Riforma pensioni (1 Viewer)

tontolina

Forumer storico
Previdenza
La polizza vita che rende
quanto il materasso
di Carlo Clericetti


Il nome è "Conto pensione", ma dopo sette anni di versamenti il capitale maturato è meno dei soldi versati: colpa di spese e tasse. Solo grazie alle detrazioni fiscali si va quasi in pari. Un esempio di prodotto venduto per quello che non è
http://economia.repubblica.it/articolo/La_polizza_vita_che_rende_quanto_il_materasso/144401

144403


Le nostre nonne i soldi per fonteggiare gli imprevisti e per la vecchiaia li custodivano sotto il materasso. Noi, che siamo incomparabilmente più evoluti dal punto di vista finanziario, li mettiamo a volte in una polizza vita. Ma attenzione: il risultato potrebbe essere lo stesso [e a volte pure peggiore].



Chi si occupa di economia riceve spesso richieste di consigli da parte di amici e conoscenti. Il collega che si presenta con l'estratto conto della sua polizza vita vorrebbe sapere se gli conviene puntare su quel prodotto, aumentando i versamenti, o diversificare con qualche altra cosa.



La polizza è di una compagnia che fa parte di uno dei maggiori gruppi bancari e assicurativi europei (non italiano). Non ne faremo il nome, perché i prodotti in questo campo sono numerosissimi (e magari quella stessa compagnia ne ha di più convenienti) e anche perché non risulta che, mediamente, ci siano abissali differenze tra una compagnia e l'altra. Vale però la pena di fare due conti su questo estratto, a titolo di esempio, in modo che ognuno possa poi provare a fare un analogo test sulla polizza che ha sottoscritto.



La polizza è di durata ventennale, ossia 240 versamenti mensili da 100 euro l'uno (in realà, in questo caso il versamento avviene una volta l'anno in un'unica soluzione). E' una Unit linked, ossia il denaro raccolto viene investito tramite un Fondo d'investimento, in questo caso obbligazionario. Sono stati effettuati finora 86 versamenti, ossia dalla tasca dell'assicurato sono usciti 8.600 euro (in effetti 8.679, aggiungendo altri costi): e questa è la prima cifra da tenere a mente.



Il rendiconto annuncia, proprio all'inizio della pagina, che nell'ultimo anno è stato ottenuto un rendimento del 2,77%, contro una performance del benchmark (ossia del parametro di riferimento, costituito da un indice o da un paniere di obbligazioni: in questi fogli non viene specificato) dell'1,71%. Quindi i gestori sono stati bravi, hanno battuto di oltre un punto il valore medio di mercato.



La soddisfazione però comincia a scemare quando si legge la tabellina in fondo alla pagina, che riporta i saldi, le tasse, le spese e il controvalore del capitale attualmente maturato.

Andiamo subito a quest'ultima cifra: se la polizza scadesse oggi, ci spetterebbero 6.826,69 euro.



Non è un errore di battuta, avete letto bene: nei circa sette anni di vita della polizza gli 8.679 euro versati e - si suppone - gestiti al meglio da valenti professionisti, sono diventati 1.852 in meno.



Il perché lo si desume da un'altra riga della tabellina. Vi è indicato il versamento dell'anno, 1.240 euro; le imposte, 30,25 euro; i costi, 85,61 euro. L'importo netto che rimane, quello che sarà effettivamente investito e su cui si applica quel rendimento che nell'anno passato è stato del 2,77%, è 1.124,14 euro. Fra imposte e costi se ne sono andati 115,86 euro, il 9,34% del versamento; più precisamente, il 2,44% per le imposte e il 6,9% di costi. Insomma, per investire ho speso il 9,34% e poi ho guadagnato il 2,77: quindi ho il 6,57% in meno di quando ho cominciato. Mica male.



