dalla CINA con Furore
L’ascesa del “Petro-yuan” e la lenta erosione dell’egemonia del dollaro
12 settembre 2014 Di
Francesco Simoncelli
L’introduzione all’articolo di oggi sarà breve perché esso stesso dice molto. Voglio solo aggiungere un paio di notizie attraverso le quali poter capire a che punto è arrivato il processo di de-dollarizzazione tra le varie nazioni del mondo e come lo yuan ne sta traendo beneficio. Gli ultimi tre mesi, infatti, hanno visto una Russia in crescente contrasto con gli USA, il risultato è stato sfavorevole per il biglietto verde.
Prima Gazprom inizia ad accettare pagamenti in yuan, poi l’Inghilterra concorda con la Cina swap di valute (e la Svizzera la segue a ruota), poi la Turchia rompe i rapporti con gli USA, infine i BRICS lanciano il loro veicolo di finanziamento estraneo al dollaro. Russia e Cina non hanno dimostrato teoricamente che un mondo senza dollaro è possibile, bensì quel mondo è già qui… nella pratica. Vediamo chi saranno i prossimi a salire su questo treno.
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di
Ron Paul
Per 70 anni uno dei fondamenti del potere americano è stato il dollaro, il cui ruolo è stato quello di moneta più importante del mondo. Negli ultimi 40 anni la sua dominanza nei mercati energetici internazionali ha rappresentato la sua presunta inossidabilità.
Oggi la Cina non solo sta diventando una potenza economica, ma anche un mercato importante per gli esportatori di idrocarburi nel Golfo Persico ed una minaccia per il predominio del dollaro nel mercato energetico — con profonde conseguenze per la posizione strategica dell’America.
Sin dalla seconda guerra mondiale, la supremazia geopolitica dell’America ha fatto leva non solo sulla forza militare, ma anche sulla posizione del dollaro come valuta di riserva mondiale. Dal punto di vista economico il primato del dollaro gli consente di godere di “enormi vantaggi”, minimizzando il rischio di cambio per le imprese statunitensi. La sua reale importanza, però, è strategica:
il primato del dollaro permette all’America di coprire i suoi deficit di bilancio e delle partite correnti stampando semplicemente più cartamoneta—
questo è precisamente il modo in cui Washington finanzia il suo potere da oltre mezzo secolo.
Sin dagli anni ’70 una colonna del primato del dollaro è stato il suo ruolo dominante nella determinazione dei prezzi del petrolio e del gas. Ciò mantiene alta la domanda mondiale di dollari. Alimenta anche la voglia di dollari da parte dei produttori di energia, cosa che rafforza la posizione del dollaro come asset di riserva a livello mondiale; inoltre, i dollari possono essere “riciclati” nell’economia degli Stati Uniti per coprire i deficit americani.
Molti ritengono che la preminenza del dollaro nei mercati dell’energia deriva dal suo
status di valuta di riserva mondiale. Ma il ruolo del dollaro in questi mercati non è né naturale né una funzione della sua posizione dominante. In realtà, è stato progettato dai responsabili della politica statunitense dopo il crollo dell’ordine monetario di Bretton Woods nei primi anni ’70, ponendo fine alla versione iniziale del primato del dollaro (“egemonia del dollaro 1.0″).
Collegare il dollaro alla negoziazione internazionale del petrolio è stata la chiave per creare una nuova versione del primato del dollaro (“egemonia del dollaro 2.0″) — e, per estensione, per finanziare altri quaranta anni di egemonia americana.
Oro ed Egemonia del Dollaro 1.0
Il primato del dollaro è stato sancito in occasione della conferenza di Bretton Woods nel 1944, dove gli alleati degli americani aderirono al progetto di Washington di un ordine monetario internazionale. La delegazione della Gran Bretagna — guidata da Lord Keynes — e quella di ogni altro paese partecipante, salvo gli Stati Uniti, preferiva la creazione di una nuova valuta emessa dal neonato Fondo Monetario Internazionale (FMI) come principale fonte di liquidità globale. Ma questo avrebbe ostacolato le ambizioni americane di un ordine monetario dollaro-centrico. Anche se quasi tutti i partecipanti preferivano l’opzione inglese, il potere schiacciante dell’America fece sì che alla fine prevalessero le sue preferenze. Così, sotto il
gold exchange standard di Bretton Woods, il dollaro fu ancorato all’oro e le altre valute ancorate al dollaro, il che lo rese la principale forma di liquidità internazionale.
