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I salari reali italiani e la più iniqua delle imposte: l’inflazione (Parte 2) →
I salari reali italiani: un ventennio perduto (Parte 1)

Pubblicato il 23 luglio 2013 di memmttoscana
Questo post è il primo di una serie dedicata all’analisi storica e politica del mercato del lavoro in Italia. Cercheremo di capire come su di esso abbiano influito i vari shock di politica economica occorsi a partire dall’inizio degli anni ottanta: dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia all’indomani dell’entrata italiana nello Sistema Monetario Europeo (SME), alle politiche fiscali intraprese dai governi che si sono succeduti, fino alla lunga fase di crescente liberalizzazione del mercato del lavoro.
Sovranità monetaria e politica fiscale
Il punto centrale dal quale parte la Mosler Economics – Modern Money Theory è il concetto di sovranità monetaria. Ossia: 1) lo Stato è la prima entità che emette la moneta nell’atto della spesa pubblica, definendo in questo modo qual è la moneta di Stato e 2) quella valuta fluttua liberamente sul mercato dei cambi, cioè non è vincolata ad alcuna parità di cambio prestabilita e perseguita dalle autorità politiche e monetarie. Ovviamente, come spesso dico, si tratta di un requisito indispensabile per fare in modo che un governo possa applicare una politica fiscale in grado di apportare un beneficio all’intera collettività, cioè si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente: possibilità e volontà politica sono due concetti ben diversi e questo non va mai dimenticato.
Il mercato del lavoro
Facciamo un passo in avanti cercando di capire quale sia il rapporto fra politica fiscale e mercato del lavoro. Una prima considerazione piuttosto banale è che un governo che non dispone della piena sovranità monetaria, che è costretto pertanto a finanziarsi sul mercato, incontra un ostacolo notevole alla sua (eventuale) volontà politica di applicare politiche indirizzate al sostegno sia del livello della domanda in generale che, soprattutto, dei salari dei lavoratori. Per riassumere il concetto: se i soldi devo farmeli prestare e accettare le condizioni di prestito altrui può risultare più difficile proporre un certo tipo di politica economica.Ecco dunque che in una situazione del genere il mercato del lavoro viene lasciato a se stesso e alle sue dinamiche interne.
E per capirne le dinamiche è opportuno cercare di dare una definizione di mercato del lavoro. Come ci ricorda Bill Mitchell, economista dell’Univeristà di Leeds (Australia) e direttore del Center of Full employment and Equity, il mercato del lavoro va considerato prima di tutto come un costrutto sociale, che, in quanto tale, incorpora delle relazioni di potere. Queste relazioni di potere, ovviamente, non sono date e immutabili, bensì esprimono e riflettono il risultato di una “lotta” fra attori economici portatori di interessi diversi. Per dirla con Marx, da una parte abbiamo coloro che che vendono la propria forza lavoro (i lavoratori), dall’altra, coloro che acquistano questa forza lavoro (che possiamo chiamare in via generale capitalisti).
Queste due categorie sono fondamentalmente antagoniste, dal momento che i lavoratori vorrebbero essere pagati di più per lavorare il minor tempo possibile, mentre i capitalisti vorrebbero sborsare meno soldi per acquisire il maggior flusso possibile di prestazioni lavorative.
Il modello mainstream
Questo tipo di visione purtroppo viene oggi dal tutto sfumata, se non addirittura eliminata, nell’approccio mainstream (quello di stampo neoclassico).
Per esempio, nel famoso manuale di Macroeconomia di Olivier Blanchard (forse il più utilizzato nei corsi di economia politica nelle università italiane) pur essendo sottolineato e analizzato il peso della presenza di sindacati e di imprese dotate di gradi diversi di potere di mercato nel processo di contrattazione salariale, la conclusione teorica è che, in realtà, il conflitto salariale è dannoso per i lavoratori stessi.
L’idea neoclassica in soldoni è questa: supponiamo che i lavoratori diventino più rivendicativi e comincino a chiedere salari più elevati perché per esempio vengono introdotte leggi che li tutelano maggiormente oppure perché i sindacati che li rappresentano sono estremamente agguerriti; a questo punto, secondo Blanchard, le imprese reagiranno aumentando il livello dei prezzi, in modo da preservare il proprio margine di profitto; questo aumento dei prezzi effettivi indurrà i lavoratori a rivedere al rialzo il livello dei prezzi attesi, spingendoli a chiedere ulteriori aumenti salariali; ciò innescherà un’ulteriore reazione da parte delle imprese e così via. Ma non finisce qui, spiega sempre Blanchard: l’aumento dei prezzi e dei salari provocherà una diminuzione del valore delle scorte monetarie, e una conseguente corsa alla vendita di titoli per acquisire più moneta, che farà aumentare il tasso d’interesse e dunque diminuirà il livello di investimenti, produzione, domanda e quindi, in ultima battuta, provocherà un aumento della disoccupazione. A questo punto, l’aumento dei disoccupati costringerà i lavoratori a ricomporre le proprie rivendicazioni, che si uniformeranno necessariamente al salario reale offerto dalle imprese. Il nuovo equilibrio del mercato del lavoro ha così determinato un aumento della disoccupazione.
Cosa dovrebbero fare, quindi, i lavoratori? Beh, dice il modello mainstream, dovrebbero ridurre e moderare le loro pretese salariali. Infatti, se i salari reali domandati dai lavoratori diventano inferiori a quelli offerti dalle imprese, caleranno in maniera proporzionale anche i prezzi applicati dalle imprese stesse, quindi aumenterà il valore reale delle scorte monetarie e con esso la domanda di beni e servizi, il livello degli investimenti, la produzione e dunque anche l’occupazione.
Insomma, il modello mainstream, suggerisce apertamente che il conflitto salariale e le rivendicazioni sindacali sono dannose per il lavoratore stesso e quindi è opportuno a prescindere perseguire politiche di moderazione salariale. Il messaggio di fondo è dunque che il conflitto non paga, anzi. Il tutto si fonda poi naturalmente sul concetto di “equilibrio naturale”, ossia che esiste un livello naturale di produzione, salari, prezzi, disoccupazione a cui tende l’economia che non può essere scalfito in alcun modo.
Purtroppo, il modello mainstream non solo non regge di fronte alla realtà dei dati (come vedremo) ma incorpora in sé anche profonde ombre di tipo teorico (che volesse approfondire approfondire può vedere l’interessante saggio in italiano Anti-Blanchard di Emiliano Brancaccio).
Quali sono questi limiti (e ne elenco solo i principali):
Primo: Blanchard considera il margine di profitto applicato dalle imprese come un qualcosa di dato, di fisso, di costante e assume quindi che nel momento in cui le imprese acquisiscano una maggiore forza contrattuale nei confronti dei lavoratori non la usino per incrementare la loro quota profitti, invece di, come viene sostenuto, diminuire i prezzi. Capite bene che si tratta di una forzatura teorica piuttosto azzardata e che oltretutto sembra essere abbastanza irrealistica.
Secondo: il conflitto salariale, nella visione mainstream, si risolve con un adeguamento che viene imposto da parte delle imprese ai lavoratori, quando invece è molto più presumibile che un conflitto di questo tipo spesso tenda a stabilizzarsi in una situazione intermedia, in cui le imprese magari riducono in parte il loro margine di profitto e i lavoratori aumentano la propria quota salari proporzionale. Detto altrimenti, il risultato finale di questa “lotta” lavoratore-capitalista dipende molto più verosimilmente dal contesto politico-istituzionale in cui avviene lo scontro. Un contesto in cui le leggi proteggono molto i lavoratori e nel quale i sindacati sono molto agguerriti e inflessibili potrebbe costringere le imprese a cedere il passo.
I salari reali italiani
Dopo questo excursus teorico cominciamo a mettere insieme i pezzi. Il primo dato dal quale partire è quello dei salari reali italiani. La parola chiave in questo caso è “reali”. Infatti, come spiega ancora Bill Mitchell, una distinzione fondamentale da tenere a mente quando si parla di salari dei lavoratori è quella fra salario monetario e salario reale. Il salario monetario è quello che viene a determinarsi sul mercato del lavoro e corrisponde all’ammontare di denaro che un lavoratore riceve dal proprio datore di lavoro nel corso di un certo arco di tempo (noi utilizzeremo come arco temporale un anno). Solitamente il salario monetario percepito dal lavoratore è il risultato di accordi sindacali fra imprese e lavoratori.
Mentre il salario monetario rappresenta semplicemente la quantità di denaro ricevuta per il proprio lavoro, il salario reale è definito in relazione alla quantità di beni e servizi che si possono acquistare in un determinato periodo con quel determinato salario monetario.
Per calcolare il salario reale basterà quindi “deflazionare” il salario monetario (che possiamo anche chiamare salario nominale) per l’indice generale dei prezzi al consumo (si tratta dell’indice le cui variazioni determinano quella che comunemente conosciamo come inflazione). Cosa significa “deflazionare”? Se per esempio nel corso di un anno il salario nominale di un lavoratore cresce di 10 e il livello generale dei prezzi al consumo cresce di 9, allora il suo salario reale risulterà cresciuto di 1, dal momento che all’incremento monetario corrisponde realmente la possibilità di acquistare maggiori beni e servizi rispetto a prima.
Bene, per calcolare i salari reali italiani abbiamo dunque bisogno di alcuni dati che possiamo prendere freschi freschi dal database Ameco della Commissione Europea online e da quello del Fondo Monetario Internazionale:
1) Il livello complessivo dei salari, che sono definiti come redditi da lavoro dipendente (in inglese Compensation of employees, total economy). Si tratta della somma di tutti i salari ricevuti complessivamente dai lavoratori nell’arco di un anno solare.
2) Il livello generale dei prezzi al consumo (in inglese Inflation, avarage consumer price index), che ci dice se e quanto in più o in meno rispetto all’anno precedente costa acquistare una certa quantità di beni e servizi.
3) Ovviamente capirete che è abbastanza irrilevante vedere qual è l’ammontare complessivo dei salari se non si sa fra quante persone viene divisa questa cifra. Perciò, un’analisi più accurata dovrebbe considerare non tanto l’ammontare complessivo dei salari, quanto il salario individuale di ogni lavoratore. Dunque, aggiungiamo alla lista il numero totale dei lavoratori dipendenti, dal solito database Ameco (in inglese Employees, persons: total economy).
In questo modo potremo, da una parte, ottenere il salario unitario (per ogni singolo lavoratore) e poi dividendolo per l’indice dei prezzi al consumo ottenere il salario reale di ogni lavoratore. Manca ancora un piccolo dettaglio. Dal momento che non ci interessa e non servirebbe a niente il dato annuale ma quello che ci interessa vedere è l’andamento storico, è necessario prendere un anno come anno di riferimento, anno base per il nostro indice dei prezzi al consumo. Io ho scelto il 2005. In questo modo il valore dei salari reali sarà espresso a prezzi costanti del 2005.
Ecco la tabella con tutti i calcoli (vi consiglio di aprirla in un’altra finestra, basta cliccarci sopra):
I numeri sono piuttosto eloquenti: in termini reali per trovare un livello salariale più basso del 2012 dobbiamo tornare indietro al 1988!!!
Ovvio che la botta fra 2011 e 2012 con un meno 3%, bottega del Mario Monti al grido “Più Europa!”, sia solo il percorso finale di un ventennio di crescita praticamente nulla dei salari reali (ricordo ancora che si parla di salari depurati dall’inflazione).
Prima di andare avanti a commentare direi di trasporre i numeri piuttosto ingombranti della tabella in un bel grafico. Molto più immediato (i calcoli li lascio per i maniaci dei numeri come me che magari scovano qualche errore) ed efficace.
Eccolo:
Credo che qualcuno sarà sorpreso di vedere, così come lo sono stato io inizialmente, che negli anni sessanta, settanta e, sia pur in misura minore, anche in quelli ottanta – sì quelli dell’inflazione a due cifre brutta e cattiva – i salari reali crescevano in maniera costante e quasi esponenziale anno dopo anno.
Non è un caso che il governatore della Banca d’Italia riconoscesse sostanzialmente questo fatto nelle sue Considerazioni finali del 1981 (pag. 878-879), con un’importante aggiunta nel finale:
Si trattava, come molti di voi ormai sanno, di Carlo Azeglio Ciampi.
Direi che è abbastanza per oggi. Tenete a mente le sue ultime parole, perché da lì ripartiremo.
Daniele Della Bona
 

