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Veneziani: vi presento l’altro Pertini, iracondo e stalinista
Scritto il 31/3/18 • nella Categoria: segnalazioni Condividi


Ah, Sandro Pertini, il presidente della repubblica più amato dagli italiani. Il presidente della gente, dei bambini, il fumetto con la pipa, il presidente-partigiano che esce dal protocollo. L’Impertinente. Il Puro. A quarant’anni dalla sua elezione al Quirinale, in un diluvio celebrativo, uscirà domani al cinema un film agiografico su di lui. Noi vorremmo integrare il santino raccontando l’altro Pertini. Alla morte di Stalin nel ’53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell’“Avanti!” e all’epoca capogruppo socialista, celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa disse su l’“Avanti!”: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L’ultima sua parola è stata di pace. […] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura… Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l’immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell’elogio, mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin, non fa onore a un combattente della libertà e dei diritti dei popoli.
Da presidente della Repubblica il compagno Pertini concesse appena fu eletto, la grazia al boia di Porzus, l’ex partigiano comunista Mario Toffanin, detto “Giacca”, nonostante questi non si fosse mai pentito dei suoi crimini per i quali era stato condannato all’ergastolo. Toffanin fu responsabile del massacro di Porzus, febbraio 1945: a causa di una falsa accusa di spionaggio, furono fucilati ben 17 partigiani cattolici e socialisti (la “Brigata Osoppo”), da parte di partigiani comunisti (Gap). Tra loro fu trucidato il fratello di Pasolini, Guido. Dopo la grazia di Pertini a Toffanin lo Stato italiano concesse al criminale non pentito pure la pensione che godette per vent’anni, insieme ad altri 30mila sloveni e croati “premiati” dallo Stato italiano per le loro persecuzioni antitaliane. Pertini partecipò poi commosso al funerale del presidente jugoslavo Tito (1980), il primo responsabile delle foibe, baciando quella bandiera che destava terribili ricordi negli esuli istriani, giuliani e dalmati.
Pertini fu uno spietato capo partigiano. Il suo nome ricorre in molte vicende. Per esempio, quella della coppia di attori Valenti-Ferida. Luisa Ferida aveva 31 anni ed era incinta di un bambino quando fu uccisa dai partigiani all’Ippodromo di San Siro a Milano assieme a Osvaldo Valenti, il 30 aprile 1945, accusati di collaborazionismo, per aver frequentato la famigerata Villa Triste, a Milano, sede della banda Koch. L’accusa si dimostrò infondata al vaglio di prove e testimonianze; lo stesso Vero Marozin, capo della brigata partigiana che eseguì la loro condanna a morte, dichiarò, nel corso del procedimento penale a suo carico: «La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente». I due attori, infatti, pagarono la loro vita tra lussi e cocaina ma non avevano responsabilità penali o politiche tali da giustificarne la fucilazione per collaborazionismo. Nelle dichiarazioni rese da Marozin in sede processuale Pertini fu indicato come colui che aveva dato l’ordine di ucciderli: «Quel giorno – 30 aprile 1945 – Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: “Fucilali, e non perdere tempo!”». Si veda al proposito “Odissea Partigiana” di Vero Marozin (1966) “Luisa Ferida, Osvaldo Valenti, Ascesa e caduta di due stelle del cinema” di Odoardo Reggiani (Spirali, 2001).
«Pertini si era rifiutato di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva elaborato durante i giorni di prigionia, nel quale erano contenuti i nomi dei testimoni che avrebbero potuto scagionare i due attori da ogni accusa. La casa milanese di Valenti e della Ferida venne svaligiata pochi giorni dopo la loro uccisione. Fu rubato un autentico tesoro (cani di razza inclusi) di cui si perse ogni traccia». È famoso l’episodio accaduto all’arcivescovado di Milano nel ’45, quando Pertini incrociò sulle scale Mussolini, reduce da un colloquio col cardinale Schuster. Pertini disse poi di non averlo riconosciuto, «altrimenti lo avrei abbattuto lì, a colpi di rivoltella». Poi aggiunse: «Come un cane tignoso». Pertini sosteneva la necessità di uccidere Mussolini, non arrestarlo: se si fosse salvato, disse, magari sarebbe stato eletto pure in Parlamento. Delle responsabilità di Pertini nella strage di via Rasella a Roma, ne scrisse William Maglietto in “Pertini sì, Pertini no” (Settimo Sigillo, 1990).
Al Quirinale, al di là dell’immagine bonaria del presidente che tifa Nazionale, gioca a carte, va a Vermicino per Alfredino, il bambino caduto nel pozzo, si ricorda il suo carattere permaloso. Ad esempio quando cacciò il suo capo ufficio stampa, Antonio Ghirelli, valoroso giornalista e galantuomo socialista. O quando chiese di cacciare Massimo Fini dalla Rizzoli in seguito a un articolo su di lui che non gli era piaciuto. Così ne parlò lo stesso Fini: «Immediata rabbiosa telefonata al direttore della “Domenica del Corriere” Pierluigi Magnaschi, un gentleman dell’informazione, il quale ricoperto da una valanga di insulti cerca di barcamenarsi alludendo all’autonomia delle rubriche dei giornalisti, allo spirito un po’ da bastian contrario di Massimo Fini. Il “nostro” San Pertini gli latra minacciosamente: “Non credere di fare il furbo con me, imbecille! Chiamo il tuo padrone Agnelli e vediamo qui chi comanda!” E infatti il giorno dopo mi si presenta il responsabile editoriale della casa editrice Lamberto Sechi…». Lo stesso Pertini disse a Livio Zanetti in un libro-intervista: «Cercai inutilmente di far licenziare uno strano giornalista italoamericano». Nenni nei suoi diari considerava Pertini un violento iracondo.
Quando l’Msi celebrò il suo congresso a Genova nel 1960, fu proprio Pertini ad accendere il fuoco della rivolta sanguinosa dei portuali della Cgil col discorso del “brichettu” (il cerino). E vennero i famigerati “ganci di Genova”, coi quali un governo democratico di centro-destra, a guida Tambroni, con l’appoggio esterno del Msi, fu abbattuto da un’insurrezione violenta nel nome dell’antifascismo. Proverbiale era la poi sua vanità. Ghirelli riferì uno sferzante giudizio di Saragat: «Sandro è un eroe, soprattutto se c’è la televisione». E i suoi abiti firmati, le sue scarpe Gucci mentre predicava il socialismo e il pauperismo… Fiorirono poi tante maldicenze su di lui, capo partigiano e poi leader socialista, che vi risparmio; circolavano giudizi dell’Anpi, di Marco Ramperti… Francesco Damato ricordò: «Nel 1973 Pertini mi comunicò di avere appena cacciato dal proprio ufficio di presidente della Camera il segretario del suo partito, Francesco De Martino. Che gli era andato a proporre di dimettersi per far posto a Moro, in cambio del laticlavio alla morte del primo senatore a vita». Poi fu proprio l’onda emotiva dell’assassinio Moro e l’asse Dc-Pci sulla non-trattativa che portò a eleggerlo due mesi dopo al Quirinale. Infine va ricordato il Pertini che agli operai di Marghera, nel pieno infuriare del terrorismo rosso con larghe scie di sangue, disse: «Sono stato un brigatista rosso anch’io», per poi negare che le Br fossero rosse, giudicandoli solo «briganti», così da recidere il filo rosso tra Br e partigiani. Il presidente di una repubblica flagellata in quegli anni dal terrorismo rosso, si definiva orgoglioso «un brigatista rosso».
(Marcello Veneziani, “Il presidente impertinente”, da “Il Tempo” del 14 marzo 2018; articolo ripreso dal blog di Veneziani).
Ah, Sandro Pertini, il presidente della repubblica più amato dagli italiani. Il presidente della gente, dei bambini, il fumetto con la pipa, il presidente-partigiano che esce dal protocollo. L’Impertinente. Il Puro. A quarant’anni dalla sua elezione al Quirinale, in un diluvio celebrativo, uscirà domani al cinema un film agiografico su di lui. Noi vorremmo integrare il santino raccontando l’altro Pertini. Alla morte di Stalin nel ’53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell’“Avanti!” e all’epoca capogruppo socialista, celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa disse su l’“Avanti!”: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L’ultima sua parola è stata di pace. […] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura… Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l’immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell’elogio, mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin, non fa onore a un combattente della libertà e dei diritti dei popoli.

