SIAMO SPIACENTI, LA VITA DA LEI SOGNATA NON E' AL MOMENTO RAGGIUNGIBILE (1 Viewer)

DANY1969

Forumer storico
:d::confused:
Buona settimana a tutti :)
Purtroppo per Voi le foto del Canada sono momentaneamente sospese a causa di un giretto sulle Alpi cuneesi (Val Varaita) :d:
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Val

Torniamo alla LIRA
Il 30 marzo 2004, veniva promulgata la legge istitutiva della Solennità civile nazionale del Giorno del Ricordo per:


«conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani,
fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».

Una delle pochissime iniziative che è giusto definire “storica” ascrivibili ai governi di centrodestra che, quasi mai,
si sono realmente impegnati per dare al Paese una vera svolta culturale, etica e valoriale.

Purtroppo, l’Italia ancora oggi sconta una arretratezza morale, politica e civile frutto dell’aver consentito al maggior Partito comunista europeo di occupare
– sin dagli anni Cinquanta – tutti i gangli vitali della Nazione. La storia del dramma nazionale delle Foibe ne è l’esempio più calzante e tristemente attuale.

La data del 10 febbraio fu scelta per ricordare il giorno in cui, nel 1947, con i trattati di pace di Parigi,
la Jugoslavia si impossessava definitivamente dell’Istria, del Quarnaro, della città di Zara con la sua provincia e le isole della Dalmazia, nonché della maggior parte della Venezia Giulia.

Tutti territori che facevano parte dell’Italia. Non solo dell’Italia unita (nata nel 1861) a cui appartennero ufficialmente solo dal 1924.
Bensì di quella entità geografica, storica, linguistica e culturale che così fu definita dai greci, delimitata dai romani e sempre considerata anche dai popoli che, pure, la invasero e la occuparono.
Perché era la corona dei re d’Italia (la corona ferrea) quella che conferiva autorità agli imperatori del Sacro romano impero da Carlo Magno in poi, ma con cui anche Napoleone volle cingersi.
Perché era italica e latina anche la Serenissima Repubblica di Venezia che dominò l’Alto Adriatico per oltre settecento anni.

Il suo “Stato do Mar” comprendeva anche quelle terre, città e isole che ci sono state sottratte con la pace di Parigi e,
ancora oggi (nonostante i bombardamenti alleati e l’occupazione slava) l’impronta veneta è presente e riconoscibile ovunque.

Tutte le coste di Istria, Quarnaro e Dalmazia erano abitate in maggioranza da una popolazione che parlava un dialetto simile al veneto e che si sentiva profondamente italiana.
L’interno era, invece, abitato da popolazioni slave, dedite prevalentemente alla pastorizia, mentre gli italiani della costa erano commercianti e industriali, sicuramente ricchi in confronto agli slavi.
E fu il combinato composto di molti sentimenti negativi a scatenare i massacri del 1943/ 45:
l’ostilità nazionalistica, l’odio “di classe” e politico comunista, l’invidia e la cupidigia di possesso dei beni italiani. Il tutto amplificato dai drammi della guerra.

Oltre 10.000 italiani (ma il conto esatto non è mai stato possibile ed è certo superiore) “scomparvero” nelle due ondate di pulizia etnica attuate dagli slavo-comunisti;
la maggior parte infoibati (cioè gettati nelle insenature carsiche) altri gettati in mare, altri deportati…

Oltre 350.000 italiani dovettero lasciare tutto: case, beni, lavoro, affetti per fuggire a questa mattanza.

Fuggirono verso la Madrepatria (così la chiamavano) che fu invece matrigna, perché i comunisti italiani (alleati e complici di quelli jugoslavi) non volevano che fossero accolti.
Nella rossa Bologna (che nessuno ha ancora espugnato) ai profughi fu impedito di scendere dai treni, fu negato loro il cibo e persino il latte per i bambini.