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Forumer storico
I salari reali italiani e la più iniqua delle imposte: l’inflazione (Parte 2) →
I salari reali italiani: un ventennio perduto (Parte 1)

Pubblicato il 23 luglio 2013 di memmttoscana
Questo post è il primo di una serie dedicata all’analisi storica e politica del mercato del lavoro in Italia. Cercheremo di capire come su di esso abbiano influito i vari shock di politica economica occorsi a partire dall’inizio degli anni ottanta: dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia all’indomani dell’entrata italiana nello Sistema Monetario Europeo (SME), alle politiche fiscali intraprese dai governi che si sono succeduti, fino alla lunga fase di crescente liberalizzazione del mercato del lavoro.
Sovranità monetaria e politica fiscale
Il punto centrale dal quale parte la Mosler Economics – Modern Money Theory è il concetto di sovranità monetaria. Ossia: 1) lo Stato è la prima entità che emette la moneta nell’atto della spesa pubblica, definendo in questo modo qual è la moneta di Stato e 2) quella valuta fluttua liberamente sul mercato dei cambi, cioè non è vincolata ad alcuna parità di cambio prestabilita e perseguita dalle autorità politiche e monetarie. Ovviamente, come spesso dico, si tratta di un requisito indispensabile per fare in modo che un governo possa applicare una politica fiscale in grado di apportare un beneficio all’intera collettività, cioè si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente: possibilità e volontà politica sono due concetti ben diversi e questo non va mai dimenticato.
Il mercato del lavoro
Facciamo un passo in avanti cercando di capire quale sia il rapporto fra politica fiscale e mercato del lavoro. Una prima considerazione piuttosto banale è che un governo che non dispone della piena sovranità monetaria, che è costretto pertanto a finanziarsi sul mercato, incontra un ostacolo notevole alla sua (eventuale) volontà politica di applicare politiche indirizzate al sostegno sia del livello della domanda in generale che, soprattutto, dei salari dei lavoratori. Per riassumere il concetto: se i soldi devo farmeli prestare e accettare le condizioni di prestito altrui può risultare più difficile proporre un certo tipo di politica economica.Ecco dunque che in una situazione del genere il mercato del lavoro viene lasciato a se stesso e alle sue dinamiche interne.
E per capirne le dinamiche è opportuno cercare di dare una definizione di mercato del lavoro. Come ci ricorda Bill Mitchell, economista dell’Univeristà di Leeds (Australia) e direttore del Center of Full employment and Equity, il mercato del lavoro va considerato prima di tutto come un costrutto sociale, che, in quanto tale, incorpora delle relazioni di potere. Queste relazioni di potere, ovviamente, non sono date e immutabili, bensì esprimono e riflettono il risultato di una “lotta” fra attori economici portatori di interessi diversi. Per dirla con Marx, da una parte abbiamo coloro che che vendono la propria forza lavoro (i lavoratori), dall’altra, coloro che acquistano questa forza lavoro (che possiamo chiamare in via generale capitalisti).
Queste due categorie sono fondamentalmente antagoniste, dal momento che i lavoratori vorrebbero essere pagati di più per lavorare il minor tempo possibile, mentre i capitalisti vorrebbero sborsare meno soldi per acquisire il maggior flusso possibile di prestazioni lavorative.
Il modello mainstream
Questo tipo di visione purtroppo viene oggi dal tutto sfumata, se non addirittura eliminata, nell’approccio mainstream (quello di stampo neoclassico).
Per esempio, nel famoso manuale di Macroeconomia di Olivier Blanchard (forse il più utilizzato nei corsi di economia politica nelle università italiane) pur essendo sottolineato e analizzato il peso della presenza di sindacati e di imprese dotate di gradi diversi di potere di mercato nel processo di contrattazione salariale, la conclusione teorica è che, in realtà, il conflitto salariale è dannoso per i lavoratori stessi.
L’idea neoclassica in soldoni è questa: supponiamo che i lavoratori diventino più rivendicativi e comincino a chiedere salari più elevati perché per esempio vengono introdotte leggi che li tutelano maggiormente oppure perché i sindacati che li rappresentano sono estremamente agguerriti; a questo punto, secondo Blanchard, le imprese reagiranno aumentando il livello dei prezzi, in modo da preservare il proprio margine di profitto; questo aumento dei prezzi effettivi indurrà i lavoratori a rivedere al rialzo il livello dei prezzi attesi, spingendoli a chiedere ulteriori aumenti salariali; ciò innescherà un’ulteriore reazione da parte delle imprese e così via. Ma non finisce qui, spiega sempre Blanchard: l’aumento dei prezzi e dei salari provocherà una diminuzione del valore delle scorte monetarie, e una conseguente corsa alla vendita di titoli per acquisire più moneta, che farà aumentare il tasso d’interesse e dunque diminuirà il livello di investimenti, produzione, domanda e quindi, in ultima battuta, provocherà un aumento della disoccupazione. A questo punto, l’aumento dei disoccupati costringerà i lavoratori a ricomporre le proprie rivendicazioni, che si uniformeranno necessariamente al salario reale offerto dalle imprese. Il nuovo equilibrio del mercato del lavoro ha così determinato un aumento della disoccupazione.
Cosa dovrebbero fare, quindi, i lavoratori? Beh, dice il modello mainstream, dovrebbero ridurre e moderare le loro pretese salariali. Infatti, se i salari reali domandati dai lavoratori diventano inferiori a quelli offerti dalle imprese, caleranno in maniera proporzionale anche i prezzi applicati dalle imprese stesse, quindi aumenterà il valore reale delle scorte monetarie e con esso la domanda di beni e servizi, il livello degli investimenti, la produzione e dunque anche l’occupazione.
Insomma, il modello mainstream, suggerisce apertamente che il conflitto salariale e le rivendicazioni sindacali sono dannose per il lavoratore stesso e quindi è opportuno a prescindere perseguire politiche di moderazione salariale. Il messaggio di fondo è dunque che il conflitto non paga, anzi. Il tutto si fonda poi naturalmente sul concetto di “equilibrio naturale”, ossia che esiste un livello naturale di produzione, salari, prezzi, disoccupazione a cui tende l’economia che non può essere scalfito in alcun modo.
Purtroppo, il modello mainstream non solo non regge di fronte alla realtà dei dati (come vedremo) ma incorpora in sé anche profonde ombre di tipo teorico (che volesse approfondire approfondire può vedere l’interessante saggio in italiano Anti-Blanchard di Emiliano Brancaccio).
Quali sono questi limiti (e ne elenco solo i principali):
Primo: Blanchard considera il margine di profitto applicato dalle imprese come un qualcosa di dato, di fisso, di costante e assume quindi che nel momento in cui le imprese acquisiscano una maggiore forza contrattuale nei confronti dei lavoratori non la usino per incrementare la loro quota profitti, invece di, come viene sostenuto, diminuire i prezzi. Capite bene che si tratta di una forzatura teorica piuttosto azzardata e che oltretutto sembra essere abbastanza irrealistica.
Secondo: il conflitto salariale, nella visione mainstream, si risolve con un adeguamento che viene imposto da parte delle imprese ai lavoratori, quando invece è molto più presumibile che un conflitto di questo tipo spesso tenda a stabilizzarsi in una situazione intermedia, in cui le imprese magari riducono in parte il loro margine di profitto e i lavoratori aumentano la propria quota salari proporzionale. Detto altrimenti, il risultato finale di questa “lotta” lavoratore-capitalista dipende molto più verosimilmente dal contesto politico-istituzionale in cui avviene lo scontro. Un contesto in cui le leggi proteggono molto i lavoratori e nel quale i sindacati sono molto agguerriti e inflessibili potrebbe costringere le imprese a cedere il passo.
I salari reali italiani
Dopo questo excursus teorico cominciamo a mettere insieme i pezzi. Il primo dato dal quale partire è quello dei salari reali italiani. La parola chiave in questo caso è “reali”. Infatti, come spiega ancora Bill Mitchell, una distinzione fondamentale da tenere a mente quando si parla di salari dei lavoratori è quella fra salario monetario e salario reale. Il salario monetario è quello che viene a determinarsi sul mercato del lavoro e corrisponde all’ammontare di denaro che un lavoratore riceve dal proprio datore di lavoro nel corso di un certo arco di tempo (noi utilizzeremo come arco temporale un anno). Solitamente il salario monetario percepito dal lavoratore è il risultato di accordi sindacali fra imprese e lavoratori.
Mentre il salario monetario rappresenta semplicemente la quantità di denaro ricevuta per il proprio lavoro, il salario reale è definito in relazione alla quantità di beni e servizi che si possono acquistare in un determinato periodo con quel determinato salario monetario.
Per calcolare il salario reale basterà quindi “deflazionare” il salario monetario (che possiamo anche chiamare salario nominale) per l’indice generale dei prezzi al consumo (si tratta dell’indice le cui variazioni determinano quella che comunemente conosciamo come inflazione). Cosa significa “deflazionare”? Se per esempio nel corso di un anno il salario nominale di un lavoratore cresce di 10 e il livello generale dei prezzi al consumo cresce di 9, allora il suo salario reale risulterà cresciuto di 1, dal momento che all’incremento monetario corrisponde realmente la possibilità di acquistare maggiori beni e servizi rispetto a prima.
Bene, per calcolare i salari reali italiani abbiamo dunque bisogno di alcuni dati che possiamo prendere freschi freschi dal database Ameco della Commissione Europea online e da quello del Fondo Monetario Internazionale:
1) Il livello complessivo dei salari, che sono definiti come redditi da lavoro dipendente (in inglese Compensation of employees, total economy). Si tratta della somma di tutti i salari ricevuti complessivamente dai lavoratori nell’arco di un anno solare.
2) Il livello generale dei prezzi al consumo (in inglese Inflation, avarage consumer price index), che ci dice se e quanto in più o in meno rispetto all’anno precedente costa acquistare una certa quantità di beni e servizi.
3) Ovviamente capirete che è abbastanza irrilevante vedere qual è l’ammontare complessivo dei salari se non si sa fra quante persone viene divisa questa cifra. Perciò, un’analisi più accurata dovrebbe considerare non tanto l’ammontare complessivo dei salari, quanto il salario individuale di ogni lavoratore. Dunque, aggiungiamo alla lista il numero totale dei lavoratori dipendenti, dal solito database Ameco (in inglese Employees, persons: total economy).
In questo modo potremo, da una parte, ottenere il salario unitario (per ogni singolo lavoratore) e poi dividendolo per l’indice dei prezzi al consumo ottenere il salario reale di ogni lavoratore. Manca ancora un piccolo dettaglio. Dal momento che non ci interessa e non servirebbe a niente il dato annuale ma quello che ci interessa vedere è l’andamento storico, è necessario prendere un anno come anno di riferimento, anno base per il nostro indice dei prezzi al consumo. Io ho scelto il 2005. In questo modo il valore dei salari reali sarà espresso a prezzi costanti del 2005.
Ecco la tabella con tutti i calcoli (vi consiglio di aprirla in un’altra finestra, basta cliccarci sopra):
I numeri sono piuttosto eloquenti: in termini reali per trovare un livello salariale più basso del 2012 dobbiamo tornare indietro al 1988!!!
Ovvio che la botta fra 2011 e 2012 con un meno 3%, bottega del Mario Monti al grido “Più Europa!”, sia solo il percorso finale di un ventennio di crescita praticamente nulla dei salari reali (ricordo ancora che si parla di salari depurati dall’inflazione).
Prima di andare avanti a commentare direi di trasporre i numeri piuttosto ingombranti della tabella in un bel grafico. Molto più immediato (i calcoli li lascio per i maniaci dei numeri come me che magari scovano qualche errore) ed efficace.
Eccolo:
Credo che qualcuno sarà sorpreso di vedere, così come lo sono stato io inizialmente, che negli anni sessanta, settanta e, sia pur in misura minore, anche in quelli ottanta – sì quelli dell’inflazione a due cifre brutta e cattiva – i salari reali crescevano in maniera costante e quasi esponenziale anno dopo anno.
Non è un caso che il governatore della Banca d’Italia riconoscesse sostanzialmente questo fatto nelle sue Considerazioni finali del 1981 (pag. 878-879), con un’importante aggiunta nel finale:
Si trattava, come molti di voi ormai sanno, di Carlo Azeglio Ciampi.
Direi che è abbastanza per oggi. Tenete a mente le sue ultime parole, perché da lì ripartiremo.
Daniele Della Bona
 