Da presidente della Repubblica il compagno Pertini concesse appena fu eletto, la grazia al boia di Porzus, l’ex partigiano comunista Mario Toffanin, detto “Giacca”, nonostante questi non si fosse mai pentito dei suoi crimini per i quali era stato condannato all’ergastolo. Toffanin fu responsabile del massacro di Porzus, febbraio 1945: a causa di una falsa accusa di spionaggio, furono fucilati ben 17 partigiani cattolici e socialisti (la “Brigata Osoppo”), da parte di partigiani comunisti (Gap). Tra loro fu trucidato il fratello di Pasolini, Guido. Dopo la grazia di Pertini a Toffanin lo Stato italiano concesse al criminale non pentito pure la pensione che godette per vent’anni, insieme ad altri 30mila sloveni e croati “premiati” dallo Stato italiano per le loro persecuzioni antitaliane. Pertini partecipò poi commosso al funerale del presidente jugoslavo Tito (1980), il primo responsabile delle foibe, baciando quella bandiera che destava terribili ricordi negli esuli istriani, giuliani e dalmati.

Pertini fu uno spietato capo partigiano. Il suo nome ricorre in molte vicende. Per esempio, quella della coppia di attori Valenti-Ferida. Luisa Ferida aveva 31 anni ed era incinta di un bambino quando fu uccisa dai partigiani all’Ippodromo di San Siro a Milano assieme a Osvaldo Valenti, il 30 aprile 1945, accusati di collaborazionismo, per aver frequentato la famigerata Villa Triste, a Milano, sede della banda Koch. L’accusa si dimostrò infondata al vaglio di prove e testimonianze; lo stesso Vero Marozin, capo della brigata partigiana che eseguì la loro condanna a morte, dichiarò, nel corso del procedimento penale a suo carico: «La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente». I due attori, infatti, pagarono la loro vita tra lussi e cocaina ma non avevano responsabilità penali o politiche tali da giustificarne la fucilazione per collaborazionismo. Nelle dichiarazioni rese da Marozin in sede processuale Pertini fu indicato come colui che aveva dato l’ordine di ucciderli: «Quel giorno – 30 aprile 1945 – Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: “Fucilali, e non perdere tempo!”». Si veda al proposito “Odissea Partigiana” di Vero Marozin (1966) “Luisa Ferida, Osvaldo Valenti, Ascesa e caduta di due stelle del cinema” di Odoardo Reggiani (Spirali, 2001).

«Pertini si era rifiutato di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva elaborato durante i giorni di prigionia, nel quale erano contenuti i nomi dei testimoni che avrebbero potuto scagionare i due attori da ogni accusa. La casa milanese di Valenti e della Ferida venne svaligiata pochi giorni dopo la loro uccisione. Fu rubato un autentico tesoro (cani di razza inclusi) di cui si perse ogni traccia». È famoso l’episodio accaduto all’arcivescovado di Milano nel ’45, quando Pertini incrociò sulle scale Mussolini, reduce da un colloquio col cardinale Schuster. Pertini disse poi di non averlo riconosciuto, «altrimenti lo avrei abbattuto lì, a colpi di rivoltella». Poi aggiunse: «Come un cane tignoso». Pertini sosteneva la necessità di uccidere Mussolini, non arrestarlo: se si fosse salvato, disse, magari sarebbe stato eletto pure in Parlamento. Delle responsabilità di Pertini nella strage di via Rasella a Roma, ne scrisse William Maglietto in “Pertini sì, Pertini no” (Settimo Sigillo, 1990).

