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tontolina

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Davide Serra, il finanziere che sussurra a Matteo Renzi: “Tassare rendite finanziarie”

La ricetta del "bandito delle Cayman" per uscire dalla crisi comprende anche un abbattimento delle tasse sul lavoro e un taglio netto alla spesa pubblica. E bisogna agire subito, perché "la sola differenza del costo dei finanziamenti tra Germania e Italia fa crollare gli utili delle nostre aziende del 15%"

Davide Serra, il finanziere che sussurra a Matteo Renzi: ?Tassare rendite finanziarie? - Il Fatto Quotidiano
 

tontolina

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noi lavoriamo e i politioci sfruttano le nostre prestazioni per vivere da veri nababbi

manteniamo e rubano mediamente dai 16mila ai 21 mila euro al mese caduno

Parlamento
Senato
Consigli regionali .... questi poi sono peggio delle locuste

e gli italiani ... lavoratori....


Caro Bsev, ho un problema. Lavoro per conto mio: ho la partita IVA. Nel 2012, è arrivato, finalmente, lavoro in abbondanza. Io lavoro esclusivamente per aziende: tutto viene fatturato. Alle correnti tariffe di mercato ho prodotto un reddito lordo di circa 50.000 euro. Per me, abituato come ero abituato, non è male.


Il commercialista mi ha appena comunicato quanto dovrò versare da qui a novembre, tra saldo e anticipo: 22.900 euro tra imposte e contributi previdenziali.


Questo dopo che, sul fatturato, è già stato versato il 20% di ritenuta d’acconto: che fanno altri 12.000; totale 34.900 di tassazione.


In percentuale sul lordo, fa 69,8%.


Per mettere insieme 50.000 euro ho lavorato sabati, domeniche, alcune notti, ho fatto trasferte paurose. Lo Stato, per mantenere vizi e stravizi dei vari Trota, Batman, Formigoni e Minetti, se ne porta via più di due terzi.


Per inciso: non potrò pagare, ovviamente. Sto ancora arrancando dietro imposte e contributi dell’anno scorso, poi ho una rata da 250 euro mensili con Equitalia; ed ho una rata da oltre 300 euro con una finanziaria, per un finanziamento chiesto ed ottenuto per pagare le tasse di 5 o 6 anni fa, non ricordo. Sono professionista (faccio il programmatore di computer): non posso fallire, non posso delocalizzare. L’unica cosa che potrei fare, e che probabilmente farò, sarà vendere l’appartamento di città dove vivono due figli venticinquenni e la ex moglie (io vivo in affitto), vendere la casetta di montagna ereditata da mio padre due anni fa, e sparire in uno di quei paesi dove si vive con pochissimo.


Severgnini, lei dice, ai bravi ragazzi volenterosi che vogliono emigrare, di non farlo, e, se lo fanno, di tornare presto; io dico loro: “Andate fino a che siete in tempo. Quando avrete 50 anni (io ne ho 55), vi morderete le mani per non averlo fatto. L’Italia è un paese perduto. Lasciate i Trota, i Batman, i Formigoni e le Minetti al loro destino, e costruitevi una vita dignitosa altrove. L’Italia è morta”. Cordiali saluti, Aldo Marchioni (da Italians)
 

tontolina

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ECCO COME IL FISCO DISTRUGGE LE IMPRESE



VINCITORI E VINTI: ECCO COME IL FISCO DISTRUGGE LE IMPRESE


PREMESSA

Il caso di seguito descritto rappresenta la pressione fiscale complessiva subita da una piccola società con due soci, che ha realizzato, nell'esercizio 2012, un utile di appena 32000 euro. Una miseria, insomma. Eppure la pretesa del fisco è tale da richiedere alla società e ai soci il pagamento di circa 27 mila euro tra tasse e contributi, ossia quasi l'85% dell'utile realizzato.