Cittadini di serie B che non dovevano raccontare le loro storie.

Molte migliaia lasciarono l’Italia, chi rimase accettò di tacere e si ricostruì laboriosamente una vita.

L’orrore dell’eccidio negato fu anche il marchio d’infamia della neonata democrazia, con i cattolici pavidi complici dei veti imposti dal PCI.
Per sessant’anni, a parlare di Foibe rimasero solo gli esponenti e le organizzazioni della destra.

Quando queste giunsero inaspettatamente al governo, ci si attendeva una stagione di rinnovamento culturale, di pacificazione nazionale, di storicizzazione del passato.
In tal senso andavano tanto il lavoro del professor Renzo De Felice quanto le pubblicazioni di Giampaolo Pansa.
La legge istitutiva del 10 febbraio sembrò, così, poter sanare un vulnus antico e chiudere una pagina amara. Invece…

Invece non fu così.
L’insipienza culturale del berlusconismo, unita alla protervia e al radicamento post-comunista sono riusciti, negli anni,
a trasformare questa data in un nuovo momento di scontro, di divisione e, ancora, di negazione della verità, di odio e spesso persino di violenza.

Come spieghiamo negli articoli di oggi e domani, sono state partorite fantasiose interpretazioni “giustificazioniste” quando non dichiaratamente negazioniste
e, nelle scuole, sui giornali, nelle tv queste calunnie strisciano subdolamente per radicarsi nella memoria e nella coscienza dei più giovani.

In tutti gli enti pubblici governati dalla sinistra si eludono la lettera e lo spirito della Legge negando le commemorazioni o affidandole… all’Anpi, cioè ai partigiani.
Come dire che i discendenti degli assassini commemorano gli assassinati.

Un po’ come se l’associazione dei reduci delle SS fosse finanziata per commemorare la Shoà.

Questa, purtroppo, è quella “arretratezza morale, politica e civile” di cui parlavamo e che ancora blocca e paralizza l’Italia.
Solo un Paese pacificato, unito e coeso può prosperare.

Chi continua a seminare odio, menzogna e divisione raccoglierà solo decrescita, disoccupazione e miseria.
 

Val

Torniamo alla LIRA
«Non avrei mai immaginato che questa foto, di me bambina, sarebbe diventata così significativa per molti
e riuscisse a raccogliere, in una piccola e semplice immagine, tanta storia di sofferenza e speranza».

Egea Huffner, ha oggi 79 anni ed è quella “bambina con la valigia” ritratta in una fotografia in bianco e nero
che è diventata simbolo dell’esodo delle popolazioni italiane costrette a lasciare tutto fuggendo dalla “pulizia etnica” messa in atto dai partigiani comunisti jugoslavi.

Sulla sua valigia, nella foto, si legge chiaramente “Esule Giuliana N. 30.001”. Una frase scritta da un suo zio.
L’aggettivo “giuliana” indica le popolazioni della Venezia Giulia, regione che ha sempre compreso anche l’Istria, quindi Pola.
Il numero, invece, indicava gli abitanti della città di Pola, per far comprendere l’enormità di un esodo che svuotò quasi totalmente la bella città istriana.

Gli occhi della bambina della fotografia guardano verso un orizzonte ignoto. La sua espressione è un misto di sgomento, timore e fierezza.
Ancora oggi, gli occhi di Egea Huffner raccontano quegli stessi sentimenti e vanno a scavare nella memoria pagine indelebili di una storia che è doveroso ricordare.

Signora Haffner, che ricordi ha dei suoi primi anni a Pola?

«Sono nata nel 1941, ero molto piccola, ciò che mi ricordo sono i volti e l’affetto dei miei genitori e dei miei parenti, la mia casa in via Sergia e il negozio di gioielleria della mia famiglia.
Ma ricordo bene anche l’atmosfera di quegli anni che sembrava per certi aspetti, agli occhi di una piccola bambina, quasi magica, rassicurante, piena di luce… Invece».

