PIU' CHE SANTA PAZIENZA... AVREI BISOGNO DI SANTO DOMINGO (1 Viewer)

Val

Torniamo alla LIRA
Il presidente dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana) Patuelli ha bisogno di lezioni di ripetizione di algebra
che e’ l’evoluzione della aritmetica perché introduce, attraverso il calcolo letterale, un modo nuovo, molto più generale,
di rappresentare i numeri e le operazioni che si possono eseguire su di essi.

Ha dichiarato, come riportato da La Stampa, che otto richieste di finanziamenti su dieci sono state accolte dal sistema bancario.

Lo ha fatto per rispondere al presidente del Consiglio Conte che a Montecitorio ieri ha dichiarato,
appello inaspettato ma gradito, che le banche possono e devono fare di più.


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Forse non ha dato una occhiata al sito del Fondo di Garanzia per le piccole e le medie imprese
che quotidianamente riporta il numero (e l’importo) delle domande che il sistema bancario seleziona ed invia al MES per ottenere la prevista garanzia.

Al 20 maggio erano pervenute al Fondo solo 303.714 domande.

Facciamo una semplice equazione 8:303.714=10:X

La soluzione è 379.642.

Se la matematica non è una opinione, secondo Patuelli, in banca sarebbero andate 380.000 imprese circa
per richiedere i finanziamenti previsti dal decreto liquidità.

Se pensiamo che in Italia ci sono circa 4,5 milioni di imprese, vuole dire che solo il 8,5% delle imprese italiane
ha sentito l’esigenza di rivolgersi alle banche per ottenere le agevolazioni.


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Delle due l’una.

O le nostre imprese sono fortemente capitalizzate al punto da non ritenere efficiente indebitarsi in questo periodo
ma noi sappiamo che il male atavico del nostro sistema imprenditoriale e’ una leva finanziaria sistematicamente superiore a 2.

Oppure c’è bisogno di …….un professore di matematica per Patuelli.
 

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Comunque abbiamo una certa somiglianza con il popolo ........tantissime pecore
molte capre.......... qualche asino...............tutti a testa bassa.......
 

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I funzionari ministeriali non sono affatto preoccupati dalla chiusura di negozi o di botteghe artigiane,
come della morte generalizzata delle libere professioni: c’è solo un po’ di legame affettivo al vecchio negozietto o all’artigiano amico.

Ma il dipendente pubblico è consapevole che a livello europeo l’unico commercio a norma Ue
è quello esercitato dalla grande distribuzione, e nei centri commerciali.

Così 17 milioni di disoccupati in più non turbano affatto i sonni di chi ha vinto un concorso o amministra lo Stato.

L’unica preoccupazione d’ordine sociale (anzi di ordine pubblico) investe il Viminale,
perché molto difficilmente 17 milioni di italiani potranno accettare di morire d’inedia.

Di rassegnarsi a quell’esclusione sociale che dovrebbe (secondo i Cinque Stelle)
essere puntellata da un reddito di cittadinanza più ampio: il famoso “reddito d’emergenza” come primo pilastro di una “povertà sostenibile”.

E allora perché si continua a parlare di tasse e di evasione fiscale?

Questo accade perché le tasse in parte (e, sottolineo, in parte) integrano i cosiddetti fondi infrastrutturali europei,
sia a livello locale che centrale: fondi gestiti malissimo, ecco perché gli amministratori fanno affidamento per tappare i vari buchi
su Imu, Tasi, Tari, Cosap, Tosap... Irpef.

E qui andrebbe aperto il capitolo del signoraggio, ma ce lo riserviamo per il prossimo articolo,
e per spiegare come i cittadini paghino un prezzo eccessivo per usare il denaro.

Dopo questa premesse, corre obbligo sottolineare che allo Stato preme soprattutto
che l’uomo di strada adempia ai versamenti previdenziali (Inail, Inps...),
e perché rappresentano la copertura a pensioni ed infortuni.

E chi governa l'Italia sa benissimo che il nostro non è più un Paese che crea economia.

Sia il Pil che la bilancia del pagamenti sono i migliori esempi di “fake news”.

Perché l’Italia da circa un trentennio ha gradualmente dismesso
quasi il 70 per cento della sua
funzione manifatturiera e primaria (produzione agricola).

E Giuseppe Conte conosce questi dati, ecco perché cerca di svendere l’Italiai.

Va detto che questo è il miglior periodo per svendere l’Italia, perché la classe dirigente
poco o nulla sa di come si controlla la contabilità dello Stato.