di Paolo Cardenà - In questi giorni, visto l'approssimarsi delle scadenze fiscali, sono molto impegnato con le dichiarazioni fiscali per il periodo di imposta 2012. Questo periodo, oltre ad essere sempre intenso di lavoro, ispira numerose riflessioni e altrettanti spunti sullo stato di salute delle nostre imprese, sulla pretesa tributaria che patiscono, e sul futuro che ci attende. In una di queste, sono giunto alla conclusione che, in Italia, conviene non lavorare, non imprendere. Starsene beatamente a casa curando i propri interessi, i propri hobby, e magari darsi a qualche buona lettura, ripagherebbe molto di più che fare impresa. Sarebbe molto più utile, almeno nello spirito. Perlomeno, fino a quando non accadrà qualche shock di sistema, tale da riformare strutturalmente i meccanismi fiscali al limite dell'incredibile, dell'immaginario e della sopraffazione. Mi riferisco alla sopraffazione che il fisco pratica nei confronti dei contribuenti e, nel caso specifico, di chi fa impresa.


Qualche giorno fa, mi è passata di mano una dichiarazione di un piccola società di capitali: una srl, con due soci che svolgono entrambi la propria opera all'interno della società.
La crisi, chiaramente, anche in questo caso, non ha risparmiato l'impresa: i ricavi si sono contratti significativamente, e anche l'utile è stato spinto al ribasso.
Tant'è che il bilancio al 31/12/2012, presenta un utile prima delle imposte di appena 32000.
Una miseria insomma, che non ripaga affatto il sacrificio sopportato dai due imprenditori, che si dedicano alla loro attività quasi 12 ore al giorno, immersi con impegno totale e dedizione in questo lavoro, trascurando i propri interessi, i propri affetti e le proprie passioni. Una storia di imprenditori onesti e laboriosi. Una storia come tante altre, in Italia.
In questo caso, nella determinazione delle imposte da pagare a carico della società in esame, nonostante l'esiguità dell'utile - certamente non sufficiente a garantire la sussistenza degli imprenditori e delle rispettive famiglie-, la tassazione pretesa dal fisco in capo alla società è di oltre 15.000 euro. 15.593 euro, per l'esattezza.
Di cui,
12.024 a titolo Ires,
e 3569 per Irap.
Quindi, la società subisce un carico tributario di oltre il 48%.



Vi chiederete come sia possibile, immagino.
E' possibile perché il legislatore fiscale, sempre in cerca di nuova materia imponibile da colpire, e quindi di nuovo gettito tributario, nel corso degli anni, ha reso indeducibili una serie di costi, sia ai fini Ires che Irap.
Solo per enunciarvi qualche esempio, le società, ai fini Ires, nonostante abbiano patito un incremento dei costi finanziari per via dell'inasprimento delle condizioni bancarie, nella determinazione del reddito, non possono portare in deduzione tutti gli interessi passivi che pagano, ma possono farlo solo nei limiti del 30% del ROL (Reddito Operativo Lordo). Essendo il ROL una variabile che dipende, tra l'altro, dai ricavi conseguiti, diminuendo questi ultimi, ne deriva che si contrae anche il ROL, divenendo meno capiente ai fini della deduzione degli interessi passivi, che comunque aumentano.
Invece, ai fini Irap, gli interessi passivi sono, in buona sostanza, indeducibili nella sua interezza. Quindi, aumentano gli interessi (costi), diminuiscono i ricavi, il reddito, ma si pagano più imposte.

Altro esempio emblematico riguarda le autovetture. Si pensi ai costi di acquisto, gestione e manutenzione del parco autovetture. Questi, possono essere dedotti solo per il 40% (deduzione ridotta al 20% dal primo gennaio 2013).
Oppure, ancora, all'indeducibilità dei costi del personale ai fini Irap, per i quali, il legislatore riconosce comunque alcune deduzioni. Per queste componenti di costo, enunciate solo a titolo esemplificativo, il legislatore ha previsto l'indeducibilità ai fini della determinazione del reddito tassabile, ancorché siano costi sostenuti nell'ambito del normale svolgimento dell'attività di impresa, pertinenti e indispensabili al conseguimento del fine imprenditoriale.
Per via della parziale deducibilità o dell'indeducibilità totale di questi costi, accade che, paradossalmente, l'erario può fondare la pretesa tributaria su un reddito non prodotto e su un utile realizzato.


