma di quella mentale ne tradisce fin troppa,
sono i giovani cantanti lampadario le cui movenze e apparenze a forza di adeguarsi ai dettami del genderismo spinto
risultano paradossali e suggeriscono degli strazianti molluschi conciati a festa.

Ma che altro ti puoi inventare dopo i reggicalze del Damiano, già usurati dopo mezzo secolo di citazionismo?


E dopo il ridicolo, c’è il patetico.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Ma tutto questo fa bene agli affari,
in quella ineffabile miscela di capitalismo dirigista che è la Rai:
sfondato il tetto dei 50 milioni di introiti pubblicitari,
a fronte dei 18 di spese complessive,
più 30 di indotto che nessuno sa bene cosa sia
atteso che la pubblicità copre anche le cacche dei cani,
e aspettative di pubblico sui 13 milioni, due in più dell’anno scorso.

Tutto per seguire una gara fittizia tra giovanetti negati e cariatidi.

Il liberismo autoritario funziona: noi vi diamo gli eccessi di cartone, voi non avrete altro dio.


E tutti sono contenti anche se quest’anno Mediaset non si è piegata al gentlemen agreement
e ha schierato la “controprogrammazione attiva”, per dire sfidare il nemico sul suo stesso terreno nella battaglia decisiva.

E c’è da scommettere che, comunque vada, la corazzata de Filippi manterrà parecchi dei suoi aficionados,
tanto più che i suoi format, da Amici a C’è Posta, hanno indiscutibilmente condizionato il festival,
segnandone il gusto, costringendolo ad adeguarsi quanto a stilemi.


Un preciso segnale di Berlusconi a una dirigenza Rai all’epilogo

o un monito per quella, presumibilmente targata Fratelli d’Italia, che verrà?
 

Val

Torniamo alla LIRA
Comunque anche da queste cose si capisce che Sanremo è un fatto politico prima che legato allo spettacolo.


O, se preferite, che lo spettacolo è in funzione della politica e non l’inverso.


A sancire l’istituzionalità somma, niente meno che il capo dello stato, come alla Scala.



Che altro serve?

Laddove Benigni, in curioso odore di Costituzione,
della quale ha una concezione immatura ma capziosa, reazionaria,
da “guai alle riforme”, serve, come la serva di Totò, a corroborare il qualunquismo giullaresco,
da suddito ilare vuoi verso il potere istituzionale, vuoi verso il potere di Lucio Presta,
uno dei padreterni della televisione pubblica, lo stesso di Amadeus.

Lui e il diretto concorrente Caschetto vengono entrambi dalle ceneri del PCI,

uno renziano l’altro cigiellino, e si disputano quel campo di Agramente dei poteri forti che è Sanremo.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Il resto è contorno come lo sono i reduci di se stessi, da Paola e Chiara
ai Cugini di Campagna che si offendono se il figlio di D’Alessio non gli bacia gli zatteroni.

E qui c’è poco da dire, la sfilata di questi artisti o spremuti
o destinati ad appassire senza fioritura è modesta fino all’imbarazzo e alla mortificazione.

Non un momento di interesse, non un fremito se non di insofferenza per la volgarità dello stalento diffuso,
per la fissità inquietante della Ferragni con la sua vocetta a tassametro
o per quel pleonasmo vivente che è Fiorello detto “Ciuri”,
al quale Amadeus detto Ama non sa e non vuole rinunciare,
basta che ci sia, anche solo per un peto, al che tutti, subito: che genio, che prodigio, che peto celestiale.


Meglio degli obbrobri in gara senz’altro.


Chi si costringe le dodici, le quindici ore fuori dal teatro in attesa di tanta mediocrità non è tenuto,
ma se uno appena conosce la musica, se ha masticato nozioni elementari di armonia e di melodia,
di canto, di presenza scenica, non può che arrendersi alla desolazione:

chi sono questi sordi, malaticci, cerei, tinti, belanti, genderizzati ma dall’aspetto terminale?

Qual è il loro senso, come ci sono arrivati su quelle tavole?


Ancora per il substrato politicante
.


La ragazzina Ariete ricorda la classica disadattata da ultimo banco,
ma è lesbica e anche lei odia la Meloni, insomma può servire alla causa globalista:
abile e arruolata, come la diretta concorrente Madame che è un’altra coi suoi bei problemi di adattamento e si vede.


Ma, in definitiva, sono tutti uno il clone dell’altro, almeno nella fascia per così dire emergente, alternativa, a cosa non si è mai capito.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Se non è politica questa!

E qui in questa settimana la praticano e la respirano tutti, volenti o nolenti.

Ma vogliono.

Tutto in transumanza, a vedere e a farsi vedere, a intrallazzare, a svaccarsi,
a esibire ciò che non si ha, a inciuciare con amici e nemici.

È la forza di Sanremo, una faccenda maledettamente politica,
per dire del potere che, se non ne fai parte o almeno se non gli graviti attorno,
ti ignora più che estrometterti.

E se sei estromesso sei morto.


Ma come si spiega ogni febbraio la migrazione per la Riviera ligure di saltimbanchi e guitti?

Proprio perché tali, proprio perché il Festival rappresenta le colonne d’Ercole dove si intrecciano opportunismi,
disperazioni, ambizioni che passano per il gioco puttanesco dello show business, della politique d’abord,
delle istituzioni televisive e non solo.


Se i telegiornali aprono con Sanremo, poi passano a riferire del terremoto in Turchia e Siria,

“seimila palazzi crollati, diecimila vittime, ma torniamo a Sanremo”,

vuoi o non vuoi ci state dentro a questa assurdità normalizzata,

a questo trionfo della noia efferata, estenuante, senza vergogna che si dissimula dietro la Costituzione.


Stando così le cose, conviene saperne quel minimo per non farsi condizionare più di tanto

e a tal proposito, se vi pare, seguite almeno queste colonne in cui si prova, non senza pena,

a tracciare i fili, che son tanti, e ad unirli in una trama alla lunga comprensibile.
 

superciuk1

La verità e' come voi prima o poi viene a galla
Roberto Benigni è salito sul palco dell'Ariston per impartire una "lezione" sulla Costituzione che, a suo dire, è una "opera d'arte". Stiamo parlando del documento che come valore fondante non mette l'identità cristiana dell'Italia ma il lavoro che tra l'altro il sistema ha persino abolito. Benigni poi parla dei Paesi dove gli oppositori vengono incarcerati e perseguitati. Forse piuttosto che guardare in casa d'altri, Benigni avrebbe dovuto guardare nella nostra. Era qui, e non in Russia, che si arrestavano le persone perché non avevano la mascherina. Era qui, e non in Russia, che non si poteva uscire di casa rinchiusi agli arresti domiciliari. Era qui, e non in Russia, che non si poteva entrare al lavoro senza vaccino.

E tutto questo è avvenuto con la Costituzione "perfetta" di cui parla Benigni e sotto di lui, in platea, c'era il garante della carta che in teoria avrebbe dovuto respingere tutte le derive autoritarie degli anni passati e invece le ha firmate tutte. Siamo finiti nella peggiore dittatura della storia non con il fascismo ma con la Costituzione liberal-democratica. È una verità che troppi hanno compreso e che sta portando il popolo ad una irreversibile crisi di rigetto di questa ipocrisia.
 

Users who are viewing this thread

  • Alto