Al Quirinale, al di là dell’immagine bonaria del presidente che tifa Nazionale, gioca a carte, va a Vermicino per Alfredino, il bambino caduto nel pozzo, si ricorda il suo carattere permaloso. Ad esempio quando cacciò il suo capo ufficio stampa, Antonio Ghirelli, valoroso giornalista e galantuomo socialista. O quando chiese di cacciare Massimo Fini dalla Rizzoli in seguito a un articolo su di lui che non gli era piaciuto. Così ne parlò lo stesso Fini: «Immediata rabbiosa telefonata al direttore della “Domenica del Corriere” Pierluigi Magnaschi, un gentleman dell’informazione, il quale ricoperto da una valanga di insulti cerca di barcamenarsi alludendo all’autonomia delle rubriche dei giornalisti, allo spirito un po’ da bastian contrario di Massimo Fini. Il “nostro” San Pertini gli latra minacciosamente: “Non credere di fare il furbo con me, imbecille! Chiamo il tuo padrone Agnelli e vediamo qui chi comanda!” E infatti il giorno dopo mi si presenta il responsabile editoriale della casa editrice Lamberto Sechi…». Lo stesso Pertini disse a Livio Zanetti in un libro-intervista: «Cercai inutilmente di far licenziare uno strano giornalista italoamericano». Nenni nei suoi diari considerava Pertini un violento iracondo.

Quando l’Msi celebrò il suo congresso a Genova nel 1960, fu proprio Pertini ad accendere il fuoco della rivolta sanguinosa dei portuali della Cgil col discorso del “brichettu” (il cerino). E vennero i famigerati “ganci di Genova”, coi quali un governo democratico di centro-destra, a guida Tambroni, con l’appoggio esterno del Msi, fu abbattuto da un’insurrezione violenta nel nome dell’antifascismo. Proverbiale era la poi sua vanità. Ghirelli riferì uno sferzante giudizio di Saragat: «Sandro è un eroe, soprattutto se c’è la televisione». E i suoi abiti firmati, le sue scarpe Gucci mentre predicava il socialismo e il pauperismo… Fiorirono poi tante maldicenze su di lui, capo partigiano e poi leader socialista, che vi risparmio; circolavano giudizi dell’Anpi, di Marco Ramperti… Francesco Damato ricordò: «Nel 1973 Pertini mi comunicò di avere appena cacciato dal proprio ufficio di presidente della Camera il segretario del suo partito, Francesco De Martino. Che gli era andato a proporre di dimettersi per far posto a Moro, in cambio del laticlavio alla morte del primo senatore a vita». Poi fu proprio l’onda emotiva dell’assassinio Moro e l’asse Dc-Pci sulla non-trattativa che portò a eleggerlo due mesi dopo al Quirinale. Infine va ricordato il Pertini che agli operai di Marghera, nel pieno infuriare del terrorismo rosso con larghe scie di sangue, disse: «Sono stato un brigatista rosso anch’io», per poi negare che le Br fossero rosse, giudicandoli solo «briganti», così da recidere il filo rosso tra Br e partigiani. Il presidente di una repubblica flagellata in quegli anni dal terrorismo rosso, si definiva orgoglioso «un brigatista rosso».

(Marcello Veneziani, “Il presidente impertinente”, da “Il Tempo” del 14 marzo 2018; articolo ripreso dal blog di Veneziani).

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  • La Francia ci calpesta? Ovvio: siamo lo zerbino del mondo
    Scritto il 01/4/18 • nella Categoria: idee • (6)