Se ci fermassimo qui, tutte le assicurazioni ci salterebbero addosso dicendo che le conclusioni sono sbagliate, sbagliatissime. Perché? Perché non abbiamo considerato il rispamio fiscale. Lo Stato, infatti, con una mano prende (quei 30 euro), ma con l'altra dà, concedendo una detrazione dei 19%, nella denuncia dei redditi, sulle polizze di tipo previdenziale fino a 1.291,14 euro di premio. Si potrebbe obiettare che questo poco c'entra con la gestione finanziaria, ma siccome c'entra con la convenienza o meno per il risparmiatore calcoliamo anche questo.



Su 1.200 euro l'anno la detrazione del 19% vale 228 euro, per sette anni fanno 1596. Ma abbiamo voluto essere anche più ottimisti e abbiamo ipotizzato che questi 228 euro siano stati investiti ogni anno ai tassi del mercato monetario (cioè quelli del mercato interbancario: cosa che a un privato difficilmente riesce). La tabellina che segue mostra come si arriva alla somma cumulata:




(30 maggio 2007)
 

tontolina

Forumer storico
Dove va il Tfr: cara banca non mi fido, la liquidazione resta all’Inps
sara.carlucci Lunedì 11 Giugno 2007 alle 12:31
2 commenti


Gli italiani non hanno perdonato alle banche i crac Cirio, Parmalat e i tango bond. I lavoratori dipendenti hanno tempo fino al 30 giugno per decidere la destinazione del Tfr, ma dai dati a disposizione della Covip emerge che finora i grandi perdenti sono proprio i fondi aperti gestiti da banche e assicurazioni.
E anche quando la scelta riguarda un prodotto della previdenza integrativa, siccome quello che si guarda è il rendimento del fondo negli ultimi anni, per le banche italiane sono ancora note dolenti. Nei posti alti della classifica dei fondi che hanno reso di più negli ultimi tre anni troviamo soprattutto banche e assicurazioni estere. La fuga dal Made in Italy è già venuta a galla con i fondi di investimento su base volontaria e lo stesso governatore della banca d’Italia, Mario Draghi, ha auspicato il cambio di rotta per evitare che continui il trend degli ultimi anni.
I fondi comuni aperti di diritto italiano gestivano il 17% dei risparmi delle famiglie nel 1999, oggi appena il 7%. Una cosa è certa. L’obiettivo del governo di convogliare alla previdenza complementare un terzo dei 19 miliardi che ogni anno si libera con il trattamento di fine rapporto è destinato a fallire. Questi fondi dovrebbero raccogliere da qui alla fine del mese molto meno degli oltre sei miliardi messi in preventivo e la Covip è già in allarme.
Tra i possibili correttivi si chiede di aumentare gli incentivi fiscali, azzerando magari la tassazione sui rendimenti dei fondi, oggi pari all’11%. I dipendenti non sembrano credere più alle promesse ed ecco che appena possono lasciano il Tfr in azienda.
Quasi tre quarti dei lavoratori continueranno quindi a farsi gestire la liquidazione dal datore di lavoro. Se l’azienda ha più di 50 dipendenti i soldi saranno trasferiti all’Inps, ma anche in questo caso il lavoratore si sente più al sicuro con la gestione pubblica piuttosto che con le banche. Le cose non vanno meglio per i fondi di categoria che dovrebbero raccogliere alla fine della fiera circa 5-8%.
Se è vero che in questo caso c’è anche il contributo obbligatorio del datore di lavoro, le gestioni di questi fondi lasciano il più delle volte molto a desiderare
.



http://blog.panorama.it/economia/20...ca-non-mi-fido-la-liquidazione-resta-allinps/
 

tontolina

Forumer storico
POLITICA DEBOLE, CAPITALISMO CORROTTO

di Carlo Bastasin

Una settantina di richieste di rinvii a giudizio per la scalata Antonveneta, più una quarantina di rinvii per il caso Parmalat. È il bollettino della giornata di ieri del capitalismo italiano: una Baghdad finanziaria. Coinvolte sempre le banche.
26 Luglio 2007 9:18 MILANO



(WSI) – Una settantina di richieste di rinvii a giudizio per la scalata Antonveneta, più una quarantina di rinvii per il caso Parmalat. È il bollettino della giornata di ieri del capitalismo italiano: una Baghdad finanziaria durante il governo Berlusconi.