Invece, cosa accadde?

«Nella notte tra il 4 e il 5 maggio del 1945 suonarono alla porta due agenti della famigerata OZNA (i Servizi di sicurezza militari di Tito), volevano mio padre.
Lui chiese il motivo di questa irruzione a tarda notte, ma i due lo rasserenarono spiegando che era pura formalità, di non preoccuparsi inutilmente…
Lo prelevarono per portarlo al Comando titino e per chiedergli alcune informazioni.
Mio padre, ricordo, chiese se dovesse prendere con sé qualcosa, ma di nuovo lo rassicurarono, così uscì con il vestito che indossava,
fece appena in tempo a prendere in fretta una bella sciarpa e indossarla.
La sciarpa dopo alcuni giorni, i miei familiari, la videro al collo di un partigiano comunista… Da quella sera non seppi più nulla di mio padre. Avevo 3 anni e mezzo».

Suo padre era un fascista?

«No, non aveva mai avuto nessuna implicazione politica o carica istituzionale, era soltanto un piccolo gioielliere.
L’unica “colpa” che, pensiamo, possa aver provocato il suo arresto e il suo ingiustificato assassinio – oltre a quella di essere italiano –
può essere riconducibile ad alcune traduzioni che aveva svolto professionalmente per il comando tedesco.
La sua famiglia era di origine ungherese e lui sapeva parlare bene, oltre che l’ungherese e l’italiano, anche il tedesco».

Non avete avuto più notizie di lui?

«Crediamo che Kurt Haffnerr, mio padre, sia stato assassinato e infoibato lo stesso 5 maggio, in una voragine di Pisino.
Mia mamma, Ersilia Camerano, e i miei parenti, hanno cercato ogni tipo di informazioni su di lui, inutilmente.
Siamo, purtroppo, rimasti sempre nell’ordine delle ipotesi.
Tutti noi non ci davamo pace e speravano che fosse prigioniero in qualche campo di concentramento titino.
Per diversi anni, tutte le sere, mia nonna ha messo da parte ogni sera un po’ di pane, preparandogli in un certo senso la cena, aspettando e sperando che facesse ritorno… inutilmente».

Cosa avete fatto dopo aver maturato la consapevolezza della morte di suo padre?

«Per noi italiani, la situazione peggiorava di giorno in giorno.
Ben presto ci rendemmo conto che se non volevamo correre pericoli, dovevamo lasciare la nostra terra.
Sentivamo ogni giorno di persone che scomparivano senza lasciar traccia e questo faceva molta paura…
bastava essere italiani e non essere comunisti, per avere guai molto seri.

Con il dolore nel cuore, anche noi insieme a più di 30.000 concittadini, siamo quindi dovuti andar via da Pola.
Tutti coloro che se ne andavano scattavano delle ultime foto per ricordo; chi davanti casa, chi davanti al luogo di lavoro o a monumenti caratteristici della città, come l’antica arena romana».

Così è nata l’ormai celebre foto che la ritrae con la valigia, che oggi è una specie di manifesto ufficiale del Giorno del Ricordo…

«Esattamente. Fu la sorella di mio padre a farmi i boccoli e a confezionarmi un vestitino di seta, mi misero in mano un ombrellino e la mia valigia, con su scritto “Esule Giuliana”.
In quella foto, che sembra aver fermato il tempo, sono diventata l’esule giuliana n. 30.001.
Un numero inventato, ma carico di significato, perché lo scrisse mio zio Alfonso per indicare il numero degli abitanti di Pola e sottolineare come la città, si fosse svuotata con l’esodo degli italiani».

Dove andò la bambina con la valigia?