mototopo

Forumer storico
(Parte 3) →
I salari reali italiani e la più iniqua delle imposte: l’inflazione (Parte 2)

Pubblicato il 29 luglio 2013 di memmttoscana
Secondo post dedicato all’analisi storica e politica del mercato del lavoro in Italia (qui la Parte 1). Cercheremo di capire come su di esso abbiano influito i vari shock di politica economica occorsi a partire dall’inizio degli anni ottanta: dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia all’indomani dell’entrata italiana nello Sistema Monetario Europeo (SME), alle politiche fiscali intraprese dai governi che si sono succeduti, fino alla lunga fase di crescente liberalizzazione del mercato del lavoro.
Riassunto della puntata precedente
La parte nuova inizia sotto, dopo la lista numerata di riepilogo per chi avesse già letto la prima parte.
Dunque, abbiamo visto che:
1) Il mercato del lavoro è un costrutto sociale, che, in quanto tale, incorpora delle relazioni di potere. Queste relazioni di potere, ovviamente, non sono date e immutabili, bensì esprimono e riflettono il risultato di una “lotta” fra attori economici portatori di interessi diversi. Per dirla con Marx, da una parte abbiamo coloro che che vendono la propria forza lavoro (i lavoratori); dall’altra, coloro che acquistano questa forza lavoro (che possiamo chiamare in via generale capitalisti).
2) Il modello mainstream (di stampo neo-classico), pur sottolineando e analizzando il peso della presenza di sindacati e di imprese dotate di gradi diversi di potere di mercato nel processo di contrattazione salariale, conclude che, in realtà, il conflitto salariale è dannoso per i lavoratori stessi. Dal momento che maggiori rivendicazioni salariali innescano una spirale al rialzo fra salari e prezzi imposti dalle imprese che determina in ultima battuta un aumento della disoccupazione. Dunque è nell’interesse dei lavoratori contenere le proprie rivendicazioni.
3) Questo tipo di visione appare da un punto di vista teorico assai scricchiolante soprattutto perché tende a risolvere lo scontro che avviene sul mercato del lavoro in un adeguamento che viene imposto da parte delle imprese ai lavoratori in modo quasi unilaterale, quando invece è molto più presumibile che un conflitto di questo tipo spesso tenda a stabilizzarsi in una situazione intermedia, in cui le imprese magari riducono in parte il loro margine di profitto e i lavoratori aumentano la propria quota salari proporzionale. Detto altrimenti, il risultato finale di questa “lotta” lavoratore-capitalista dipende molto più verosimilmente dal contesto politico-istituzionale in cui avviene lo scontro. Un contesto in cui le leggi proteggono molto i lavoratori e nel quale i sindacati sono molto agguerriti e inflessibili potrebbe costringere le imprese a cedere il passo.
4) Poi, abbiamo visto che quando si parla di salari dei lavoratori dobbiamo tenere a mente una distinzione fondamentale: quella fra salario nominale (o monetario) e salario reale. Il salario monetario è quello che viene a determinarsi sul mercato del lavoro e corrisponde all’ammontare di denaro che un lavoratore riceve dal proprio datore di lavoro nel corso di un certo arco di tempo (noi utilizzeremo come arco temporale un anno). Solitamente il salario nominale percepito dal lavoratore è il risultato di accordi sindacali fra imprese e lavoratori.
Mentre il salario nominale rappresenta semplicemente la quantità di denaro ricevuta per il proprio lavoro, il salario reale è definito in relazione alla quantità di beni e servizi che si possono acquistare in un determinato periodo con quel determinato salario monetario.
Se per esempio nel corso di un anno il salario nominale di un lavoratore cresce di 10 e il livello generale dei prezzi al consumo cresce di 9, allora il suo salario reale risulterà cresciuto di 1, dal momento che all’incremento monetario corrisponderà la possibilità di acquistare maggiori beni e servizi rispetto a prima.
5) Infine abbiamo calcolato l’andamento dei salari reali italiani (ho spiegato nella prima parte come li ho calcolati), osservando che essi sono sostanzialmente fermi da un ventennio:

SECONDA PARTE
Salario reale e inflazione
Ci viene continuamente ripetuto che l’inflazione è il peggiore di tutti i mali, la più iniqua delle tasse, il fenomeno monetario che danneggia il lavoratore più di ogni altra cosa. L’argomentazione più utilizzata è questa: se un lavoratore guadagna per esempio 10 e l’inflazione (la misura della variazione dell’Indice dei prezzi al consumo) aumenta di 10 allora il suo salario reale e il suo potere d’acquisto restano immutati; se l’inflazione aumenta di 15 peggio ancora, il suo salario reale risulterà diminuito di 5. Dunque, questa è la logica conseguenza, bisogna a tutti i costi fermare questo male che si chiama inflazione e concentrare tutte le energie per il contenimento e la stabilità dei prezzi, che sono la sola cosa in grado di tutelare i lavoratori e i loro salari.
Indubbiamente, si tratta di un tipo di argomentazione che ha avuto e tutt’oggi ha un notevole appeal e che probabilmente persuade anche molti di voi che stanno leggendo queste righe: se il livello dei prezzi sale troppo allora il tuo salario e i tuoi soldi varranno meno, ergo dobbiamo evitare per il bene di tutti che i prezzi salgano troppo.
L’inflazione in Italia
Quindi, se quanto detto in precedenza risulta vero, dovremmo aspettarci che nel momento in cui i prezzi salgono molto e soprattutto quando lo fanno in modo improvviso e repentino i salari verranno “sopravanzati” dall’inflazione: il livello dei prezzi sale a livelli tali da superare qualsiasi aumento salariale, facendo così diminuire il potere d’acquisto dei lavoratori.
Questo dovrebbe raccontare la realtà per rendere ameno verosimile l’ipotesi iniziale. In economia, così come in generale nella vita, capirete che ogni ipotesi per essere quantomeno fondata ha bisogno di un riscontro empirico, deve effettivamente funzionare alla prova dei fatti. Se dati e teoria non stanno insieme quasi sicuramente significa che c’è qualcosa che non va dalla parte teorica, dal momento che i dati (senza pretesa di divinizzarli) sono numeri e su quelli poi bisogna ragionare. Detto altrimenti: una buona teoria economica, che ha la pretesa di spiegare il funzionamento della realtà, deve in qualche modo rispondere, essere uniforme alla realtà stessa. Se si costruiscono modelli teorici che si basano su un mondo che non esiste è ridicolo poi lamentarsi per il fatto che il mondo reale non sia quello che noi pretendevamo fosse, o peggio ancora accusare il mondo di non uniformarsi al modello teorico costruito.
Vediamo quindi come si è evoluta l’inflazione in Italia (grafico in basso) negli ultimi cinquant’anni:
Come potete ben vedere ci sono stati due grandi picchi d’inflazione nella storia della nostra Repubblica. Il primo nel 1974, l’anno del primo shock petrolifero iniziato nell’ottobre 1973, nel corso del quale il prezzo del petrolio aumentò di circa 4 volte e l’inflazione toccò il 19,4%. Il secondo picco fu invece quello del 1980, quando una nuova ascesa del prezzo del petrolio colpì le economie occidentali: stavolta l’inflazione segnò un picco del 21,28%. Il 1974, inoltre, segna l’avvio degli anni dell’inflazione a due cifre (che tanto spaventava e ancora spaventa tutti quanti), che andarono dal 1973 (10,74%) al 1985 (10,85%). Non va dimenticato però che si trattò di una serie di eventi di natura esterna tanto imponenti quanto inaspettati. In basso potete vedere l’andamento del prezzo del petrolio (in dollari) dal 1961 al 1990 per farvi un’idea della portata del fenomeno:
Si vede bene che nel 1974 il prezzo del petrolio quasi quadruplicò a prezzi correnti e più che triplicò a prezzi costanti, attestandosi su quei valori fino al 1978. L’anno seguente (1979) i prezzi salirono ancora, raddoppiando sia in termini correnti che costanti. E bisognerà aspettare il 1986 per vedere tornare i prezzi a livelli inferiori rispetto al 1974. Inoltre, a riprova del fatto che si trattò di un evento di portata più mondiale che nazionale, basta osservare l’andamento del tasso d’inflazione delle altre nazioni occidentali in quegli stessi anni.
Come potete notare l’Italia era in buona compagnia e c’era anche chi faceva “peggio” di noi: Giappone e Regno Unito per esempio ebbero picchi d’inflazione addirittura superiori al nostro nel corso degli anni settanta e un aumento del livello dei prezzi interni si manifestò anche in Francia e Stati Uniti e in misura minore persino nell’allora Germania dell’Ovest. Il secondo shock degli anni ottanta colpì nuovamente tutti quanti, sia pure in maniera diversa. In ogni caso, l’inflazione in doppia cifra fu registrata nel 1980 non solo in Italia, ma anche nel Regno Unito, in Francia e negli Stati Uniti. E, così come l’inflazione si muoveva verso l’alto in modo piuttosto analogo da paese a paese, lo stesso avvenne in senso contrario, quando a partire dalla seconda metà degli anni ottanta il prezzo del petrolio e i tassi d’inflazione cominciarono a scendere in modo omogeneo praticamente ovunque.
Salari e inflazione
Dell’inflazione abbiamo parlato. A questo punto, ci resta da vedere se davvero essa è nemica dei lavoratori perché un suo aumento eccessivo e improvviso (stile anni settanta-ottanta) diminuisce il valore del loro salario nominale/monetario e quindi fa calare il loro salario reale (che ricordiamo equivale a: salario nominale meno tasso d’inflazione). Per farlo ci servono quindi due variabili:
1) L’andamento dei salari nominali. Per calcolarlo prendiamo il salario nominale unitario (cioè il salario medio di un lavoratore dipendente), che già avevamo visto nella prima parte, e poi calcoliamo il suo andamento temporale. Vediamo cioè di quanto il salario nominale aumenta o diminuisce da un anno all’altro (qui tutti i calcoli). Ricordo che i dati vengono dal solito database della Commissione Europea Ameco.
2) Il tasso d’inflazione, ossia la variazione anno su anno dell’Indice dei prezzi al consumo. Si tratta della linea rossa che abbiamo visto prima, che non fa altro che riflettere la variazione annuale del livello generale dei prezzi al consumo. Per questo dato ho utilizzato il database del Fondo Monetario Internazionale, International Financial Statistics.
Prima di vedere questi due dati ricordiamo che se la linea dei salari sta al di sopra di quella dell’inflazione allora significa che i salari reali stanno crescendo. Viceversa se la linea rossa sovrasta quella blu dei salari significa che i lavoratori vedono diminuire il loro salario reale.
Ed ecco finalmente i dati:
Beh alla faccia dell’imposta più iniqua. Per tutti gli anni sessanta e settanta, nonostante l’inflazione a due cifre e gli shock petroliferi di cui sopra, i salari dei lavoratori crescevano regolarmente e superavano ampiamente l’incremento dei prezzi. Come si può ben vedere dal grafico in basso, I lavoratori vedevano aumentare anno dopo anno il loro salario reale e con questo il loro potere d’acquisto e il loro benessere generale.
Poi, negli anni ottanta succede qualcosa, lo vedete bene. La linea blu e quella rossa quasi si sovrappongono e poi, sostanzialmente a partire dalla fine della prima metà anni novanta, la linea blu finisce spesso al di sotto di quella rossa, anche se l’inflazione tocca i suoi minimi storici. Significa che il salario reale dei lavoratori diminuisce e così avviene anche per il loro potere d’acquisto.
Ecco quindi che a chi racconta la storia dell’inflazione brutta, cattiva, iniqua e nemica dell’operaio bisognerebbe quantomeno rispondere così: “Aspetta un attimo amico. Un momento. Nemica sì, ma solo se i salari non crescono o meglio se crescono in misura minore, se crescono di più rispetto a quanto cresce il livello dei prezzi allora il potere d’acquisto aumenta e non il contrario.
Direi che per la seconda parte è abbastanza. A presto per la prossima parte, per parlare di cosa è accaduto proprio a partire dall’inizio degli anni ottanta, quelli della lotta all’inflazione.​
Daniele Della Bona
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Lo scambio di lettere con cui fu siglato il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia (Parte 4) →
Il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia e la lotta all’inflazione (Parte 3)