I casi a cui si riferiscono i procedimenti giudiziari non fanno parte dell’era barbarica di Tangentopoli, né del passaggio del sistema finanziario dal pubblico al privato negli Anni Novanta: appartengono al Duemila. Questa è l’Italia di oggi. Una società in cui l’ex governatore è sospettato di collusioni ai danni dei risparmiatori e in cui vengono accusati di usura i vertici di alcune tra le maggiori istituzioni finanziarie private. Anche se le inchieste non sono sentenze, le conseguenze sul Paese degli episodi oscuri venuti alla luce sono già reali. È davvero spiegabile solo con ragioni fiscali l’emorragia dei fondi comuni e la scarsa adesione popolare ai fondi pensione?

Forse è una crisi inevitabile nella transizione da un capitalismo chiuso verso un’economia di mercato trasparente e aperta. Nei cambi di regime convivono pratiche di epoche diverse e non sempre gli errori sono veri crimini. Possiamo solo sperare che non si tratti di interpretazioni consolatorie. Vi sono d’altronde anche elementi rassicuranti, sia di carattere normativo sia di prassi dei mercati. L’Italia è inserita nel sistema regolatorio europeo e non appena si aprono i mercati - come dimostrano i casi Bnl e Antonveneta - i confini collusivi non reggono.

Ma questo significa anche che non c'è nulla di inevitabile nella palude finanziaria italiana e che non ci sono alibi per ritardare una risposta politica alla domanda di trasparenza.

Le inchieste sostengono che il sistema degli intrecci sotterranei per delinquere, degli abusi di potere e delle manipolazioni informative, non è in declino. Sotto accusa sono i comportamenti degli uomini della finanza, ma dalle valutazioni delle procure sul comportamento di referenti politici nel caso delle scalate bancarie, nonché dallo sterminato elenco dei conflitti di interesse italiani, sembra evidente che il sistema castale della finanza e quello della politica, come in passato, si sostengono reciprocamente. Nessuno è in grado di disciplinare l’altro.

La scarsa credibilità della politica si traduce in debolezza decisionale della politica stessa e quindi in debolezza del suo necessario esempio e controllo nei confronti della società. In un tale sistema sono le debolezze a essere forti e affidabili, perché si affermano l'irresponsabilità e la dipendenza gli uni dagli altri, prevale la collusione e la necessità di nascondersi. Una politica debole e un capitalismo oscuro sono l’uno funzionale all’altro. Per questo, sotto accusa è il capitalismo italiano, ma lo è altrettanto la politica.

I costi della politica raccontano solo la patina sgradevole di un sistema distratto sul bene comune, in cui manca una netta distinzione dei ruoli tra economia e politica, in cui gli uomini dei partiti interferiscono con il funzionamento del mercato e in cui l’operato delle autorità di controllo è in subordine all’interesse politico disinvoltamente contrabbandato per interesse pubblico.

Solo pochi mesi fa, in occasione di una fusione industriale, abbiamo visto modificare dal governo il quadro normativo, in piena discrezionalità, vantando lo stesso pretesto di Fazio: la tutela dell’italianità. Il precedente governo era addirittura figlio del conflitto di interessi e aveva contrastato Fazio solo quando questi aveva ostacolato un dubbio tentativo di appropriazione delle fondazioni bancarie. In tali casi l’interesse privato è perfino secondario rispetto ai guasti che si producono nella società. Si realizza una «selezione avversa» degli interlocutori politici ed economici, vengono favoriti quelli che sono pronti al compromesso e sostenuti quelli più spregiudicati.