«Pochi giorni dopo quella foto, che porta sul retro la data del 6 luglio 1946, partimmo per la Sardegna, dove viveva una sorella di mia madre.
Fu un periodo veramente difficile, sentivo molto la mancanza del mio papà e avevo la consapevolezza dei problemi che stava vivendo la mia famiglia.
Dopo otto mesi, mia madre mi affidò alla nonna e agli zii paterni a Bolzano a causa delle ristrettezze economiche in cui la mia famiglia fu costretta a vivere.
Ma grazie ad un bravissimo sacerdote, don Felice Odorizzi, sapendo bene il tedesco (che parlavamo quotidianamente anche a casa) riuscii ad entrare all’ENPAS.
Qualche anno dopo, ho incontrato quello che sarebbe diventato mio marito, nel 1966 ci siamo sposati e trasferiti,
in un primo tempo a Milano e successivamente a Rovereto, dove attualmente vivo».

Come è diventata un simbolo del Giorno del Ricordo, la sua foto da bambina?

«La foto la trovammo nei cassetti di famiglia quando il Museo della Guerra di Rovereto, nel 1997, allestì una mostra per il 50.mo dell’esodo degli Istriano-dalmati.
Dopo anni di oblio, qualcosa si stava muovendo e uscivamo alla luce del sole.
Ogni esule, portò ciò che aveva come ricordo della nostra terra, io portai la mia foto di piccola orfana, dove c’era sintetizzata tutta la mia storia e la tragedia di tanti italiani.
Anche se non tutto il mio sangue è italiano, io sono e mi sento pienamente italiana».

Come è nata la vicenda che ha affiancato il suo nome a quello di Liliana Segre?

«Nasce dal voler dare un riconoscimento a tutte e due, forse per non far torto più che altro a parti politiche contrapposte.
Ho rifiutato, pur nel massimo rispetto della senatrice Segre, ho ritenuto opportuno non farmi strumentalizzare.
Non amo le contrapposizioni della memoria dove alcuni politici vorrebbero condurci.
Le tragedie provocate dalle guerre, generano ferite difficili da rimarginare, bisognerebbe avere più cura nel maneggiare la memoria di certi eventi,
bisognerebbe che la politica facesse due passi indietro di fronte alle commemorazioni, affinché si arrivasse con la volontà di ritrovare la pace comune, che anche tutti i caduti di quel tempo meritano».

Adesso, quali sono i suoi progetti?

«Partecipo a molte conferenze e vengo chiamata in diverse scuole a parlare di ciò che ho vissuto
e della tragedia di più di 350.000 italiani costretti ad andar via dalle terre di Istria e Dalmazia.
Parlo anche di chi, in quelle terre è stato ucciso nelle foibe, oppure gettato legato nel mare e in tanti altri modi, avendo come unica colpa l’essere italiano.

Qualche giorno fa, ho fatto personalmente la posa della prima pietra del museo a me dedicato a Fertilia (Alghero), il “Museo Egea”.
Il Museo, costruito in un bene messo a disposizione dalla Regione, sarà terminato per settembre e, attraverso un percorso multimediale ricco di documenti e testimonianze,
farà conoscere sia la storia della “città di fondazione” Fertilia, sia quella dell’esodo giuliano-dalmata.
Un progetto molto bello, che darà modo alle giovani generazioni di conoscere la verità contro la cultura dell’odio e della mistificazione che ha contribuito per decenni ad occultarla».



«Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com’ a Pola, presso del Carnaro,
ch’Italia chiude e suoi termini bagna»

(Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, canto IX, vv. 112-114)
 

Val

Torniamo alla LIRA
Mentre si aggrava il bilancio dell’epidemia da coronavirus in Cina,
dalla Germania arriva una notizia che rischia di gettare nuove ombre sulla diffusione della superpolmonite che sta facendo tremare il globo.

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Quattro ricercatori tedeschi dell’Istituto di Igiene e Medicina Ambientale dell’ospedale universitario di Greifswald, in Germania,
hanno scoperto che il nuovo coronavirus può resistere e rimanere infettivo per oltre una settimana sulle superfici.