Ritornando all'esempio che ci occupa, la tassazione della società e dei due soci non si esaurisce con i 15.593 euro di tasse in capo alla società. Ma anche i soci sono colpiti dal imposizioni tributarie e contributive.
Già, per l'anno 2012, i due soci hanno corrisposto i contributi Inps sul reddito minimale individuato a circa 15000 euro.
E quindi altri 3200 euro ciascuno di contributi Inps facendo salire il conto a 21993. Oltre ai contributi pagati sul reddito minimale, la legge prevede che, ciascun socio che lavora nell'azienda debba versare anche i contributi Inps a percentuale sulla parte di reddito eccedente il minimale. In questo caso, essendo il reddito fiscale di euro 43722 per via della ripresa a tassazione delle componenti di costo pocanzi enunciate, ne consegue che ciascun socio debba corrispondere all'Inps altri 1482 euro ciascuno, ancorché il reddito prodotto non sia stato prelevato in forma di utili distribuiti. E l'imposizione fiscale complessiva, con un utile di appena 32000, è già arrivata a quasi 25000 euro, ossia il 78% dell'utile prodotto nel 2012.
Ma c'è dell'altro. I due soci, nel corso del 2013, volendo prelevare l'utile netto realizzato nel 2012 , o meglio quel che rimane (16.407=32.000-15.939) anche per far fronte alle proprie spese e al pagamento dei contributi Inps in scadenza nell'anno, saranno sottoposti a un'ulteriore tassazione. Prima di tutto dovranno registrare la delibera di distribuzione dell'utile, pagando 168 euro.
Poi, nel 2014, nella propria dichiarazione dei redditi dovranno riportare l'utile imputato a ciascuno di loro (8.203) che andrà a formare la base imponibile in misura del 49.72% dell'utile prelevato, in quanto, in parte, già tassato in capo alla società. Quindi, ipotizzando che lo scaglione di reddito da applicare sia il più basso (23%), ciascuno di loro, al netto degli oneri deducibili pagati nel corso del 2013, dovrà corrispondere all'erario ulteriori 900 euro tra Irpef e addizionali varie. Quindi, il conto delle imposte pagate sia dalla società che dai soci, per un misero utile di 32000 euro, sale fino ad arrivare a 27000 euro, euro più euro meno. Ossia l'85% dell'utile prodotto dalla società nel 2012. Oltre alle tasse di cui abbiamo dato nota, c'è da dire che l'impresa, durante l'esercizio, subisce altre forme di imposizione. Si pensi, ad esempio, al diritto annuale della camera di commercio, alla tassa sulla vidimazione dei libri sociali, all'eventuale IMU (indeducibile) e ad altre contribuzioni obbligatorie per legge, che, tuttavia, sono già considerate nella determinazione del risultato d'esercizio originario(32.000 euro).

C'è da dire che la pretesa del fisco non si esaurisce con questa pretesa assurda e distruttiva, che oltrepassa di molto ogni limite di sostenibilità e ragionevolezza.
Invero, per i 5 anni successivi, il fisco potrà esperire eventuali controlli sulla fedeltà fiscale dell'azienda, e magari accertare ricavi superiori a quelli dichiarati, determinati in ragione agli indicatori previsti dagli studi di settori a cui la società è sottoposta.
Se pensate che il caso appena descritto costituisca un caso limite, vi state sbagliando di grosso. Benché il caso proposto offra dei piccoli margini di ottimizzazione del livello di pressione fiscale, esistono casi in cui le aziende, nonostante conseguano delle perdite anche significative, sono esposte ugualmente al pagamento di un carico fiscale eccessivo ed insostenibile. Tanto più in momenti di crisi profonda come quello attuale. Ciò è possibile per effetto della ripresa a tassazione dei costi che il fisco considera indeducibili, nonostante siano indispensabili e strumentali al raggiungimento degli scopi imprenditoriali.

Al fine di riepilogare il ragionamento proposto, vi propongo questo schema riassuntivo.