Il fatto che siano le banche a essere coinvolte nelle inchieste delle procure è particolarmente grave. Il sistema italiano resta infatti bancocentrico, attorno agli istituti di credito si coagula un enorme potere. La nuova generazione che guida gli istituti di credito italiani non è priva di familiarità con la politica a cui talvolta manifesta vicinanza e da cui viene corteggiata. Non sarebbe in tal caso una generazione davvero nuova. Non costringerebbe la politica a migliorare se stessa. Il rinnovamento della politica e quello dell’economia devono andare di pari passo, ma questa volta non mano nella mano.
 

tontolina

Forumer storico
SE IL DENARO NON GIRA PIU'
di Maurizio Ricci


La crisi dei mutui potrebbe allargarsi a tutto il sistema dei prestiti paralizzando il credito. A differenza di tutte le turbolenze bancarie precedenti, non c´è un sistema di assicurazione che freni il panico.
6 Settembre 2007 4:05 ROMA

(WSI) – «Il marasma è ben lungi da essere finito» ha dichiarato ieri al Congresso Robert Steel, il responsabile per la finanza nazionale del Tesoro americano. In altre parole, l´impressione è che la cura da cavallo che le banche centrali hanno adottato, ormai da quasi un mese, attraverso quasi quotidiane iniezioni di liquidità, come quelle di ieri, nel mercato finanziario, non ha funzionato.

Pompare soldi nella speranza di rimettere in moto gli ingranaggi del credito è servito solo ad evitare un collasso, come aspirine che trattano il sintomo, ma non curano la malattia: gli ingranaggi restano bloccati. Oggi potrebbero passare agli antibiotici, tagliando direttamente i tassi di interesse, per rendere il credito di nuovo facile e appetibile. Ma non è detto che basti.

La crisi finanziaria esplosa ad agosto, infatti, sta già oscurando le prospettive dell´economia reale, costringendo - come è avvenuto ieri per l´Ocse - ad una revisione delle previsioni di crescita, di investimenti di occupazione che, ancora a giugno, sembravano brillanti. Per vedere questo meccanismo concretamente al lavoro, basta guardare all´andamento del Libor, il tasso interbancario sul mercato di Londra.

Nonostante le iniezioni di liquidità delle banche centrali, ieri il Libor a 3 mesi per il dollaro era al 5,72 per cento, il livello più alto dal gennaio 2001, contro il 5,36 per cento ancora di luglio. E´ la prova che il credito è sempre più caro, perché, nonostante gli sforzi di Bce e Fed, è sempre più difficile trovare chi voglia prestare soldi a qualcun altro. Ma il Libor è un tasso cardine, perché vi sono agganciati migliaia di prestiti alle aziende e milioni di mutui immobiliari in tutto il mondo, Italia compresa. Il rincaro del denaro espresso dal Libor si ripercuote, dunque, direttamente sui bilanci delle imprese e sui portafogli delle persone.

Un taglio dei tassi d´interesse da parte delle banche centrali, del resto, può fermare l´ascesa del Libor, ma la crisi esplosa ad agosto ha radici più profonde. Secondo Bill Gross che, attraverso la Pimco, gestisce il più grande operatore in obbligazioni al mondo, la crisi è il risultato dei miracoli della nuova finanza, quella del boom dei derivati. Sul Financial Times, Martin Wolf sostiene che dalla crisi si esce rivedendo la normativa che ha sottratto la finanza derivata ad ogni forma di trasparenza e di controllo. Il motivo per cui il credito è, oggi, paralizzato è, infatti, che nessun potenziale prestatore di denaro sa se e quanto è affidabile chi glielo sta chiedendo, quanti derivati, a cominciare dai famigerati Cdo, abbia in cassa e cosa ci sia dentro questi Cdo. Il boom della finanza derivata, osservava un anno fa il presidente della Fed di New York, Tim Geithner, ha reso più fluidi e liquidi i mercati, «ma le novità non sono mai state testate da una crisi». La crisi di agosto ne ha fatto emergere le debolezze.