    «In questo momento – scandisce Gianfranco Carpeoro – l’Italia è lo zerbino del mondo». Lo dimostra la disinvoltura con cui la gendarmeria doganale francese ha condotto un’operazione contro i migranti a Bardonecchia, in valle di Susa, su suolo italiano e senza neppure avvisare la nostra polizia. «L’Italia non conta nulla. Ed è tutta colpa è nostra», aggiunge Carpeoro: «Se il problema oggi sono i francesi è solo perché sono confinanti, e quindi ci sono più possibilità che commettano degli abusi. Ma nei confronti dell’Italia gli abusi li fanno tutti». Immediata (ma rituale) la reazione della Farnesina, che ha convocato l’ambasciatore francese. A stretto giro, Parigi difende i gendarmi: hanno agito in base ad accordi transfrontalieri stipulati negli anni ‘90. E’ vero solo a metà, sostiene Roma: gli agenti francesi hanno “invaso”, armi in pugno, un locale assegnato dall’Italia alle Ong che sostengono i migranti in difficoltà, i disperati che tentano di raggiungere la Francia (dove peraltro vige lo “ius soli”). Dal Viminale, Minniti avverte: potremmo stracciare quegli accordi e impedire ai poliziotti francesi di varcare la frontiera italiana. Se Di Maio approva la convocazione dell’ambasciatore di Macron, Salvini va oltre: anziché espellere diplomatici russi dopo l’opaco affare Skripal, dice, sarebbe il caso di allontare da Roma il personale diplomatico francese.
    In diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro taglia corto: inutile sperare che cambi qualcosa, dato il peso internazionale dell’Italia – ormai pari a zero. «D’altro canto, qui da noi, appena uno canta l’inno nazionale lo prendono in giro. Se noi stessi non abbiamo rispetto per quello che siamo, perché ne dovrebbero avere gli altri?». Avvocato e scrittore, nonché esperto simbologo, Carpeoro è un originale osservatore della situazione contemporanea. Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” svela i retroscena (interamente occidentali, atlantici) dell’odierna strategia della tensione internazionale. Punta il dito sulla “sovragestione” occulta del massimo potere, che ogni tanto fa vittime eccellenti anche tra i suoi stessi esponenti – come Nicolas Sarkozy, ora nella bufera. Ma se il caso Sarkozy è un’eccezione, la regola nel Belpaese è un’altra: «L’Italia ha consentito che i suoi massimi esponenti politici fossero trascinati nel fango, senza tutelarli in nulla: ha consentito che dall’estero si pigliassero per il culo il propri leader».
    Proprio di Sarkozy si ricordano le grasse risate alle spalle di Berlusconi, condivise con Angela Merkel, di fronte alla compiacente stampa italiana, deliziata all’idea che i “paesi seri” si prendessero gioco del proprio premier “impresentabile”. «L’Italia è questo», insiste Carpeoro: «Noi per primi abbiamo utilizzato l’odio degli stranieri per “fottere” i nostri stessi connazionali». E’ una storia lunga e ripetitiva, che risale a Craxi e, prima ancora, a Mattei. Nel saggio “Il compasso, il fascio le la mitra”, che illumina gli aspetti più oscuri all’origine del fascismo, Carpero descrive i legami internazionali (Francia, Gran Bretagna) del faccendiere massone Filippo Naldi, uomo-chiave dell’ascesa e poi della caduta di Mussolini, nonché della spietata liquidazione di Giacomo Matteotti, che aveva scoperto (a Londra) la corruzione del sovrano, Vittorio Emanuele III, implicato nello scandalo petrolifero della Sinclair Oil. Sulla stessa nascita della repubblica italiana, Carpeoro ha manifestato perplessità: «Il socialdemocratico Pierluigi Romita ha potuto fare il ministro “a vita” perché suo padre, Giuseppe Romita, ministro dell’interno nel ‘46, custodì il segreto del vero risultato del referendum che ufficialmente bocciò la monarchia».
    Se la repubblica “antifascista” è nata già fragile, il resto l’hanno fatto gli italiani: «Non dobbiamo lamentarci di nulla, perché noi per primi non abbiamo avuto rispetto dell’Italia. Non possiamo pretendere che altri ce l’abbiano: non siamo in questa condizione», aggiunge Carpeoro. «L’italiano accetta questa situazione perché non assoggetta mai la propria individualità agli interessi generali, come invece avviene all’estero». Umiliazioni come quella appena inferta dai gendarmi francesi? Ne usciremo solo «quando cominceremo ad avere più rispetto del nostro Stato e delle nostre istituzioni, senza assoggettarle continuamente a trame e complotti dove abbiamo regolarmente chiesto noi l’aiuto per diffamare leader politici di fronte a fonti di informazioni estere».
    «In questo momento – scandisce Gianfranco Carpeoro – l’Italia è lo zerbino del mondo». Lo dimostra la disinvoltura con cui la gendarmeria doganale francese ha condotto un’operazione contro i migranti a Bardonecchia, in valle di Susa, su suolo italiano e senza neppure avvisare la nostra polizia. «L’Italia non conta nulla. Ed è tutta colpa è nostra», aggiunge Carpeoro: «Se il problema oggi sono i francesi è solo perché sono confinanti, e quindi ci sono più possibilità che commettano degli abusi. Ma nei confronti dell’Italia gli abusi li fanno tutti». Immediata (ma rituale) la reazione della Farnesina, che ha convocato l’ambasciatore francese. A stretto giro, Parigi difende i gendarmi: hanno agito in base ad accordi transfrontalieri stipulati negli anni ‘90. E’ vero solo a metà, sostiene Roma: gli agenti francesi hanno “invaso”, armi in pugno, un locale assegnato dall’Italia alle Ong che assistono i migranti in difficoltà, i disperati che tentano di raggiungere la Francia (dove peraltro vige lo “ius soli”). Dal Viminale, Minniti avverte: potremmo stracciare quegli accordi e impedire ai poliziotti francesi di varcare ancora la frontiera italiana. Se Di Maio approva la convocazione dell’ambasciatore di Macron, Salvini va oltre: anziché espellere diplomatici russi dopo l’opaco affare Skripal, dice, sarebbe il caso di allontare da Roma il personale diplomatico francese.
 

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no».
  • Dominano l’Ue (e temono l’Italia) i poteri che uccisero Moro

    Scritto il 28/3/18 • nella Categoria: idee • (2)