SIAMO ALL'ESPROPRIO LEGALIZZATO DAI MAFIOSI CHE STANNO IN PARLAMENTO
 

tontolina

Forumer storico
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ROVIGO

Forumer storico
quando si arriva al 80% in italia lavoreranno solo i vu compra e i dipendenti statali :D[/QUOTE

:no:

:) I dipendenti statali lavoreranno quando verrà assunto SOLO personale per LAVORARE & con le DOVUTE COMPETENZE!

:( fintanto che verrano assunti i LORO prenti/amici/etc.etc. con i NOSTRI SOLDI.........:Ddevono VOTARLI & far VOTARE ! :mumble:Che c'entra il LAVORO!:mmmm:

:DSe lavorassero NON farebbero il LORO lavoro.:D
 
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tontolina

Forumer storico
Ripercussioni sull’economia italiana; Multinazionali … ecco chi dice addio all’Italia


Scritto il 17 luglio 2013 alle 10:37 da carloscalzotto@finanza
E almeno altre sette si apprestano a farlo ento il 2014.
Pesano la burocrazia, le tasse e l’incertezza del diritto.
Anche per gli italiani.
Dall’Italia fuggono cervelli, capitali e multinazionali.
Venti grandi colossi internazionali hanno battuto la ritirata dai nostri confini negli ultimi due anni.
Altri sette potrebbero presto fare lo stesso.
Shell ha appena annunciato la messa in vendita di 870 pompe di benzina lungo tutta la penisola.
In questo caso non dovrebbero esserci particolari ripercussioni sull’economia italiana o sui livelli occupazionali: l’asset (valutato 1,3 miliardi) fa gola a molti: dall’Api dei Brachetti Peretti, alla Erg dei Garrone fino alla Saras dei Moratti, ma anche a Esso, Tamoil, Rosfenet e persino a qualche fondo di private equity.
Ma il dato fa comunque riflettere. Anche perché Shell non è certo la prima multinazionale a lasciare la Penisola da quando ha avuto inizio l’ondata recessiva. E non sarà l’ultima. Molti altri gruppi, probabilmente a breve seguiranno questa stessa strada. Le ragioni del gruppo anglo-olandese vanno cercate, oltre che in motivazioni interne al colosso (il piano di dismissioni ammonta, complessivamente, a 10 miliardi di euro), anche nelle tasse decisamente elevate sulla benzina, nella forte contrazione dei consumi e del crollo del traffico a causa della crisi. Ma a spingere i giganti internazionali fuori dal territorio italiano sono anche le classiche “malattie” della Penisola a cui sono appese attività e imprese: il cuneo fiscale che rende il lavoro eccessivamente oneroso, il deficit infrastrutturale, la burocrazia infinita e di fatto, l’incertezza legale costante, i tempi eccessivamente lunghi per ottenere i pagamenti per via giudiziale.
CHI HA GIA’ DATO L’ADDIO. Nel recente passato, ovvero negli ultimi cinque anni, hanno detto addio o arrivederci all’Italia tra gli altri: Alcoa (per l’Arabia Saudita), Dainese (per la Tunisia), Carrier (per la Romania), Rossignol (Romania), Sykes Italia (per la Romania), Yamaha (per la Spagna), Koia (per Dallas) e la Schneider Electric. Nokia Siemens ha poi chiuso il settore ricerca di Cinisello (per la Cina), Glaxo il centro di ricerca di Verona e, successivamente, anche la fabbrica di Baranzate; Electrolux ha dimezzato la propria presenza sul territorio; Motorola la ricerca di Torino, Astrazeneca il sito produttivo di Caponago; Sanofi Aventis la riceca; Pfizer il polo di ricerca oncologica di Nerviano (passato oggi sotto il Servizio sanitario regionale lombardo). Jakob Muller ha spostato tutto in Cina, Merck ha chiuso il centro di ricerca di Pomezia; la giapponese Agc flat glass l’impianto di Salerno; Kering (ex Ppr) la catena Fnac (il ramo d’azienda è stato rilevato da Dps Group, titolare del marchio Trony). E l’elenco potrebbe continuare ancora per molte righe. Ovviamente il rischio che, chi ha già preso parzialmente la via d’uscita dal Paese prosegua e completi il percorso è più che concreto.