La prima debolezza è che nessuno è in grado, oggi, di valutare le perdite insite nella situazione attuale. La stima prevalente è fra i 100 e i 200 miliardi di dollari. Ma il problema non riguarda solo i mutui immobiliari, che il mutuatario non salda. Impacchettati nei titoli-salsiccia come i Cdo, ci sono anche i debiti delle carte di credito, le rate delle automobili, i prestiti alle aziende. Ancora più importante, secondo Gross, sarà capire «dove sono nascoste queste perdite».

Quali sono i "cadaveri", secondo la cruda definizione che circola fra gli analisti, non ancora riconosciuti? Man mano che il velo dell´opacità si solleva, si scopre che anche insospettabili fondi monetari, sulla carta l´investimento più sicuro, sono coinvolti nella crisi dei subprime, i mutui immobiliari senza garanzia. Bloomberg riferisce, ad esempio, che fondi monetari gestiti da Bank of America, Credit Suisse, Fidelity e Morgan Stanley (al top della finanza mondiale) avevano in cassa, a giugno, Cdo per un valore nominale di 6 miliardi di dollari. Inoltre, il meccanismo di formazione dei Cdo prevede che una banca crei un´apposita entità, fuori dal suo bilancio, (il nome in gergo è "conduit") per emetterli e gestirli.

La Sec, la Consob americana, ha cominciato ad indagare su questi "conduit". Di fronte a perdite montanti, la banca può, infatti, essere costretta a reinserirli nel bilancio, perdite comprese. In realtà, nota l´economista Nouriel Roubini, è difficile gestire con gli strumenti tradizionali la crisi di un mondo del credito che tradizionale non è più.

Non sono più le banche a creare credito, facendo leva sui loro depositi. Ma il credito è creato da una moltitudine di attori, attraverso la moltiplicazione dei derivati, collocati a garanzia del credito. Una crisi creditizia non si esprime in una corsa allo sportello, perché lo sportello in un hedge fund non c´è. E, a differenza di tutte le crisi bancarie dopo il 1929, non c´è un sistema di assicurazione dei depositi che freni il panico. La conseguenza è che è difficile curare la paura, anche tagliando i tassi. Lo verificheremo presto: il 14 settembre arriva a scadenza quasi la metà del miliardo di dollari di "commercial paper", sorta di cambiali a nove mesi, che sono la linfa del lavoro quotidiano del sistema creditizio. Sarà cruciale capire quante verranno rinnovate.
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mi veniva un pensierino cattivello
se ora
fondi monetari gestiti da Bank of America, Credit Suisse, Fidelity e Morgan Stanley (al top della finanza mondiale) avevano in cassa, a giugno, Cdo per un valore nominale di 6 miliardi di dollari

chi impedirà Loro di inserire i crediti insoluti nei poveri fondi pensione italioti?
noi sappiamo come sono i nostri amici
 

matabo

Nuovo forumer
Ma che scherzi? Ma dico, lo sai chi c'e' nei consigli di amministrazione dei fondi pensione chiusi?

Dico, mica ci sono quattro delinquenti incapaci qualsiasi: ci sono SINDACATI e IMPRENDITORI!

La crema della crema :lol:

E tu sai che l'interesse del lavoratore e' la loro prima preoccupazione! E la COVIP? dico, la COVIP dove la metti? A noi la SEC ci fa "una semplice"!

"E ho detto tutto!", avrebbe chiosato il compianto Peppino de Filippo.
 

tontolina

Forumer storico
matabo ha scritto:
Ma che scherzi? Ma dico, lo sai chi c'e' nei consigli di amministrazione dei fondi pensione chiusi?

Dico, mica ci sono quattro delinquenti incapaci qualsiasi: ci sono SINDACATI e IMPRENDITORI!

La crema della crema :lol:

E tu sai che l'interesse del lavoratore e' la loro prima preoccupazione! E la COVIP? dico, la COVIP dove la metti? A noi la SEC ci fa "una semplice"!

"E ho detto tutto!", avrebbe chiosato il compianto Peppino de Filippo.