C’era, però, una contraddizione nella visione di Washington.
L’unico modo in cui l’America poteva diffondere abbastanza dollari per soddisfare le esigenze di liquidità mondiali, era attraverso disavanzi nelle partite correnti a tempo indeterminato. Mentre l’Europa occidentale ed il Giappone si riprendevano e riconquistavano la competitività, questi deficit crescevano. Data la domanda crescente dell’America — per finanziare l’aumento dei consumi, l’espansione dello stato sociale e l’allargamento del suo potere nel mondo —
l’offerta di moneta statunitense presto superò le riserve auree. Sin dagli anni ’50 Washington lavorò per convincere o costringere i titolari di dollari stranieri a non scambiare i biglietti verdi con l’oro. Ma l’insolvenza non poteva essere scongiurata a lungo: nell’agosto del 1971 il presidente Nixon sospese la convertibilità dollaro/oro, ponendo fine al
gold exchange standard; nel 1973 sparirono anche i tassi di cambio fissi.
Questi eventi sollevarono diversi interrogativi sulla solidità a lungo termine di un ordine monetario basato sul dollaro. Per conservare il loro ruolo di fornitori di liquidità internazionale, gli Stati Uniti avrebbero dovuto continuare ad accumulare disavanzi delle partite correnti. Ma questi deficit stavano andando fuori controllo, poiché l’abbandono di Bretton Woods si intersecò con altri due sviluppi: l’America divenne un importatore netto di petrolio nei primi anni ’70; l’affermazione sulla scena mondiale dei membri chiave dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) nel 1973-1974 generò un aumento del 500% del prezzo del petrolio, aggravando la pressione sulla bilancia dei pagamenti statunitense. Con il legame tra il dollaro e l’oro reciso ed i tassi di cambio non più fissi, la prospettiva di un deficit statunitense sempre più grande faceva germogliare preoccupazioni circa il valore di lungo termine del dollaro.
Queste preoccupazioni ebbero risonanza speciale tra i grandi produttori di petrolio. Sin dagli anni ’20 il petrolio era prezzato in dollari sui mercati internazionali — ma, per decenni, venne utilizzata
anche la sterlina negli acquisti di petrolio transnazionali, anche dopo che il dollaro la sostituì come valuta di riserva mondiale. Fino a quando la sterlina fu ancorata al dollaro e il dollaro era “buono quanto l’oro”, il sistema era economicamente sostenibile. Ma dopo che Washington abbandonò la convertibilità dollaro/oro e il mondo passò da tassi di cambio fissi a fluttuanti, emerse la necessità di scegliere una nuova valuta per commerciare il petrolio. Con la fine della convertibilità dollaro/oro, i principali alleati dell’America nel Golfo Persico — lo Scià in Iran, il Kuwait e l’Arabia Saudita — finirono per favorire un cambio nel sistema dei prezzi dell’OPEC: dai prezzi denominati in dollari, alla loro denominazione secondo un paniere di valute.
In questo contesto, molti degli alleati europei dell’America volevano far rivivere l’idea (enunciata da Keynes a Bretton Woods) di fornire liquidità internazionale tramite una valuta emessa dal FMI — i cosiddetti
“diritti speciali di prelievo” (DSP). Dopo che l’aumento dei prezzi del petrolio gonfiò i loro conti correnti, l’Arabia Saudita ed altri alleati arabi degli Stati Uniti spinsero affinché l’OPEC iniziasse la fatturazione in DSP. Inoltre guardavano con interesse le proposte europee per riciclare i petrodollari attraverso il
FMI, al fine di incoraggiare la sua affermazione come fornitore principale di liquidità internazionale post-Bretton Woods. Ciò avrebbe significato che Washington non avrebbe più potuto continuare a stampare dollari per sostenere l’aumento dei consumi, l’incremento delle spese sociali e l’espansione della sua influenza globale. Per evitare tutto ciò, i politici americani dovettero trovare nuovi modi per incentivare gli stranieri a detenere quelli che ormai erano dollari fiat.