Pubblicato il 1 settembre 2013 di memmttoscana
Terza parte della serie dedicata all’analisi storica e politica del mercato del lavoro in Italia (qui trovate la Parte 1 e la Parte 2). Cercheremo di capire come su di esso abbiano influito i vari shock di politica economica occorsi a partire dall’inizio degli anni ottanta: dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia all’indomani dell’entrata italiana nello Sistema Monetario Europeo (SME), alle politiche fiscali intraprese dai governi che si sono succeduti, fino alla lunga fase di crescente liberalizzazione del mercato del lavoro.
Per riepilogare le puntate precedenti sarà sufficiente una grafico sui cui ho inserito, da una parte, l’andamento dei salari reali in Italia e, dall’altra, quello dell’inflazione (variazione dell’indice dei prezzi al consumo). I dati dimostrano una cosa molto semplice: durante la fase di inflazione in doppia cifra i salari reali dei lavoratori crescevano (aumentando così il loro potere d’acquisto); mentre, quando l’inflazione inizia a calare bruscamente (a partire dalla seconda metà degli ottanta) i salari reali si incamminano invece lungo un percorso di sostanziale appiattimento. A partire dal 1992, la loro crescita, che era stata abbastanza costante nei trent’anni precedenti, si arresta. La linea diventa piatta e nell’ultimo anno, quello del salvatore della patria Mario Monti (come lo presentò qualcuno), scende addirittura verso il basso, facendo tornare i salari reali ai livelli del 1988.