    Aldo Moro viene rapito per toglierci sovranità e libertà. Cosa possiamo fare noi ora per riprendercela? Ormai sono passati 40 anni da quel rapimento, e il quadro è chiaro: è molto più facile giudicare le cose del mondo dopo che il tempo ne ha mostrato il senso. Com’era l’Italia fino a quell’anno? In grande fermento, in grande crescita da tutti i punti di vista. Lati positivi e lati negativi, come il clientelismo, la presenza diffusa della malavita nelle regioni meridionali, un certo malaffare. Una classe imprenditoriale di successo, e una politica effervescente, anche se ammalata di clientelismo e di corruzione. Un insieme di partiti e partitini, logge e loggette e ordini religiosi guidava un paese in modo caotico, ma tale da mantenerlo sostanzialmente libero e sovrano. Proprio il fatto che dalla Seconda Guerra Mondiale era emerso un quadro frazionato, e non un potere unico, o una sola influenza straniera, consentiva sufficienti margini di libertà e di sovranità al paese. Influenze americane e inglesi bilanciate da genuine spinte libertarie, da più di una corrente vaticana e dalla forte presenza comunista. In un gioco faticoso ma sostanzialmente positivo per la nostra indipendenza. L’industria, l’economia, la finanza, la cultura e la scienza italiane avevano trovato possibilità di crescita in un lungo periodo di sostanziale indipendenza. C’erano difetti, anche gravi, ma diciamo che il bilancio era positivo.
    Alcune personalità si erano occupate, pur nella incredibile complicazione del sistema, di mantenere la barra dritta e di non inginocchiarsi ai poteri esterni transnazionali. Alla fine degli anni Settanta, Aldo Moro rappresentava il fulcro di questi delicati equilibri, e ne costituiva una delle principali garanzie. Ma il sistema nazionale indipendente era di ostacolo alle mire di quei poteri che volevano fermare per tempo l’onda di risveglio delle coscienze, e intendevano distruggere i contesti locali e nazionali, per verticalizzare e centralizzare il potere. Prima a livello europeo e poi mondiale. Moro – ma anche altri politici e imprenditori dell’epoca – avevano come faro, come priorità, la sovranità e la libertà del nostro paese, proprio come lezione appresa durante la guerra mondiale. Moro già si opponeva ad un certo modo di avviare l’integrazione europea a sfavore della nostra sovranità, ed era contrario alle pressioni in quel senso. Non fu rapito perché voleva i comunisti al governo, ma perché era il detentore delle chiavi della nostra sovranità, di un certo modo di intendere la politica come senso del dovere. Di un forte limite interno alla corruzione morale della politica e dell’economia. Per questo venne rapito con la messinscena delle Brigate Rosse, da ben altre forze. Forze anti-coscienza e forze lanciate alla distruzione del sistema degli Stati nazionali, per avere a disposizione dei mega-Stati meglio controllabili.
    Dal giorno del rapimento e poi della morte di Moro abbiamo progressivamente perso sovranità e libertà. Prima è stata favorita una enorme corruzione della politica, per poi denunciarla per portare via insieme alla corruzione anche quella politica che assicura libertà e sovranità. E i lupi che hanno rapito Moro sono ora quelli che a forza, brandendo crisi finanziarie e politiche, ci stanno comunque spingendo nell’ovile di un super-Stato europeo orwelliano. E se alla gente non piace questa deriva, si creano proprio per chi si sta risvegliando nuove formazioni-gabbia politiche che prima si presentano come “liberatori” per poi mostrare rapidamente il loro vero volto di strumento gattopardesco dei soliti, vecchi poteri. Cosa è rimasto dopo 40 anni di una classe politica e di una economia indipendenti e sovrane? Molto poco… Ma sovrana è rimasta la nostra coscienza, che proprio guardando a queste vicende può rafforzarsi e non ripetere gli errori. E può lavorare per una società più giusta e amorosa, partendo dai contesti e dalle azioni intorno a noi.
    Il potere si rigonfia e si arrocca? Oppure si maschera da movimenti apparentemente nuovi per spingerci comunque a perdere libertà? E allora noi conquistiamo alla nostra coscienza gli spazi del nostro agire quotidiano. Da questo la vera rivoluzione del futuro. Ed ecco una frase illuminante di Moro: «Questo paese non si salverà e la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se non nascerà un nuovo senso del dovere». Ecco, la classe che lo ha sostituito e che ora ha preso il controllo dello Stato e dell’economia sente come dovere solo quello dell’obbedienza a certi poteri. Lo stesso vale anche per chi si appresta ora a sostituirla, che conferma le solite obbedienze a Nato, finanza, poteri mondialisti, multinazionali. Ma il senso del dovere (connesso con la coscienza) esiste, in Italia, ed è in pieno fermento. In tante persone. Speriamo che esca fuori dalla riserva indiana, dai contenitori politici-gabbia in cui lo stanno mettendo per renderlo inefficace. Aiutiamo un sano ed amoroso senso del dovere a evadere da queste gabbie per diventare influente nella società. E’ una operazione difficile, faticosa, spesso controcorrente, ma si può fare!
    (Fausto Carotenuto, “Aldo Moro viene rapito per toglierci sovranità e libertà”, dal blog “Coscienze in Rete” del 16 marzo 2018).
    Aldo Moro viene rapito per toglierci sovranità e libertà. Cosa possiamo fare noi ora per riprendercela? Ormai sono passati 40 anni da quel rapimento, e il quadro è chiaro: è molto più facile giudicare le cose del mondo dopo che il tempo ne ha mostrato il senso. Com’era l’Italia fino a quell’anno? In grande fermento, in grande crescita da tutti i punti di vista. Lati positivi e lati negativi, come il clientelismo, la presenza diffusa della malavita nelle regioni meridionali, un certo malaffare. Una classe imprenditoriale di successo, e una politica effervescente, anche se ammalata di clientelismo e di corruzione. Un insieme di partiti e partitini, logge e loggette e ordini religiosi guidava un paese in modo caotico, ma tale da mantenerlo sostanzialmente libero e sovrano. Proprio il fatto che dalla Seconda Guerra Mondiale era emerso un quadro frazionato, e non un potere unico, o una sola influenza straniera, consentiva sufficienti margini di libertà e di sovranità al paese. Influenze americane e inglesi bilanciate da genuine spinte libertarie, da più di una corrente vaticana e dalla forte presenza comunista. In un gioco faticoso ma sostanzialmente positivo per la nostra indipendenza. L’industria, l’economia, la finanza, la cultura e la scienza italiane avevano trovato possibilità di crescita in un lungo periodo di sostanziale indipendenza. C’erano difetti, anche gravi, ma diciamo che il bilancio era positivo.
 

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← Video – ME-MMT ospite a “La Gabbia” su La7 (11-09-2013)
Sovranità monetaria, cosa ne pensava la Banca d’Italia nel lontano 1973 →
Come si finanziava l’Italia prima del divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia (Parte 5)
Pubblicato il 15 settembre 2013 di memmttoscana


Quinta puntata della serie dedicata all’analisi storica e politica del mercato del lavoro in Italia (qui trovate la Parte 1; Parte 2; Parte 3 e Parte 4) e alla sua relazione con i vari shock di politica economica occorsi a partire dall’inizio degli anni ottanta: dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, all’indomani dell’entrata italiana nello Sistema Monetario Europeo (SME), fino alle politiche fiscali intraprese dai governi che si sono succeduti; per chiudere poi con lunga fase di crescente liberalizzazione del mercato del lavoro.