Petrolio ed Egemonia del Dollaro 2.0
A partire dalla metà degli anni ’70 le amministrazioni degli Stati Uniti misero a punto due strategie.
Una era massimizzare la domanda di dollari come valuta transnazionale. L’altra era invertire le restrizioni di Bretton Woods sui flussi di capitali transnazionali; con la liberalizzazione finanziaria, l’America poteva sfruttare l’ampiezza e la profondità dei suoi mercati dei capitali, e poteva coprire i suoi deficit di bilancio e delle partite correnti attirando capitali stranieri a costi relativamente bassi. Forgiare forti legami tra la vendita di idrocarburi e il dollaro era fondamentale su entrambi i fronti.
Per creare tali legami, Washington convinse i suoi alleati arabi nel Golfo a cedere la gestione della loro sicurezza agli Stati Uniti in cambio di un aiuto finanziario. Oltre ad infrangere le promesse fatte ai partner europei e giapponesi,
l’amministrazione Ford spinse clandestinamente l’Arabia Saudita e gli altri produttori arabi a riciclare quantità sostanziali dei loro petrodollari nell’economia statunitense attraverso intermediari privati (in gran parte degli Stati Uniti), piuttosto che attraverso il FMI. L’amministrazione Ford chiese anche il supporto per le finanze tese di Washington, raggiungendo accordi segreti con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti affinché le loro banche centrali acquistassero grandi quantità di titoli del Tesoro USA al di fuori delle aste normali. Queste disposizioni impedirono al FMI di spodestare gli Stati Uniti come principale fornitore di liquidità internazionale; inoltre contribuirono all’ampliamento dei deficit degli Stati Uniti, spalleggiato dal re-investimento di dollari esteri in America tramite i mercati finanziari privati e gli acquisti di titoli di stato statunitensi.
Pochi anni dopo, l’amministrazione Carter strinse un altro accordo segreto con i sauditi: Riyadh si impegnava ad esercitare la sua influenza in modo da garantire che l’OPEC continuasse a prezzare in dollari il petrolio. Tale impegno risultò fondamentale per ampliare l’egemonia del dollaro come valuta transnazionale nel mercato petrolifero. Col collasso del sistema dei prezzi amministrato dall’OPEC a metà degli anni ’80, l’amministrazione Reagan suggerì che le vendite di petrolio transfrontaliere fossero fatturate in dollari. Prezzare il petrolio — e, più tardi, il gas — in dollari garantiva che le vendite di idrocarburi non solo fossero espresse in dollari, ma venissero anche saldate col biglietto verde, generando un costante sostegno alle domanda di dollari in tutto il mondo.
In breve, queste occasioni furono
fondamentali nella creazione “dell’egemonia del dollaro 2.0″. E sostanzialmente hanno retto finora, nonostante la periodica insoddisfazione araba per la politica mediorientale degli Stati Uniti, ovvero, l’allontanamento degli Stati Uniti da altri produttori del Golfo (l’Iraq di Saddam Hussein e la Repubblica islamica dell’Iran)
e l’interesse per il “petro-Euro” nei primi anni 2000. I sauditi, in particolare, hanno
difeso vigorosamente la tradizione di un
prezzo del petrolio espresso in dollari. Mentre l’Arabia Saudita ed altri importanti produttori petroliferi ora accettano il pagamento in altre valute quando parliamo delle loro esportazioni di petrolio,
la quota maggiore delle vendite mondiali di idrocarburi continua ad essere saldata in dollari, perpetuando lo status del dollaro come valuta transnazionale più importante del mondo. L’Arabia Saudita ed altri produttori nel Golfo hanno rispettato la loro parte dell’accordo acquistando grandi partite di armi statunitensi; la maggior parte ha anche agganciato le proprie valute al dollaro — un impegno che gli alti funzionari sauditi descrivono come “strategico”. Mentre la quota dei dollari nelle riserve globali è scesa, il riciclaggio dei petrodollari aiuta a mantenerli la valuta di riserva mondiale.