Nell’ambito della finanza pubblica, la contabilità di Stato è quel complesso di norme
che disciplinano la gestione economica dei pubblici poteri: comprendente l’organizzazione finanziario-contabile,
la gestione patrimoniale, l’attività contrattuale, la gestione del bilancio pubblico, il sistema dei controlli e le responsabilità dei pubblici amministratori.

Lo Stato è l’ente pubblico per definizione: è il soggetto principale della spesa pubblica
,
dirige e coordina l’intera attività delle strutture pubbliche per la soddisfazione delle esigenze di ogni singolo cittadino come dell’intera nazionale.

La fonte primaria della contabilità dello Stato (come di tutti gli enti pubblici) è la Costituzione.

La stessa Corte dei conti ha più volte sottolineato come la dottrina, a causa dei vari interventi legislativi (adeguamento a norme Ue),
abbia finito per disegnare un sistema contabile fortemente disomogeneo, caratterizzato da una pluralità di filosofie e principi ispiratori,
a discapito di quel coordinamento finanziario ben scritto all’articolo 119 della Costituzione,
in cui si parla dell’effettività dei controlli comparativi fra i diversi livelli di gestione dello Stato.

Poi s’è perso il controllo della macchina pubblica, e con stipendi a ruota libera e non parametrati a mansioni e responsabilità.

Soprattutto queste metodiche hanno creato una profonda frattura tra chi comunque e sempre
si vedrà accreditato uno stipendio e quella parte del Paese che stenta a fatturare, a fare cassa, a mantenere nella marginalità l’impresa.

Il coronavirus ha dimostrato che la creazione di moneta elettronica nel pubblico impiego prescinde da qualsivoglia crisi.

Il rovescio della medaglia è il prezzo di fuga dal mercato per più del 50 per cento del settore privato.

Eppure i padri costituenti avevano previsto lo Stato tutelasse la libertà d’impresa,
ma erano altri tempi e c’erano uomini con ben altra coscienza e principi.
 

Val

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Intervenendo alla Camera, il premier Giuseppe Conte ha promesso a breve “uno shock economico senza precedenti”.

Un poderoso rilancio del Paese che passi attraverso l’Araba fenice
della semplificazione burocratica e la chimera degli investimenti infrastrutturali.

Tutto questo, unito al solito profluvio di belle intenzioni prive di alcuna concretezza programmatica,
con l’evidente intento di rassicurare soprattutto la parte più produttiva della collettività,
la quale ancora stenta a riprendersi dal precedente shock realizzato da questo genio:
quello che ha letteralmente paralizzato l’Italia per ben due mesi.


E poi, come ciliegina sulla torta avvelenata di una direzione politica a dir poco imbarazzante, sta per arrivare il terzo e decisivo shock.

Ovvero il consuntivo di un dissennato lockdown che renderà manifesto pure ai sassi
l’impossibilità anche per un breve tempo di sostenere una spesa pubblica ulteriormente gonfiata da un mare di nuovi sussidi
e con la bomba ad orologeria di un debito pubblico sempre meno gestibile.

In questo senso, con un Paese ancora sotto l’effetto letargico di una propaganda terroristica e terrorizzante
che continua a raccontare un film epidemico dell’orrore
, la stragrande maggioranza della popolazione
ancora neppure si domanda in che modo il sistema nel suo complesso riuscirà a ritrovare
una accettabile forma di equilibrio economico e finanziario, tale soprattutto da impedire che le principali agenzie di rating arrivino a dichiarare junk,
ossia spazzatura, il nostro oramai incontrollabile debito pubblico.

E se per adesso la situazione è mantenuta relativamente tranquilla dai massicci acquisti operati sui nostri titoli di Stato dalla Banca centrale europea,
senza una rapida ripresa delle attività produttive e, a mio avviso, senza una politica di forte contenimento a regime della spesa pubblica improduttiva,
se così vogliamo definirla, nessuno potrà salvarci dalla catastrofe del default.

In soldoni, quello che gli analisti finanziari si stanno chiedendo da qualche settimana è
a quale livello del rapporto debito/Pil si attesterà l’Italia alla fine dell’emergenza sanitaria
sempre sperando che non ne arrivino altre a darci il definitivo colpo di grazia.

Perché se già prima dell’arrivo del Covid-19 la sostenibilità dell’indebitamento pubblico era costantemente in rianimazione
a causa di una economia in perenne ristagno, oggi siamo entrati nelle nebbie di una terra incognita,
condotti per mano da un Governo e da un Comitato tecnico-scientifico
che hanno affrontato fin qui l’epidemia con le tecniche di 100 anni fa
.