Oggi parleremo di come si finanziava il governo (cioè di come il Tesoro finanziava la propria spesa) prima del divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia.

Prima del divorzio i canali di finanziamento del Tesoro presso la Banca d’Italia erano sostanzialmente due. Il primo era il cosiddetto “Conto corrente di Tesoreria”. Esso era un vero e proprio conto corrente bancario detenuto dal Tesoro presso la Banca d’Italia già a partire dal dopoguerra, nel quale come spiega questo documento pubblicato dalla Banca d’Italia (La Banca d’Italia e la Tesoreria dello Stato di Giuseppe Mulone, 2006, p.33):

confluivano giornalmente gli introiti e gli esiti in contanti eseguiti da tutte le sezioni di tesoreria. In un primo tempo, lo sbilancio del conto a debito del Tesoro fu fissato, in cifra fissa, nell’ammontare massimo di 50 miliardi di lire; successivamente (D.lgs. 544/48) la misura massima di indebitamento venne rapportata al 15 per cento del complessivo importo degli originari stati di previsione della spesa approvata dal Parlamento e delle successive variazioni di bilancio. In seguito, la L. 13/12/1964, n. 1333, in relazione alla mutata classificazione delle spese, ridusse tale percentuale al 14 per cento. I provvedimenti del 1948 prevedevano che ogni qual volta dalla situazione mensile della Banca d’Italia risultasse uno sbilancio a debito del Tesoro superiore al limite prestabilito la Banca stessa ne desse comunicazione immediata al Ministro del Tesoro per gli opportuni provvedimenti. Qualora l’indebitamento al Tesoro non fosse rientrato nei limiti di legge entro 20 giorni dalla suddetta comunicazione, la Banca d’Italia non doveva dare corso a ulteriori pagamenti di tesoreria fino a quando, a seguito di introiti o versamenti fatti dallo stesso Tesoro, lo sbilancio del conto corrente non fosse rientrato nel limite. Il meccanismo non mirava in teoria a facilitare il finanziamento della Banca d’Italia al Tesoro, ma solo ad assicurare a quest’ultimo una elasticità di cassa, attraverso la creazione di uno strumento di carattere temporaneo come una linea di credito e che non costituisse un vero e proprio finanziamento.

In pratica, come ricorda l’attuale Presidente della Bce, Mario Draghi, il Tesoro aveva la possibilità di “attingere a un’apertura di credito di conto corrente presso la Banca per il 14 per cento delle spese iscritte in bilancio” (Fonte: L’autonomia della politica monetaria. Una riflessione a trent’anni dalla lettera del Ministro Andreatta al Governatore Ciampi che avviò il “divorzio” tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia, 2011, p. 2-3)

Ossia, “il Tesoro poteva spendere sopra le proprie entrate utilizzando un ‘diritto di scoperto’ sul conto accentrato presso l’Istituto di emissione; diritto consentito fino al 14 per cento della spesa di bilancio” (Fonte: L’indipendenza della Banca d’Italia dal Governo negli anni Ottanta: cause interne e internazionali di Maria Luisa Marinelli, 2011, p. 148)

Il Tesoro quindi poteva cioè finanziare tramite la Banca d’Italia le spese iscritte nel suo bilancio preventivo (quindi non ancora materialmente effettuate) per un ammontare pari al 14 per cento del loro totale. Facciamo un esempio per capire meglio: supponiamo che il Tesoro decidesse di effettuare una spesa per un ammontare totale di 100, iscrivendo questa spesa nel suo bilancio preventivo, la Banca d’Italia a quel punto avrebbe dovuto garantire al Tesoro uno scoperto di conto pari a 14.

Il secondo canale di finanziamento del Tesoro presso la Banca d’Italia fu introdotto con la riforma del mercato dei Bot (Buoni ordinari del Tesoro) del 1975. A partire da quella data, come ricorda il solito Draghi, la Banca d’Italia si era “impegnata ad acquistare alle aste tutti i titoli non collocati presso il pubblico, finanziando quindi gli ampi disavanzi del Tesoro con emissione di base monetaria”. Anche Draghi, dunque, conferma quello che ci ha già detto Andreatta: la Banca d’Italia si impegnava a “garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal primo” (Fonte). E questo era un fatto di enorme importanza per il Tesoro, dal momento che “gli interventi della Banca centrale alle aste dei titoli servivano a mantenere il tasso d’interesse a un livello stabilito, compatibile con l’esigenza del Tesoro di finanziarsi relativamente a buon mercato: semplicemente se il mercato non voleva i titoli al tasso stabilito dal Tesoro, la Banca d’Italia li acquistava, immettendo così moneta fresca nel sistema. Il Tesoro, certo, le pagava interessi, ma la Banca d’Italia poi glieli restituiva, e quindi per il Tesoro questo era debito a costo zero, equivalente al finanziamento di una parte del fabbisogno con moneta, la cosiddetta ‘base monetaria creata dal canale del tesoro’” (Il Tramonto dell’Euro di Alberto Bagnai, 2012, p. 184).

Facciamo un esempio: il Tesoro decide di offrire al mercato l’equivalente di 100 in titoli di Stato a un tasso d’interesse fissato del 3 per cento (faccio notare che il tasso veniva fissato dal Tesoro stesso, non dal mercato come avviene oggi). Ipotizziamo adesso che il mercato avesse deciso di acquistare solamente 80 di questi titoli. Cosa sarebbe successo a questo punto? Si sarebbe scatenato il panico perché non ci sarebbero stati sono i soldi per finanziare la spesa per scuole, ospedali, infrastrutture? Niente affatto. A quel punto la Banca d’Italia sarebbe intervenuta, acquistando gli altri titoli, equivalenti a un controvalore di 20. “E la Banca d’Italia – si chiederà qualcuno – dove prendeva questi soldi?”. Semplice: li creava dal nulla, trasferendoli poi sul conto corrente detenuto dal Tesoro presso di essa. Come conseguenza la Banca avrebbe poi registrato i titoli acquistati alla voce attivi sul suo bilancio e l’incremento equivalente operato sul conto del Tesoro fra i passivi. A questo punto, il Tesoro avrebbe potuto tranquillamente spendere quel denaro, che indovinate un po’ a chi finiva? Ai privati. Sotto forma di reddito diretto (lo stipendio di un impiegato comunale, di un insegnate, di un medico…) o di reddito da interesse percepito dai detentori dei titoli del debito pubblico (parleremo della differenza nella distribuzione di questa spesa).