Ma, fu proprio in base all’assunto secondo il quale l’inflazione danneggia i salari dei lavoratori (premessa palesemente sbagliata come i dati suggeriscono) che si pensò di attuare, a partire dall’inizio degli anni ottanta (nel pieno dei due shock petroliferi), “decisioni politiche mai tentate prima di allora”, così le definì a posteriori il ministro del Tesoro di allora, Beniamino Andreatta (fonte). E queste decisioni furono tutt’altro che irrilevanti per il futuro dell’economia italiana e dei lavoratori.
L’inflazione veniva vista allora come una vera e propria piaga da estirpare: Carlo Azeglio Ciampi (governatore della Banca d’Italia dal 1979 al 1993) la definiva come un “male sottile [...] che attacca ora con nuova violenza(Considerazioni finali 1979, p. 828). E si pensava, almeno questa fu l’idea dichiarata dai due protagonisti della storia che stiamo per raccontare, di debellare la malattia (l’inflazione) combattendone le cause.
Lo Stato fu individuato come una di queste: come ricorda Andreatta nel 1991, infatti, “la Banca d’Italia aveva perduto il controllo dell’offerta di moneta” e, per riconquistarlo, doveva essere “liberata dall’obbligo di garantire il finanziamento del Tesoro” (fonte). Un pensiero pienamente condiviso anche dall’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, che già nel 1980 scriveva: “Il ritorno a una moneta stabile richiede un vero cambiamento di costituzione monetaria, che coinvolge la funzione della banca centrale, le procedure per le decisioni di spesa pubblica e quelle per la distribuzione del reddito. Prima condizione è che il potere della creazione della moneta si eserciti in completa autonomia dai centri in cui si decide la spesa. […] Oggi quella esigenza deve esser soddisfatta soprattutto nei confronti del settore pubblico, liberando la banca centrale da una condizione che permette ai disavanzi di cassa di sollecitare una larghezza di creazione di liquidità non coerente con gli obiettivi di crescita della moneta. Ciò impone il riesame dei modi attraverso i quali, nel nostro ordinamento, l’istituto di emissione finanzia il Tesoro: lo scoperto del conto corrente di tesoreria, la pratica dell’acquisto residuale dei buoni ordinari alle aste, la sottoscrizione di altri titoli emessi dallo Stato. In particolare è urgente che cessi l’assunzione da parte della Banca d’Italia dei Bot non aggiudicati alle aste” (Considerazioni finali 1980, p. 867-868).
Sembra di capire, insomma, che la soluzione venisse ricercata nelle teorie monetariste, sempre più diffuse all’epoca, secondo cui la moneta causa l’inflazione. Le stesse che peraltro si ritrovano ancora oggi sui maggiori manuali universitari. Uno su tutti, il manuale di macroeconomia di Olivier Blanchard, recita espressamente: “Un’elevata inflazione deriva da un’elevata crescita della moneta. Quest’ultima a sua volta è dovuta alla presenza di ampi disavanzi di bilancio e all’incapacità da parte del governo di finanziarsi con prestiti, presso il pubblico o all’estero”. In soldoni, l’idea è questa: dal momento che il prezzo dei beni è determinato dalla quantità di moneta disponibile per il loro acquisto, un aumento della moneta determinerà automaticamente un incremento del prezzo di quei beni. E, prosegue la tesi monetarista, dal momento che la Banca centrale è la sola in grado di controllare l’offerta di moneta, sarà sufficiente renderla indipendente e autonoma nel suo operato dal Tesoro, per poter tenere sotto controllo in un solo colpo sia la quantità di moneta che, come conseguenza, il livello dei prezzi.
Sono esattamente queste le basi teoriche che rendono legittima e plausibile la creazione di un organo dal tutto indipendente e sovraordinato al potere esecutivo, depositario di un quarto potere monetario da esercitare in completa autonomia, al fine di contenerne l’azione del governo e impedirne la creazione di moneta. Il tutto in nome della stabilità dei prezzi e della lotta senza quartiere all’inflazione, innalzate a virtù supreme e benefiche per l’intera collettività. Aderire a questo tipo d’impostazione significa però accettare inevitabilmente che il governo sia costretto a chiedere in prestito ai mercati i soldi per finanziare la propria spesa (come avviene oggi nell’Eurozona).
Inoltre, dietro ad un’apparente motivazione di carattere tecnico, si nasconde in realtà un orientamento ideologico ben preciso che si fonda su alcuni preconcetti di fondo: il primo è che l’inflazione sia il male assoluto; il secondo è che l’esercizio del potere monetario lasciato nelle mani di uomini politici, anche se democraticamente eletti, sia destinato ad un esercizio distorto, inefficiente e corrotto; terzo, si ritiene che dei tecnici possano gestire la creazione di moneta in maniera migliore, illuminata e più efficace. Questi tre assunti, della cui legittimità non solo democratica ma anche tecnica ci sarebbe discutere (e lo faremo più avanti), costituiscono il fondamento filosofico della creazione di una Banca centrale “indipendente” dall’esecutivo.
Come dice Mario Monti (uno dei maggiori sostenitori di questo approccio): “il rapporto fra democrazia e Banca centrale è come un ‘deposito’ che la politica fa in un luogo di lunga durata, a cui affida in custodia i valori che ritiene importanti. La stessa politica sa che questi valori saranno meglio tutelati, se affidati a qualcuno che può permetterselo, trovandosi al riparo dal processo elettorale” (Fonte). Vedete, in queste poche righe traspare tutta la filosofia paternalistica (“la politica sa che questi valori saranno meglio tutelati”) e antidemocratica (“al riparo dal processo elettorale”) della Banca centrale indipendente.
Quindi, riepilogando: all’inizio degli anni ottanta, c’era la motivazione politica dichiarata (sia del ministro del Tesoro che del Governatore), il contesto storico favorevole (il doppio shock petrolifero, l’alta inflazione e l’ingresso nello Sme, di cui parleremo) e una teoria economica ad hoc (patrocinata dal premio nobel Milton Freidman) a pieno supporto di “decisioni politiche mai tentate prima di allora”, come le chiamò Andreatta.