Almeno 4 o 5 giorni, massimo una settimana in condizioni favorevoli, ovvero bassa temperatura ed alti tassi di umidità.

La ricerca del professor Günter Kampf, pubblicata sul Journal of Hospital Infection, rivoluziona le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità,
che finora avevano scartato questa ipotesi.
Si tratta, come evidenzia il Messaggero, della "revisione" di studi pregressi, effettuati sui diversi tipi di agenti patogeni della stessa famiglia: Mers, Sars e Hcov.

Secondo gli studiosi anche il nuovo coronavirus, si comporterebbe come gli altri e avrebbe quindi una capacità di sopravvivenza e un’efficacia infettiva
che si protrae fino a nove giorni su superfici come vetro, plastica o metallo. Attenzione quindi, secondo gli esperti, a "maniglie, pulsanti, letti, comodini".
Tutti elementi che possono essere toccati dai pazienti e diventare veicolo di infezione.

Non a caso, ricorda Leggo, uno studio apparso recentemente su una rivista scientifica americana, il Journal of American Medical Association,
conferma come a Whuan, la città da cui si è diffuso il contagio del virus,
quasi la metà dei pazienti abbiano contratto la malattia all’interno dell’ospedale dove sono stati ricoverati i primi pazienti infetti.


Per arginare il rischio che le superfici si trasformino in un veicolo per contrarre la polmonite che arriva dalla Cina c’è innanzitutto l’igiene.
Disinfettare con soluzioni che contengano "agenti biocidi".

Intanto in Cina, 97 nuovi decessi hanno fatto salire a 908 la conta dei morti per il nuovo coronavirus.
Attualmente sarebbero 3.062 i nuovi casi confermati e 4.008 quelli sospetti,
mentre le persone che nel Paese asiatico hanno contratto il virus dall’inizio dell’epidemia, sono arrivate a 40.171.
 

Val

Torniamo alla LIRA
“Ricordo di aver visto il capo del campo buttare la pistola per terra. Era un uomo terribile, crudele, che picchiava selvaggiamente le prigioniere,
e in quel momento una parte di me avrebbe voluto raccogliere la pistola e ucciderlo. Fu un istante di vertigine,
durante il quale mi sembrò che si fossero invertite le parti: forte io e debole lui. Guardavo l’arma, feci per prenderla convinta di potergli sparare, sicura che ne sarei stata capace.
La vendetta mi sembrava a portata di mano. Ma di colpo capii che non avrei mai potuto farlo, che non avrei mai potuto ammazzare nessuno.
Questo fu l’attimo straordinario che dimostrò la differenza tra me e il mio assassino. E da quel preciso istante fui libera.”
 

Val

Torniamo alla LIRA
Vorrei ricordare che nelle foibe morirono piu di 12.000 italiani e nella shoah sono morti 6.219 ebrei italiani ..
il dramma delle foibe è doppio rispetto a quello della shoah. Anche se tutti i morti sono uguali ed importanti, anche se fossero uno solo.. vanno pertanto ricordati in modo onorevole.
Ho visto la vergogna fatta ad agora questa mattina che ne ha parlato per solo 5 minuti, presentando le persone morte nelle foibe come fascisti,torturatori ,spie ecc.
spero che l'associazione delle foibe riveda quel filmato e denunci agora ,la rai e la conduttrice..
 

Val

Torniamo alla LIRA
È diventato un caso la serata dedicata al Giorno del Ricordo, venerdì sera, 7 febbraio, al teatro civico di Dalmine.

Il Comune di Dalmine, infatti, che aveva concesso il patrocinio e il teatro, e figurava tra i promotori, sabato 8 febbraio si è dissociato:

«L’amministrazione comunale si dissocia nettamente dai contenuti della serata promossa ieri da Anpi, Arci, Cgil, Acli e Il Porto in occasione del Giorno del Ricordo
– si legge sulla pagina Facebook del Comune – la collaborazione del Comune è stata concessa sulla scorta della garanzia (riportata sulla locandina dell’evento)
che si sarebbe trattato di un evento senza strumentalizzazioni politiche, basato su dati storici. Al contrario, durante la serata sono state esposte tesi che si configurano come negazioniste».