Scelte le quali, ripeto, mi sono sembrate talmente dissennate che il rischio di fare un salto indietro di un secolo appare più che fondato.

E allora sì che lo shock preannunciato dal nostro impareggiabile “avvocato del popolo” potrà avverarsi in pieno,
ma in un senso assolutamente catastrofico per un Paese che ancora oggi
ritiene di poter continuare a vivere ben sopra le proprie possibilità, con o senza pandemie.
 

Val

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Intervento di fuoco di Paragone su quanto sta accadendo, con un Governo di Quaquaraquà:

Ecco i punti base:

  • la liquidità è andata a FCA, che è ormai olandese, con ben poco in Italia;
  • la famose commissione di Colao, chi ha dentro?
  • L’amministratore delegato di Arcelor Mittal (che dovrebbe essere in situazione di contrasto con lo Stato, ma tanté) ,
  • Marcegaglia, l’amministratore di FCA.
Insomma il governo è un governo dei “Padroni” vecchio stile, quelli dei poteri forti,
quelli che prendono in giro gli italiani e l’Italia, mentre Mittal prende in giro tutti
e potrà andarsene senza pagare nessuna penale.

Una vera e propria grande sconfitta per Patuanelli e per il suo piano di salvataggio.

Ora il governo aiuta tutti questi grandi gruppi, con sede all’estero, mentre distrugge le piccole aziende,
riuscendo addirittura a punire le piccole emittenti radio per cedere le frequenze al 5g.

Dove sono finite le battaglie del M5s?

Quella dell’Acqua Pubblica?

Quella per la piccola azienda contro le multinazionali?

Ormai è un partito “Fake”, che ha tradito tutte le sue promesse.

Tutte le aziende che si avrebbero dovuto essere difese dal governo licenziano in massa,
come gli ultimi 190 licenziamenti a Marcianise, nonostante il teorico divieto.

Nel frattempo 4 milioni di dipendenti e partite IVA senza aiuti.

Solo i Farineti, amici della banche, ottengono i soldi.
 

Val

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Mortalità: -7mila imprese nei primi tre mesi del 2020.

Il saldo tra iscrizioni e cessazioni delle imprese del settore turistico
risente delle restrizioni necessarie per frenare l’avanzata della pandemia del Covid-19.

Nel primo trimestre dell’anno in corso, infatti, elaborando i dati del sistema Unioncamere-Infocamere
si conteggiano ben 6.843 imprese in meno contro un calo di 6.035 nel 2019 e di 5.560 nel 2018.

Il peggiore bilancio della nati-mortalità del sistema turistico degli ultimi 25 anni.

Un andamento negativo confermato anche dall’analisi della serie storica del tasso di crescita
quale rapporto tra il saldo fra iscrizioni e cessazioni rilevato a fine trimestre
e lo stock delle imprese registrate alla fine dell’anno precedente.

In particolare, nei primi tre mesi del 2020, il tasso di crescita demografica delle imprese
ha registrato il più alto valore negativo dal 1996 ad oggi: si parte da uno 0,22% del 1996
per arrivare al valore più elevato dell’1,44% nella prima parte dell’anno in corso.

Si tratta di un andamento negativo che si riflette anche a livello territoriale.

È il Piemonte, con l’1,79%, a registrare il più elevato tasso di decrescita immediatamente preceduto
dal Friuli Venezia Giulia (-1,77%) e dalle Marche (-1,76%).

Sul versante opposto, i sistemi turistici locali con una riduzione minore del rapporto tra il saldo fra iscrizioni e cessazioni,
quindi “più performanti”, risultano il Trentino-Alto Adige (-0,75%) seguito dalla Valle d’Aosta (-1,12%) e, infine, dalla Campania (-1,14%).

Scenari economici: oltre 40 mila imprese turistiche rischiano il default.

Una rallentata uscita dall’emergenza sanitaria del Covid-19 accompagnata da un tardivo innesto di liquidità
nel sistema economico alimenterebbe la perdita di solidità finanziaria rendendo molto complicata la copertura delle insolvenze.

Possibile conseguenza?

Poco più di 40 mila imprese potrebbero essere costrette a dichiarare il fallimento entro la fine del 2020 con una perdita di 9.629 milioni di fatturato.

Nonostante l’ipotesi di applicare la percentuale media nazionale di “rischio default” per il sistema turistico,
pari a quasi il 10%, indistintamente a tutte le regioni, senza differenti pesi, offra un quadro non esaustivo della stima,
ciò non toglie il merito di fare emergere uno scenario preliminare di ciò che potrebbe accadere a livello territoriale.