Fu così che, come ricorda lo stesso Andreatta, “con l’ asta dei Bot del luglio 1981 iniziava, dieci anni fa, un nuovo regime di politica monetaria. Si inaugurava, infatti, il cosiddetto ‘divorzio’ fra Tesoro e Banca d’ Italia: una ‘separazione dei beni’ che esimeva la seconda dal garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal primo”. Si creava di fatto una “‘separatezza’ fra i poteri esecutivo, legislativo e monetario”, con il potere monetario che avrebbe però regnato in completa indipendenza e senza contrappesi rispetto agli altri poteri, condizionandone e indirizzandone in modo sempre più determinante l’esercizio. E non finisce qui, perché il nostro reo confesso parla di una vera e propria “congiura tra il ministro e il governatore”, che non passò per i classici canali della dialettica democratica, ma fu esclusivamente frutto di una sua personale decisione. Tale scelta, infatti, non aveva alcun consenso politico, venne presa “in una compagine ministeriale in cui non avevo alleati, ma colleghi ossessionati dall’ideologia della crescita a ogni costo, sostenuta da bassi tassi di interesse reali e da un cambio debole”, ma i “consulenti legali mi diedero un parere favorevole sulla mia esclusiva competenza, come ministro del Tesoro, di ridefinire i termini delle disposizioni date alla Banca d’Italia circa le modalità dei suoi interventi sul mercato e il 12 febbraio 1981 scrissi la lettera che avrebbe portato nel luglio dello stesso anno al ‘divorzio’. Il termine intendeva sottolineare una discontinuità, un mutamento appunto di regime della politica economica”. E, forse proprio in virtù della sua matrice antidemocratica, tale atto, come ricorda bene il protagonista di questa storia, “non ebbe allora il consenso politico, né lo avrebbe avuto negli anni seguenti”, ma, “prima che la coalizione degli interessi contrari potesse organizzarsi”, esso sarebbe diventato “un fatto della vita che sarebbe stato troppo costoso – soprattutto sul mercato dei cambi – abolire per ritornare alle più confortevoli abitudini del passato” (fonte).
Inizia una nuova era. L’Italia cede, infatti, la propria sovranità monetaria a un’entità esterna: “da quel momento in avanti – ricorda sempre Andreatta - la vita dei ministri del Tesoro si era fatta più difficile e a ogni asta il loro operato era sottoposto al giudizio del mercato”. D’ora in poi, quindi, sarebbero stati i mercati, depositari del potere monetario, a dettare l’agenda economica al governo e al parlamento di Roma. Inutile dire che ciò che sta avvenendo oggi, con governi e parlamenti sempre più alla mercé dei mercati (“sottoposti al giudizio del mercato” per dirla con l’ex ministro), affonda le sue radici in questo preciso momento storico. Da quel momento, infatti, ciò che prima apparteneva allo Stato, fu ceduto nelle mani del mercato.
E, come ammette lo stesso Andreatta, non si trattò di una cessione avvenuta in modo democratico. Tutt’altro: non ci fu alcun decreto del governo, nessun voto parlamentare. Il tutto fu consumato in uno scambio epistolare fra il Ministro e il Governatore. Il 12 febbraio 1981, Beniamino Andreatta, scriveva su carta intestata del Ministero del Tesoro che c’era “un’insufficiente autonomia nella condotta della Banca d’Italia nei confronti delle esigenze di finanziamento del tesoro. In particolare l’esistenza di un obbligo di acquisto residuale in sede d’asta dei Bot [...] e la norma sul massimo scoperto del conto corrente di tesoreria provinciale, comportano un insieme di vincoli sulla libertà di gestione dell’offerta di moneta”. L’idea era di arrivare a ”un sistema in cui l’intervento della Banca d’Italia all’asta dei Bot” fosse “una libera decisione della Banca stessa”. Il destinatario della lettera era Carlo Azeglio Ciampi, allora Governatore della Banca d’Italia, il quale rispose prontamente il 6 marzo, dicendosi “sostanzialmente d’accordo” e ribadendo che per superare “i vincoli imposti dalla dimensione e dall’andamento nel tempo del disavanzo statale” fosse “necessario che il finanziamento al Tesoro della Banca d’Italia” venisse “da questa regolato in piena autonomia al fine di raggiungere gli obiettivi di controllo monetario. […] Occorrerebbe dunque che il Tesoro – continuava – finanziasse l’intero ammontare delle spese non coperte da entrate fiscali mediante emissione di titoli in pubblica sottoscrizione […] L’interruzione dell’automatismo degli acquisti della banca centrale alle aste dei Bot è un primo passo, di notevole importanza, per la realizzazione di un obiettivo di crescita della base monetaria complessiva, indipendente dal disavanzo”.
Il divorzio fu così siglato.
Un risultato fu certamente ottenuto: il “male” fu effettivamente estirpato. Dalla seconda metà degli anni ottanta, infatti, il tasso d’inflazione annuo si incamminò su un sentiero stabile di bassa crescita in singola cifra. Giova ricordare che, casualmente proprio quando l’inflazione cominciò a rallentare nella seconda metà degli anni ottanta, anche il prezzo del petrolio scese in maniera consistente, riportandosi sui valori analoghi a quelli della seconda metà degli anni settanta (nel 1986 il suo prezzo medio si dimezzò rispetto all’anno precedente).
I presunti benefici profilati da Ciampi, secondo il quale “in altri paesi, dagli equilibri economici più saldi del nostro, sono stati stretti accordi che prevedono tagli del salario reale. In alcuni casi, come nella Germania federale, i sindacati li hanno accettati nella convinzione che la minore inflazione che ne conseguirà consentirà sicurezza del posto di lavoro e, a non lunga scadenza, ricuperi durevoli di potere d’acquisto” (Considerazioni finali 1981, p.878-879), non si manifestarono.
Come mostra il grafico in alto la discesa dell’inflazione portò, contrariamente alle dell’ex Governatore, a una perdita del potere d’acquisto dei lavoratori. Come ricorda il solito Andreatta, c’era un altro problema da affrontare con urgenza alla vigilia del divorzio: “il demenziale rafforzamento della scala mobile, prodotto dell’accordo tra Confindustria e sindacati confederali proprio nei primi mesi del 1975, aveva talmente irrigidito la struttura dei prezzi, che, in presenza di un raddoppio del prezzo dell’energia, anche una forte stretta da sola era impotente a impedire che un nuovo equilibrio potesse essere raggiunto senza un’ inflazione tale da riallineare prezzi e salari ai costi dell’energia” (fonte).
La scala mobile era uno strumento economico grazie al quale i salari dei lavoratori venivano indicizzati automaticamente all’inflazione e all’aumento del costo della vita. Se il livello medio dei prezzi cresceva, anche i salari aumentavano proporzionalmente ad esso. In questo modo si evitava che i salari reali (ossia i salari depurati dall’inflazione) ristagnassero o diventassero negativi. Ma il problema, utilizzando il solito pretesto tecnico fornito ad arte dalle teorie monetariste, era che se i salari aumentavano troppo allora cresceva anche la quantità di moneta e con essa, come conseguenza, saliva l’inflazione.
La storia che venne raccontata ai lavoratori fu il solito cliché di paternalismo edulcorato: “Vedi, caro operaio: devi sapere che l’inflazione è la tua nemica, perché erode il valore del tuo salario. Quindi, se noi ci diamo tanto da fare per combatterla, la facciamo anche per il tuo bene”. E, infatti, proprio negli anni successivi al divorzio, tale strumento verrà prima ridimensionato dal governo Craxi (1984) e in seguito abolito del tutto dal governo Amato (1992).
Ma non solo: anche il livello dell’occupazione non migliorò affatto (altro dato che smentisce Ciampi). Al contrario, come mostra il grafico in basso, dal 1960 al 1976 il tasso di disoccupazione non superò mai il 6 per cento; aumentò leggermente nei cinque anni successivi, toccando il 7,4 per cento nel 1981. Ma, nel corso degli anni ottanta salì ulteriormente, arrivando in doppia cifra verso la metà degli anni novanta.