Il fallimento totale dell'operazione Tfr

Non poteva essere più esplicito e più completo il fallimento dell’operazione che mirava al trasferimento del TFR dei lavoratori dipendenti ai fondi d’investimento. Su dodici milioni e mezzo di lavoratori interessati, nei primi sei mesi dell’anno solo il 5% ha deciso di mettere il proprio TFR nei fondi chiusi e solo il 2.5% nelle altre forme pensionistiche previste dalla nuova normativa.
A fornire il dato è stata qualche giorno fa la Covip (commissione di vigilanza sui fondi pensione), dati che sono stati accolti da un fragoroso silenzio.
Dopo anni di lavoro per dirottare verso la finanza il trattamento di fine rapporto dei lavoratori dipendenti, dopo mesi e mesi di pubblicità tambureggiante ai nuovi “strumenti” pensionistici, meno di un lavoratore su tredici è stato convinto ad abboccare alla splendida opportunità che tanti soggetti si sono dannati per offrirgli.

Diffidenza verso una finanza troppo creativa per essere ritenuta degna di fede, anche quando l’investimento sia più sicuro per effetto delle tutele offerte dalla legge, scarsa fiducia nell’affidare il proprio denaro a soggetti creati ad hoc, scarsa dimestichezza con strumenti finanziari poco trasparenti, ma anche una sana diffidenza verso sindacati in crisi di credibilità, hanno determinato una vera e propria Caporetto per i sostenitori della pensione fai-da-te.

Di fronte ad un esito del genere ci sarebbe da chiedersi quali siano le reazioni dei tanti politici e sindacalisti che per anni hanno speso sudore e lacrime per far passare una riforma dall’utilità tanto dubbia, ma non è dato di conoscerle. A parte il Ministro del Lavoro Damiano, che ne ha l’obbligo istituzionale, non si sono sentiti commenti al consuntivo presentato dalla Covip. Lo stesso Damiano ha fatto l’illusionista giocando con i dati, provando a presentare la Caporetto della riforma come un successo.

Damiano ha detto che i dati fanno ritenere che la riforma "sia una scommessa riuscita", vantando l’incremento del 50% dei lavoratori iscritti alle forme pensionistiche complementari. Puro illusionismo, se la legge che imponeva ai lavoratori la scelta ha portato ad un misero aumento del 50% della quota molto modesta di iscritti ai fondi prima dell’entrata in vigore della legge, non si capisce davvero dove sia il successo. Damiano dice che i fondi hanno reso e stanno rendendo di più delle altre forme a disposizione dei lavoratori. Ma, restando ai numeri, prima c’erano 1,8 milioni di iscritti, ora sono diventati 2,7 milioni, mentre oltre dieci milioni degli undici milioni di lavoratori che avrebbero dovuto fare i salti dalla gioia abbracciando la riforma, si sono guardati bene dal seguire i consigli di sindacati, partiti e media che li hanno bombardati per mesi e mesi sulla splendida e moderna opportunità offerta loro.

Damiano ha detto di sperare che a fine anno sarà del 40% la percentuale di lavoratori che ha aderito ai fondi, numero ottenuto partendo da un dato che Luigi Scimmia (presidente della Covip) ha detto essere oggi del 32%. Questo però vorrebbe dire che negli ultimi tre mesi (per i quali non ci sono dati “ufficiali”), si sono iscritti ai fondi 1,3 milioni di lavoratori contro i novecentomila dei primi sei mesi; un dato del quale è lecito dubitare, visto che al netto delle ferie i mesi sono in effetti solo due.