“Sì, ma in questo modo – si potrebbe obiettare – il Tesoro non si sarebbe indebitato con la Banca d’Italia?”. La risposta è no, dal momento che la vendita di titoli da parte del Tesoro alla propria Banca Centrale, a differenza di quanto erroneamente pensano in molti (ogni riferimento ai signoraggisti è puramente voluto), non costituisce affatto un indebitamento reale verso essa. Come spiega l’economista francese Alain Parguez, infatti, tale procedura costituisce una semplice operazione contabile “fittizia”: “la quota di disavanzo che non è assorbita dalla vendita di obbligazioni [presso il mercato, nda] viene assorbita dalla vendita fittizia di tali obbligazioni alla Banca Centrale. Si tratta della cosiddetta componente ‘monetaria’ del vincolo di bilancio” (Parguez A., The Tragedy of Disciplinary Fiscal Economics or Back to the Ancien Régime, 29th Annual Conference of the Eastern Economic Association, New York, 2003)

Tesoro e Banca d’Italia agiscono, in questo caso, di concerto, ma è il primo a indirizzare l’operato della seconda, stabilendo l’ammontare della spesa, la quantità di titoli da emettere e il tasso d’interesse al quale offrire quei titoli. In quest’ottica, dice sempre Parguez, bisogna considerare “l’esistenza della Banca Centrale come ramo bancario dello Stato. Nel bilancio della Banca Centrale, la controparte del deficit [pubblico, nda] si traduce nell’accumulo sul lato delle attività di titoli del debito pubblico ad un tasso di rendimento fissato dal Tesoro. In questo caso il debito pubblico non è altro che un debito che lo Stato ha con sé stesso” (Parguez A., The true rules of a good management of public finance, mimeo, 2010).

E anche Luigi Spaventa, per citare un noto ed eminente economista italiano, riconosceva candidamente questo fatto già nel lontano 1984. Leggete cosa scriveva: “lo stock di base monetaria creata tramite il canale del Tesoro può essere considerato un debito solo convenzionalmente. Ciò si vede bene qualora si consolidi il Tesoro con la Banca Centrale: in questo caso manca un vero e proprio debito corrispondente alla base monetaria creata dalla Banca d’Italia per conto del Tesoro, e in ciò consiste l’essenza del potere del signoraggio” (Spaventa L., La crescita del debito pubblico in Italia: evoluzione, prospettive e problemi di politica economica, Moneta e Credito, Volume n. 37 , Fascicolo n. 147, 1984).

Il punto fondamentale da capire è che anche governi che dispongono della piena sovranità monetaria tendono a creare assetti istituzionali che (operativamente parlando) separano l’azione svolta dal Tesoro e dalla Banca Centrale (i motivi possono essere molteplici e sicuramente il principale è l’incomprensione di fondo di come funzionano i sistemi monetari, oltre a un preciso orientamento ideologico di fondo contro lo Stato e la sua inefficienza, la spesa pubblica…). Ma, nella sostanza, questa divisione di ruolo non intacca il fatto che il potere di emissione di monetaria, essendo emanazione del potere che Parlamento e Governo esercitano in nome del popolo sovrano, sia nelle mani del Tesoro. E l’Italia prima del divorzio ne era un esempio lampante.

Per capirlo, vediamo passo dopo passo cosa avveniva durante il processo di vendita di titoli di Stato da parte del Tesoro alla Banca d’Italia. Dunque, ipotizziamo che la Banca d’Italia acquistasse dal Tesoro un ammontare di titoli di Stato pari a 100. Questa sarebbe stata la situazione nei rispettivi bilanci: la Banca d’Italia registra fra le attività i titoli di Stato acquistati e fra le passività l’incremento equivalente messo a disposizione sul conto corrente del Tesoro; specularmente il Tesoro metterà al passivo i titoli di Stato venduti alla propria Banca Centrale e all’attivo l’incremento equivalente del suo conto. Ecco un’immagine per esemplificare il tutto:

 

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Notate subito una cosa: se consolidiamo i bilanci di Tesoro e Banca d’Italia di fatto non esiste un indebitamento del Tesoro (come scriveva lo stesso Spaventa), passività e attività si compensano a vicenda; ma, questa semplice operazione contabile “fittizia” (Parguez) permette al Tesoro di creare dal nulla i fondi necessari a finanziare la sua spesa.

Il Tesoro dunque effettua la sua spesa: ipotizziamo che sia equivalente a 100 per costruire una scuola; paga le aziende incaricate di realizzare l’opera accreditando i loro conti correnti detenuti presso le varie banche private (per semplicità ipotizziamo che ci sia una sola banca commerciale che rappresenta di fatto l’aggregato di tutte le banche commerciali esistenti). Ecco la nuova situazione (vi consiglio di aprire l’immagine in una nuova scheda, basta cliccarci sopra):



Andiamo con ordine: il Tesoro ha effettuato la sua spesa e dunque il saldo del suo conto corrente presso la Banca Centrale diventa zero; i soldi spesi dal Tesoro sono finiti ad aziende e famiglie che hanno lavorato per costruire la scuola, che (per ora) decidono di lasciarli in banca sotto forma di depositi; la banca commerciale registra fra le passività il denaro che famiglie e aziende detengono presso di essa, dal momento che quelli sono soldi che la banca “deve” ai propri clienti; allo stesso tempo, però, contemporaneamente all’aumento dei depositi la banca commerciale vede crescere in egual misura anche le sue riserve detenute presso la Banca Centrale (utilizzate per regolare i pagamenti con le altre banche e per far fronte alla riserva obbligatoria).