A sollevare le critiche è stato l’intervento introduttivo allo spettacolo («Quando il sommacco diventa rosso. Lettere da Pola», tratto dal libro di Fulvia Giusti)
affidato a Grazia Milesi, membro dell’Anpi Alto Sebino, che avrebbe dovuto inquadrare dal punto di vista storico quello che poi sarebbe andato in scena sul palco.

Intervento che però non è piaciuto al Comune, con l’assessore alla Pubblica istruzione, Gianluca Iodice che ha abbandonato il teatro, e con alcuni dei presenti,
tra cui i membri dell’associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia che hanno contestato Milesi con toni aspri anche in diretta.

«In sintesi – scrive il Comune – le conclusioni della Milesi sono state le seguenti: gli infoibati e gli esuli Italiani giuliano-dalmati se la sono meritata perché erano tutti fascisti,
in realtà i numeri divulgati sono gonfiati, gli esuli hanno scelto liberamente di andarsene dalle loro terre per cogliere un’opportunità nella Repubblica Italiana,
e il Giorno del Ricordo è stato istituito sulla base di bugie e come rivalsa nei confronti del Giorno della Memoria.

Tesi che si configurano come negazioniste e quindi inaccettabili. Il Giorno del Ricordo non può essere sovvertito affermando che esso sia basato su una bugia».

Intanto, continua l’assessore, «è stato come se in occasione del Giorno della Memoria un gruppo di nazifascisti avesse promosso in uno spazio pubblico una serata per negare la Shoah. Un insulto».

E spiega che ci saranno conseguenze: «La fiducia è stata concessa, ora le associazioni organizzatrici sono state misurate per la loro credibilità
e il Comune e il mio assessorato d’ora in poi agiranno di conseguenza. La porta del Comune è e sarà sempre aperta per coloro che sanno esseri seri,
ma sarà chiusa per chi non è eticamente, moralmente e storicamente corretto», conclude Iodice.
 

Val

Torniamo alla LIRA
La Turingia fa cedere una testa pesante nella politica tedesca. Annagret Kramp-Karrenbauer, detta AKK,
segretario della CDU e nominata alla successione della Merkel come cancelliere,
ha annunciato che rinuncia alla cancelleria e che presto lascerà anche la presidenza del partito.

Angela Merkel ha comunque confermato che manterrà la sua posizione di ministro della difesa.

Queste sono le conseguenze di una gestione confusa e superficiale di un partito diviso fra base locale e dirigenza.

La dirigenza preferirebbe, come nel caso della Turingia, appoggiare dall’esterno un governo di sinistra estrema con la Linke,
piuttosto che allearsi con Alternative fur Deutschland.

Questa scelta risulta non appetibile alla base: alla fine gli elettori di AfD sono anche elettori della CDU delusi.
In Turingia i voti sono di CDU e AfD sono confluiti sul liberale Kemmerich eleggendolo presidente per un giorno.
La AKK ha chiesto elezioni immediate anticipate, una scelta che avrebbe segnato l’ennesima sconfitta della CDU a favore di Linke e AfD.

AKK si trova in una posizione impossibile : per mantenere l’alleanza com la SPD, deve essere inflessibile verso gli identitari della AfD,
ma mantenendo questa posizione si distacca sempre più dalla propria origine politica e dalla propria base, lasciando ancora più spazio proprio ad AfD.

Una contraddizione evidente, anche se i media tedeschi fanno finta di ignorarla, che alla fine ha macinato anche AKK,
accusata di essere debole ed incapace di una vera leadership.

Allo stesso modo sgretolerá il suo successore se proseguirà nella stessa politica.
 

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