Altra magia con i numeri che però cozza con la “speranza” di Damiano, secondo il quale sarebbe un buon risultato se un altro milione di lavoratori si iscrivesse nei prossimi quattro mesi. Avremmo così una sequenza abbastanza paradossale: da gennaio a giugno hanno aderito (dati ufficiali) novecentomila lavoratori (0,9 milioni), da giugno a settembre 1,3 milioni (dato non ufficiale) più la speranza di Damiano che nei prossimi quattro mesi vede un buon risultato nell’adesione di un altro milione di lavoratori, per un totale a fine anno di cinque milioni. Di questi fino ad ora ce ne sono ufficialmente solo novecentomila che secondo i dati della Covip hanno aderito dall’entrata in vigore della legge a giugno, che salirebbero a 2,2 milioni di nuove iscrizioni, sommandosi al dato di 1.8 milioni di lavoratori già iscritti prima della riforma.

E’ vero che i numeri, soprattutto in Italia, spesso si prestano ad essere manipolati, ma difficilmente questi possono essere considerati i numeri di un successo e infatti è calato un silenzio di tomba sulla questione. Un silenzio strano, visto che sulla riforma del TFR hanno parlato in tanti e tanto a lungo; ma, come è noto, la vittoria ha molti padri mentre la sconfitta è sempre orfana. Tacciono i confederali, tacciono i politici, tacciono i media. Ma non è il silenzio degli innocenti, è tutto un altro film.

mazzetta
mazzetta.splinder.com
 

tontolina

Forumer storico
questa sera ANNOZERO ha toccato il problema del TFR e di chi lo gestisce
ribadendo i concetti più volte espressi su questo forum da molti di noi


nei CDA dei fondi ci stanno i sindacalisti... ma neppure l'ombra di un'analista indipendente.... prego promotori venghino che li tesseriamo e poi un lavoro in nero c'è pure per loro!
 

Cip1

Forumer storico
a quanto pare Anno Zero e Report sono i tuoi miti Lina

ma c'é un'altra questione che nessuno vuole toccare

lo scontro generazionale che prima o poi finirà in piazza

tra chi é tenuto a mantenere l'Inps ed i privilegi di taluni e senza alcune prospettive di analogo riscontro futuro (i giovani o relativamente giovani)

e chi a questi privilegi non vuole rinunciare (i vecchi, pensionandi e pensionati)

si chiama bancarotta

per non dire altro

forse anche appropriazione indebita

una vera bomba atomica per chi ha la pretesa di gestire l'Inps, ovvero sindacati e sinistra ed allegramente
 

Cip1

Forumer storico
CHE SCHIFO VERO LINA?
LEGGI QUA



Paradosso tutto italiano: a guidare le migliaia di pensionati e pensionandi che oggi attraverseranno le principali città italiane per protestare contro la riforma della previdenza ci saranno i privilegiati che andranno (o sono già andati) in pensione senza che per anni fosse stata versata una sola lira di contributi in loro favore.
Pensionati molto speciali, insomma, i cui assegni gravano o graveranno su chi la pensione se l'è sudata sino all'ultimo spicciolo, tutto grazie a una legge risalente al 1974, che prende il nome da Giovanni Mosca, deputato socialista e, in precedenza, leader della Cgil.

II copione è di quelli già visti: “la leggina" fu presentata come un provvedimento destinato a sanare la situazione di qualche centinaio di persone, che nei decenni successivi al dopoguerra avevano lavorato per sindacati o partiti politici più o meno in nero, cioè senza che a loro nome fossero stati versati all'Inps i contributi dovuti.
Bastava una semplice dichiarazione del rappresentante nazionale del sindacato o del partito e si potevano riscattare, al costo dei soli contributi figurativi, interi decenni di attività, a partire dagli anni Cinquanta. Piatto ricco, mi ci ficco; proroga dopo proroga (l'ultima è scaduta nell’aprile del 1980) la legge Mosca è diventata un bastimento sul quale sono saliti quasi 40mila lavoratori - reali o presunti - di sindacati e partiti politici. Pensioni facili, facilissime. Che hanno procurato alle casse dell'Inps un aggravio valutato in 10 miliardi dì euro.

Tra i beneficiari della legge Mosca, molti bei nomi della politica e del sindacato, gran parte dei quali ancora in attività: Armando Cossutta, Achille Occhetto, Giorgio Napolitano, Sergio D'Antoni, Pietro Larizza, Franco Marini, Ottaviano del Turco, la scomparsa Nilde lotti.