Poco più della metà dei fallimenti, pari a 20.183 imprese, sarebbe concentrata
nei sistemi a maggiore numerosità imprenditoriale per il comparto turistico italiano:
Lombardia con 5.665 imprese, Lazio con 4.544 imprese, Campania con 3.896 imprese,
Veneto con 3.071 imprese e Emilia-Romagna con 3.007 imprese.

Lavoro: 1 addetto su 10 potrebbe restare senza occupazione.

La mortalità imprenditoriale si ripercuoterebbe immediatamente sul mercato del lavoro.

Sarebbero poco più di 184 mila, infatti, i posti che andrebbero in fumo come diretta conseguenza
dell’uscita definitiva dal mercato di migliaia di imprese nel settore turistico del Belpaese.

Poco meno di 31 mila sarebbe la perdita quantificata nel solo sistema turistico della Lombardia
a cui seguirebbero il Veneto (-18.597 addetti), il Lazio (-18.095 addetti), l’Emilia-Romagna (-16.823 addetti) e la Toscana (-14.302 addetti).

A seguire, in una fascia di perdita tra i 7 mila e i 10 mila posti di lavoro, la Campania (-12.643), il Piemonte (-11.158 addetti),
la Puglia (-10.092 addetti), la Sicilia (-9.629 addetti) e, infine, il Trentino-Alto Adige (-7.537 addetti).

Al di sotto di questa soglia si collocano i rimanenti sistemi turistici locali: Liguria (-6.307 addetti),
Sardegna (-5.778 addetti), Marche (-5.082 addetti), Abruzzo (-4.079 addetti), Calabria (-3.906 addetti), Friuli Venezia Giulia (-3.846 addetti).

In coda, infine, per il rischio di perdita di posti di lavoro in valore assoluto,
si collocano Umbria (-2.625 addetti), Basilicata (-1.289 addetti), Valle d’Aosta (895 addetti) e Molise (667 addetti).
 

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INCHIESTA: a chi fa paura la cura con il plasma?

Una sperimentazione tutta italiana (ripresa poi in tutto il mondo); una cura facile, naturale e poco costosa;
risultati più che incoraggianti... poi, però, entrano in scena “scienziati” e politici che hanno... altri interessi

Prima parte –
Un mese fa gli italiani apprendevano, per la prima volta, che la cura con il plasma immune per contrastare il Covid-19 funzionava.

Da quel giorno, tra il silenzio del ministro della Salute, Roberto Speranza,
il “disprezzo” dei guru alla Burioni e gli imbarazzanti omissis dei media di regime,
sono iniziate le difficoltà per questa cura efficace, a basso costo e facile da applicare,
in collaborazione con i centri trasfusionali.


Riviviamo insieme, passo a passo, i moneti salienti di questa vicenda vergognosa.

Storia di un paradosso tutto italiano

Il 21 aprile il dottor Giuseppe De Donno, direttore del reparto di Pneumologia dell’ospedale Carlo Poma di Mantova,
comunicava che la sperimentazione, con un protocollo comune con il Policlinico San Matteo di Pavia,
in corso dal 31 marzo stava dando buoni risultati: 24 persone guarite su 24 trattate,
utilizzando 50 sacche di plasma prelevato da pazienti che avevano contratto il Covid-19
sviluppando quindi gli anticoporti che rendono questo tipo di plasma “iperimmune”.

In particolare, veniva resa nota la vicenda di una donna in gravidanza,
Pamela Vincenzi, 28 anni, ricoverata il 9 aprile e aggravatasi rapidamente, in 24 ore, senza rispondere ad altre cure.
Dinanzi a tale peggioramento era stato deciso di trattarla con il plasma iperimmune
(anche se il protocollo non prevedeva infusioni a donne incinte) e, subito dopo la prima trasfusione,
le condizioni erano nettamente migliorate giungendo rapidamente a guarigione.

Era il primo caso al mondo di donna in gravidanza trattata col plasma e guarita.

Con il dato di 24 persone guarite siamo già ben oltre il dato di una analoga sperimentazione cinese:
il 7 aprile sulla rivista PNAS era stato, infatti, pubblicato uno studio dell’Università di Shanghai
sui risultati positivi ottenuti dalla cura di 10 pazienti con il plasma immune.

Più tardi, iI 18 aprile, si verrà a sapere che nell’intera provincia dell’Hubei
era stato raccolto il plasma di 1.627 persone guarite per curare oltre 600 persone.