E CHI SI APPRESTA A FARLO. E i prossimi nomi in lista si possono già segnalare. Bridgestone ha annunciato che vuole chiudere lo stabilimento di Bari entro la prima metà del 2014 lasciando a casa 950 lavoratori. La decisione, secondo quanto attestato dal colosso giapponese, è dovuta alla contrazione del mercato degli pneumatic in Europa dove a quanto pare resistono (anche se con qualche difficoltà) solo i produttori di pneumatici di alta gamma. Sempre nel settore delle quattro ruote, l’attenzione su quelle cehe sono le intenzioni di Fiat per il prossimo futuro è sempre altissima. Nonostate le continue rassicurazioni del Lingotto («non chiuderemo altri stabilimenti in Italia») da anni si teme il progressivo ritiro dai confini nazionali a favore dei Paesi low cost sul fronte produttivo e a favore degli Usa a livello direzionale e di ricerca.
Aptargroup, multinazionale Usa attiva nella produzione di erogatori per bevande e flaconi per profumeria, ha parlato della chiusura di uno dei due stabilimenti italiani. E proprio in questi giorni anche il colosso farmaceutico a stelle e strisce, Merck Sharp & Dohme, ha comunicato ai suoi dipendenti italiani che, a partire dal 1 gennaio 2015, chiuderà anche lo stabilimento di Pavia, l’ultimo baluardo produttivo rimasto nel Paese. Starebbe per chiudere i battenti anche Ceam (gruppo Utc-Otis), attiva nella produzione di ascensori e presente da oltre 60 anni nel nostro Paese. I vertici della multinazionale hanno deciso di spostare produzione e progettazione in Spagna, lasciando qui solo l’attività commerciale a causa della domanda modesta e del costo del lavoro elevato. Tnt a fine giugno ha anticipato anche la decisione di lasciare anche la sede di Avellino all’interno del piano di progressivo abbandono del territorio a favore di Paesi più vantaggiosi sul fronte dei costi. Infine, la multinazionale svedese Dometic, attiva nella produzione di prodotti per la refrigerazione e in particolare condizionatori per camper, ha annuncio la chiusura di tutte le sedi italiane eccetto una sede forlivese in seguito alla decisione di spostate tutta la produzione in Cina.
ANCHE LE AZIENDE LOCALI TRASLOCANO. Non sono solo le multinazionali a cercare fortuna altrove. Secondo l’ultima ricerca realizzata dall’Ufficio studi della CGIA di Mestre sono state oltre 27mila le aziende italiane che al 31 dicembre 2011 (ultimo dato disponibile) hanno trasferito all’estero in tutto o in parte la propria attività.
Di queste bene 2.562 sono andate in Francia dove viene apprezzata la certezza del diritto e la burocrazia ridotta ai minimi termini, seguita da Stati Uniti (2.408 aziende), Germania (2.099 imprese), Romania (1.992 unità produttive) e Spagna (1.925 aziende). Cina è al settimo posto con 1.103 imprese. fonte
Per non parlare poi dell’ultimo miracolo svizzero dove sono approdate dal Nord Italia molte attività imprenditoriali attirate dagli incentivi fiscali e dalla tassazione rasoterra.
ITALIA in VENDITA. Preoccupa poi la vendita di brand storici italiani agli stranieri, un processo in corso da anni ma, che negli ultimi giorni ha subito (con Loro Piana e Cova vendute a Lvmh e Pernigotti a un gruppo turco) una preoccupante accelerazione.
Al di là delle congetture legate alla difesa dell’italianità dei nostri marchi che nel mondo rappresentano l’eccellenza del made in Italy, il problema più concreto è presto detto: il rischio è lo svuotamento finanziario delle prede seguito dalla delocalizzazione della produzione e quindi dalla chiusura di stabilimenti e dalla perdita di occupazione. Un rischio concreto: di Fiorucci (acquisita nel 1990 dalla giapponese Edwin International) a Milano è rimasto solo il centro design.
 

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