Direi che per adesso può bastare, nella prossima parte vedremo le altre conseguenze del divorzio e soprattutto come funzionava prima del divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia.
Daniele Della Bona
 

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I veri costi della politica →
Lo scambio di lettere con cui fu siglato il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia (Parte 4)

Pubblicato il 4 settembre 2013 di memmttoscana
Aggiungo a corredo del post precedente (che trovate qui o qui) le lettere scambiate fra il Ministro del Tesoro dell’epoca, Beniamino Andreatta, e il Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, che nel 1981 siglarono il cosiddetto divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia.
I documenti sono tratti dal testo L’Autonomia della politica monetaria. Il divorzio Tesoro-Banca d’Italia trent’anni dopo di Andreatta B., Ciampi C. A., Draghi M., Grassini F. A., Letta E., Monti M., Mussari G., Salvemini T. (2011).
La prima lettera viene inviata da Andreatta il 12 febbraio del 1981:
A questa farà seguito la risposta di Carlo Azeglio Ciampi il 6 marzo dello stesso anno:
 
Ultima modifica:

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ogni commnto e' puramente superfluo. beh forse x qualcuno no...... uno fu fatto capo di stato......... siamo esuli in patria
 

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Giacinto Auriti: l’esperimento monetario di Guardiagrele
A cura del Dott. Gianluigi Mucciaccio - 18 settembre 2006
È trascorso ormai più di un mese dalla morte del prof. Giacinto Auriti, avvenuta l’11 agosto di quest’anno e credo che sia giusto ricordare ancora il Genio, consentitemi questa espressione, poichè effettuò, a Guardiagrele (CH) sua città natale in Abruzzo, un esperimento che ebbe enorme successo salvo poi che l’iniziativa fu, subdolamente, interrotta dalla Procura di Chieti su denuncia non solo di alcuni commercianti locali, ma anche su pressioni, guarda caso, della Banca d’Italia.
Ricordo i punti essenziali dell’iniziativa.
Il professor Giacinto Auriti alla fine del Luglio 2000, in qualità di fondatore e segretario del SAUS (Sindacato anti-usura) mise in circolazione i SIMEC (simboli econometrici di valore indotto) di esclusiva proprietà del portatore (come è esplicitamente stampato sui biglietti).
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Taglio da 1000 SIMEC
Scopo di questo esperimento della teoria del valore indotto (che Auriti ha propugnato per oltre trentacinque anni) era quello di verificare "in corpore vili" che i cittadini possono per convenzione creare il valore della moneta locale senza alcun intervento nè dello Stato nè del sistema bancario; l'obiettivo ultimo era quello di sostituire alla sovranità illegittima della Banca d'Italia la proprietà della moneta, quale prerogativa dello Stato, a favore dei singoli cittadini; ma l’esperimento rappresentò già un successo rilevantissimo, perchè apportò un punto fermo in materia monetaria, ovverosia l'accertamento sul piano pratico e fattuale del principio che il valore è dato alla moneta solo da chi l'accetta (cittadini) sulla base di una convenzione, e non da chi la emette (banca).
Questa affermazione vale ancora di più in relazione al fatto che fu abolita la moneta convertibile in oro ovvero la cd riserva aurea il 15 agosto del 1971 su iniziativa di Richard Nixon storicamente conosciuta come l’abolizione degli accordi di Bretton Woods. In coerenza di quest’ultima affermazione più volte ribadita dal professor Auriti , l’operazione economica svoltasi a Guardiagrele, a detta dei quotidiani di quel periodo, rivitalizzò il commercio e quindi la critica economia locale (Guardiagrele risultava il comune con il più alto indice per suicidi da insolvenza). Nella circostanza il professor Auriti rilasciò la seguente dichiarazione piuttosto lapidaria: «È come se avessimo messo del sangue in un corpo dissanguato».
Non può dubitarsi che l'iniziativa del giurista abruzzese costituisce un importante riscontro scientifico di sociologia giuridica ed economica senza precedenti in Italia, soprattutto perché proviene da un'associazione privata (SAUS) e non da un ente dotato di potere pubblico, come potrebbe essere, se non lo Stato, il Comune. Deve anche aggiungersi che l'esperimento di Auriti sollecitò l'attenzione non solo delle forze politiche italiane, oltre che della stampa nazionale, ma anche di numerosi organi di informazione stranieri, a dimostrazione dell'interesse destato dalla nuova rivoluzionaria formula monetaria, che configurò la moneta come strumento di diritto sociale avente contenuto patrimoniale come detta l’art. 42 della costituzione al secondo comma, che riconosce la proprietà per tutti aggiungendo in piena legittimità alla sovranità politica anche quella monetaria in capo alle collettività nazionali.
Auriti realizzò il progetto in due fasi: la prima, che il professore denominò dell'avviamento, servì perché il SIMEC potesse conseguire "quel valore indotto che lo oggettivizza come un bene reale, oggetto di proprietà del portatore", e che lo distinse dalla moneta corrente non più soltanto formalmente, ma anche sostanzialmente. La seconda fase che consentì al Comune di "beneficiare del servizio econometrico predisposto dal SAUS (Sindacato anti-usura), mediante un Assessorato per il Reddito di Cittadinanza, che ebbe il compito di promuovere, anche culturalmente, l'iniziativa, di controllare e attuare la distribuzione dei SIMEC tra i cittadini".
In sostanza il progetto tecnicamente parlando si sviluppò lungo questa direttrice: il cittadino si recava e cambiava il SIMEC alla pari con la lira. Poniamolo così: il cittadino depositava centomila lire (eravamo ancora alla vecchia ma molto più funzionale lira) e prendeva in cambio centomila SIMEC. I centomila SIMEC in mano alla persona che effettuava il cambio diventavano duecentomila cioè il doppio, perché il SIMEC per convenzione valeva il doppio della lira, e siccome lui l'accettava e accettava, nel contempo, anche di partecipare alla convenzione, consentiva la nascita del valore convenzionale che non ha riserva in coerenza all’abolizione della riserva aurea avvenuta con la cessazione degli accordi di Bretton Woods.
Il SIMEC era senza riserva: come, ad esempio, un francobollo d'antiquariato. Il cittadino andava dal commerciante a fare la spesa e quest'ultimo accettava i SIMEC per il doppio perché convenzionalmente valeva il doppio. Quando i cittadini, dunque andavano a fare il cambio questo avveniva per il doppio, perché tutti quanti lo accettavano per il doppio. Tutto questo risultò un vero e proprio volano per l’economia locale tanto più che il professor Auriti sostenne:«La gente è entusiasta perché qui è rinata Guardiagrele. Quando è entrato sul mercato il valore indotto del SIMEC è ritornato il sangue nell'economia», permettendo concretamente ai cittadini di toccare con mano la rinascita economica e sociale del paese che purtroppo crollò in virtù del sequestro dei SIMEC su disposizione della Procura di Chieti e non solo. Credo che questa iniziativa meriti una certa attenzione, poiché potrebbe concretamente trovare una sua riproposizione, su larga scala, dato che i SIMEC sequestrati furono successivamente dissequestrati palesando, nell’occasione, la legittimità e la credibilità di quel famoso esperimento di grande caratura come d’altronde ha dimostrato durante tutto l’arco della sua vita il Genio Auriti lottatore insuperabile del sistema bancario.
http://www.disinformazione.it/index.html
 

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