Ma tutte le informazioni che vengono dalla Cina sono incerte e inattendibili.

Il 28 aprile, invece, l’ospedale di Novara annuncia ufficialmente che un primo paziente
è stato trattato col plasma e già dopo la prima trasfusione ha ottenuto miglioramenti tali da lasciare la terapia intensiva.


Il 29 aprile la dottoressa Giustina De Silvestro, direttore del servizio trasfusionale dell’Azienda ospedaliera di Padova
(dove dal 3 aprile hanno iniziato a sperimentare il plasma immune)
annuncia che sono stati trattati 11 pazienti, alcuni migliorati e altri stabilizzati ma nessuno peggiorato.

Il 2 maggio il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana loda pubblicamente i risultati positivi della sperimentazione del plasma.

Lo definisce «un incredibile traguardo» ottenuto «dal protocollo predisposto dal servizio di Immunoematologia
e Medicina trasfusionale del policlinico San Matteo di Pavia, in collaborazione con le strutture di Mantova e Lodi,
nonché dall’Azienda ospedaliera universitaria di Padova.

Protocollo sviluppato in Lombardia e già esportato negli Usa dove viene applicato in 116 centri universitari».

Fontana ricorda anche che «la cura si sviluppa in abbinamento al test sierologico, sempre del San Matteo di Pavia,
che, oltre a dire se hai o non hai gli anticorpi, ne analizza la quantità presente nel sangue definendo se si può diventare donatore
del prezioso plasma con un’alta presenza di anticorpi.

Tra silenzi e intimidazioni

Tutti gli italiani dovrebbero essere contenti dei risultati ottenuti dalle sperimentazioni a Mantova, Pavia, Padova e Novara.

Purtroppo, non è così.

Nell’ambiente “scientifico” asservito alle aziende farmaceutiche non tutti gradiscono;
di conseguenza anche al ministero della Salute (asservito agli pseudo-scienziati e alle farmaceutiche)
nessuno si fa vivo con i ricercatori lombardi.


Anzi, il 3 maggio trapela la notizia che la sperimentazione a Mantova, nello specifico la vicenda della donna incinta guarita,
è finita nel mirino dei Carabinieri dei Nas, il nucleo antisofisticazioni.


«I Nas – spiega il dott. De Donno – hanno fatto una semplice telefonata in ospedale
per raccogliere sommarie informazioni su quello che stavamo facendo.
Dopo quella telefonata non ho più sentito nulla».

Anche il direttore generale dell’Asst di Mantova, Raffaello Stradoni, conferma la telefonata
e a chi ricorda l’esclusione dal protocollo delle donne in gravidanza risponde:

«Quel caso rischiava di finire male e, quindi, abbiamo proceduto, salvando due vite».

Un risultato doppiamente positivo ma che, evidentemente, deve aver dato fastidio a qualcuno.

Già “qualcuno”… Chi ha chiesto l’intervento dei Carabinieri con chiaro scopo intimidatorio?

Il 4 maggio il dottor De Donno comunica, in un’intervista radiofonica, che, tra Mantova e Pavia,
con il plasma sono stati trattati quasi 80 pazienti con problemi respiratori gravi:

«Nessuno è deceduto, la mortalità del nostro protocollo finora è zero».

De Donno spiega che i donatori «devono avere delle caratteristiche fondamentali: devono essere donatori guariti da Coronavirus.
La guarigione viene accertata con due tamponi sequenziali e la diagnosi deve essere stata fatta con un tampone positivo.
Questi donatori guariti ci donano 600ml di sangue.
Tratteniamo quindi il liquido che ha come caratteristica fondamentale la concentrazione di anticorpi, tra cui quelli contro il Coronavirus».

Adesso però, «ogni volta dobbiamo chiedere l’autorizzazione al “Comitato etico”
e questo è un impedimento enorme perché ci fa perdere tempo prezioso per salvare le persone»
.

Il plasma, chiarisce, «può essere congelato e durare fino a 6 mesi in stoccaggio, per questo a Mantova abbiamo creato una banca del plasma.
Riusciamo anche ad aiutare altri ospedali che ci stanno chiedendo aiuto.
Creando banche plasma in giro per l’Italia – conclude De Donno – riusciremmo ad arginare un’eventuale seconda ondata (della pandemia)»
.

Perché tante difficoltà al lavoro di De Donno?

Chi sta mettendo i bastoni tra le ruote della sperimentazione?

Lo scopriremo domani.
(2 -Continua)
 

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