La Sfida della Cina
Eppure la storia e la logica ci avvertono che le pratiche attuali non sono scolpite nella pietra. Infatti
l’ascesa del “petroyuan” sta spronando il sistema monetario ad essere meno dollaro-centrico nei mercati internazionali dell’energia.
Mentre la Cina diventata uno dei principali attori sulla scena energetica mondiale, ha anche intrapreso una campagna di
internazionalizzare della
propria valuta.
Una quota crescente del commercio estero della Cina viene espresso e regolato in renminbi; sta crescendo anche l’emissione di strumenti finanziari denominati in renminbi. La Cina sta perseguendo un processo di liberalizzazione dei capitali, essenziale per la piena internazionalizzazione del renminbi; inoltre sta permettendo una maggiore flessibilità ai tassi di cambio dello yuan.
La Banca Popolare di Cina (PBOC) ora ha accordi di swap con oltre trenta banche centrali —
il che significa che il renminbi già svolge efficacemente il ruolo di valuta di riserva.
I politici cinesi apprezzano i “vantaggi” di cui gode il dollaro; il loro scopo non è quello di rimpiazzarlo col renminbi, ma di posizionare lo yuan a fianco del biglietto verde come valuta transnazionale e di riserva. Oltre ai benefici economici (ad esempio, riduzione dei costi di cambio per le imprese cinesi), Pechino vuole — per motivi strategici — rallentare ulteriormente la crescita delle sue enormi riserve in dollari. La Cina
ha visto aumentare la propensione americana a tagliare fuori i paesi dal suo sistema finanziario come strumento di politica estera, e si preoccupa che Washington possa farlo anche con lei; l’internazionalizzazione del renminbi può mitigare tale vulnerabilità.
Più in generale, Pechino comprende l’importanza del dollaro per il potere americano; intaccandolo, la Cina può contenere un eccessivo unilateralismo degli Stati Uniti.
Da tempo la Cina ha inserito gli strumenti finanziari nel suo programma per accedere agli idrocarburi stranieri. Ora Pechino vuole che i principali produttori di energia accettino il renminbi come valuta transnazionale — il che include la risoluzione degli acquisti di idrocarburi in renminbi — e lo incorporino nelle riserve delle loro banche centrali. I produttori hanno motivo di essere ricettivi. La Cina, nel futuro prossimo, diventerà il principale mercato incrementale per gli idrocarburi del Golfo Persico e dell’ex-Unione Sovietica. Le aspettative di lungo termine sull’apprezzamento dello yuan facilitano l’accumulo di renminbi in termini di diversificazione del portfolio. E mentre l’America è vista sempre più come una potenza egemone in declino, la Cina viene vista come il suo sostituto per eccellenza. Anche per il Golfo arabo, che per tanto tempo ha fatto affidamento su Washington come suo garante della sicurezza, sarà più conveniente stringere legami con Pechino.
Per la Russia i rapporti in deterioramento con gli Stati Uniti spingono una cooperazione con la Cina, contro quello che sia Mosca che Pechino considerano una potenza in declino, ma ancora pericolosamente instabile e nervosa.
Per diversi anni la Cina
ha pagato con i renminbi alcune delle sue
importazioni di petrolio dall’Iran; nel 2012 la PBOC e la Banca Centrale degli Emirati Arabi Uniti hanno istituito uno swap di valute da $5.5 miliardi,
gettando le basi per saldare in renminbi le importazioni di petrolio da Abu Dhabi — un importante ampliamento dell’utilizzo del petroyuan nel Golfo Persico. L’accordo sino-russo da $400 miliardi sul gas che è stato siglato quest’anno, prevede il
pagamento in renminbi per gli acquisti cinesi di gas russo; se completato, questo significherebbe un ruolo apprezzabile per il renminbi nelle transazioni relative al gas.
Guardando al futuro, l’uso del renminbi per saldare le vendite internazionali degli idrocarburi aumenterà sicuramente, accelerando il declino dell’influenza americana nelle regioni produttrici di energia. Inoltre, per Washington diventerà più difficile finanziare quelle che la Cina ed altre potenze considerano politiche estere eccessivamente interventiste — una prospettiva su cui la classe politica americana non ha ancora cominciato a riflettere.
[*] traduzione di
Francesco Simoncelli