Pensioni che si sono andate ad accumulare a sostanziosi vitalizi parlamentari o ad altri trattamenti previdenziali. Accanto a questi personaggi noti, un esercito di funzionari più o meno oscuri. Chi è ricorso alla maxi-sanatoria previdenziale - perché di questo, in fin dei conti, si è trattato -sono stati soprattutto il Pci e la Cgil. Botteghe Oscure regolarizzò la situazione di circa 8mila funzionari, mentre il sindacato rosso sanò le posizioni dì ben 10mila dipendenti.

Ovviamente, come lecito attendersi in questi casi, molti ne hanno approfittato per farsi una pensione gratis senza averne diritto. Le tante inchieste avviate dalle procure di mezza Italia tra il 1995 e il '96 portarono alla luce casi clamorosi, come quelli di funzionari che dichiaravano di aver iniziato a lavorare sin dalla tenera età di cinque anni, oppure quando il loro sindacato o il loro partito ancora non esistevano.

Non solo. Un'altra leggina, votata ai tempi dell'Ulivo, garantisce ad alcuni sindacalisti la possibilità di vedersi moltiplicare per due i contributi pensionistici e quindi, di fatto, di ottenere una pensione doppia. Lo statuto dei lavoratori prevede che ai dipendenti in aspettativa per lo svolgimento di incarichi sindacali siano versati, a carico dell'Inps, i soliti contributi figurativi, calcolati sulla base dello stipendio non più versato dall'azienda di provenienza. Un decreto legislativo del '96, firmato dall'allora ministro del Lavoro Tiziauo Treu, uomo vicino alla Cisl, prevede però che i sindacalisti in aspettativa possano godere di un ulteriore versamento da parte del sindacato.
Lo steso privilegio è garantito ai sindacalisti distaccati: quelli, cioè, che continuano a percepire lo stipendio dell’azienda privata o dall’ente pubblico di provenienza pur lavorando esclusivamente per il sindacato.

I base agli ultimi dati disponibili, a godere di questo regime speciale di doppio contributo - in vista di una pensione moltiplicata per lo stesso fattore - sono 1.793 sindacalisti, dei quali ben 1.278 fanno capo alla Cgil.

Le pensioni non sono il solo caso in cui i sindacati e i loro rappresentanti si trovano a godere di regole sociale calibrate su misura. Alle organizzazioni sindacali, per citare l'esempio più clamoroso, non si applica l'obbligo di reintegro previsto dall'articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
In altre parole, i sindacati sono liberi di licenziare i loro dipendenti senza correre il rischio di doverli riassumere se un giudice dovesse decidere che il licenziamento è avvenuto senza una giusta causa. Inutile ricordare che la Cgil e le altre sigle, in difesa di quell'articolo 18 che a loro non si applica, hanno scatenato una vera e propria guerra di religione.

di Fausto Carioti
 

matabo

Nuovo forumer
Cip1 ha scritto:
lo scontro generazionale che prima o poi finirà in piazza

tra chi é tenuto a mantenere l'Inps ed i privilegi di taluni e senza alcune prospettive di analogo riscontro futuro (i giovani o relativamente giovani)

e chi a questi privilegi non vuole rinunciare (i vecchi, pensionandi e pensionati)
E immagino che la soluzione sia "metterlo nel portico" ai "giovani", vero?

Cip1 ha scritto:
per chi ha la pretesa di gestire l'Inps, ovvero sindacati e sinistra ed allegramente

eh gia'. La sinistra gestisce l'INPS.
La destra invece andava a caccia di farfalle.
Del resto e' noto che siamo un paese comunista, no?
L'unico paese comunista in cui i lavoratori non si prendono neanche per il c*** (almeno in URSS &C esisteva una mitologia del lavoratore).


Per fortuna ci pensa la destra a tutelare i lavoratori.
 

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