Facciamo un ulteriore passo avanti: ipotizziamo (realisticamente) che famiglie e imprese non detengano tutte le loro attività sotto forma di depositi ma che decidano di detenere una quota delle loro attività sotto forma dei contanti (circolante), per esempio 10. In questo caso avremo una variazione che coinvolge i bilanci della banca commerciale e della Banca Centrale. Ecco come:



Adesso, arriviamo a un punto cruciale (attenzione: capire questo significa capire uno snodo importante del funzionamento delle operazioni effettuate dalla Banca Centrale!): ipotizziamo che la Banca Centrale imponga un obbligo di riserva alle banche commerciali pari al 10 per cento dei loro depositi. Nel nostro esempio i depositi delle banche commerciali ammontano complessivamente a 90, dunque le banche commerciali saranno obbligate a detenere a riserva obbligatoria 9 di questi 90. La domanda fondamentale a questo punto è: cosa faranno le banche con le riserve in eccesso, quelle che non sono obbligate a detenere presso la Banca Centrale, nel nostro caso 81? Le possibilità sono solamente tre:

1) Le banche commerciali possono mantenere le riserve in eccesso presso la Banca Centrale e percepire un interesse piuttosto modesto su di esse (oggi, per esempio, nell’Eurosistema questo tasso d’interesse, chiamato deposit facility, è pari a zero).

2) Le banche che hanno un eccesso di riserve possono prestarle (sul mercato interbancario) a quelle che hanno carenza di riserve e devono far fronte alla riserva obbligatoria. Ma, come avviene nel nostro esempio, se in aggregato le banche commerciali hanno un eccesso di riserve significa che complessivamente una volta che tutte le banche sono in grado di far fronte all’obbligo di riserva permarrà una situazione di eccesso di liquidità; quindi le banche cercheranno di piazzare queste riserve in eccesso in vista di guadagni maggiori. E qual è la loro unica opzione?

3) Nel momento in cui il rendimento dei titoli di Stato si colloca anche leggermente al di sopra del tasso d’interesse percepito sulle riserve in eccesso detenute presso la Banca Centrale e del tasso d’interesse interbancario (quello al quale le banche si prestano denaro fra di loro), è nell’interesse delle banche commerciali liberarsi di quelle riserve in modo da ottenere un’attività sicura, facilmente scambiabile ed estremamente liquida, con un rendimento maggiore. Ecco quindi che esse saranno ben liete di acquistare dalla Banca Centrale i titoli di Stato (sul perché la Banca decida di venderli parleremo in uno dei prossimo post in cui vedremo come la Banca Centrale fissa il tasso d’interesse di riferimento).

Ecco quindi la nuova situazione che si viene a creare:



Dunque, riepilogando, questa è tutta le sequenza che abbiamo visto:

1) Il Tesoro emette dei titoli di Stato, li vende alla propria Banca Centrale sul cosiddetto mercato primario (la Banca d’Italia fino al 1981 era obbligata ad acquistare tutti quelli non venduti in sede d’asta).

2) Il Tesoro effettua così la propria spesa a favore dei privati (costruzione di ospedali, scuole….) e accredita i conti correnti delle aziende e famiglie incaricate di eseguire il lavoro.

3) Il denaro così immesso nel circuito bancario crea un eccesso di riserve bancarie rispetto agli obblighi di riserva. Le banche commerciali avranno quindi tutto l’interesse ad acquistare sul mercato secondario i titoli precedentemente acquistati dalla Banca d’Italia, dal momento che essi garantiscono un tasso d’interesse maggiore di quello che le banche otterrebbero lasciando le riserve in eccesso parcheggiate presso la Banca Centrale.

Questo meccanismo (che io ho esemplificato) trova piena conferma empirica in un paper pubblicato nel 2012 dalla Banca d’Italia (Monetary policy and fiscal dominance in Italy from the early 1970s to the adoption of the euro: a review di Eugenio Gaiotti e Alessandro Secchi) che a pagina 27 mostra l’ammontare netto di titoli di Stato (cioè la differenza fra i titoli acquistati dalla Banca Centrale e quelli ripagati dal Tesoro alla Banca stessa) acquistati dalla Banca d’Italia sul mercato primario (in blu) e di quelli scambiati sul mercato secondario da parte della Banca d’Italia con le banche commerciali (in grigio).



Come scrivono gli autori: “la figura conferma che gli acquisti di titoli di Stato (al netto, nda) sul mercato primario da parte della Banca d’Italia sono progressivamente aumentati durante gli anni settanta, raggiungendo il picco nel 1981, poi si sono rapidamente ridotti dopo il “divorzio” (cioè da quando la Banca d’Italia non era più costretta a garantire in asta il collocamento integrale dei titoli emessi dal Tesoro, ma poteva intervenire in via facoltativa, nda), sebbene siano rimasti positivi per il resto del decennio. […] Negli anni novanta, dal momento che gli acquisti lordi sul mercato primario scesero a zero, il canale Tesoro distruggeva liquidità per un’ammontare pari ai titoli in scadenza detenuti in portafoglio dalla Banca d’Italia, mentre le operazioni sul mercato aperto creavano liquidità per fini di controllo monetario”.

In sostanza il grafico ci dice che nel momento in cui i titoli detenuti dalla Banca d’Italia giungevano a maturazione il Tesoro emetteva altri titoli, per un ammontare maggiore di quelli a scadenza e li vendeva alla Banca d’Italia. In sostanza il debito veniva ripagato emettendo altro debito che veniva venduto alla Banca d’Italia (ricordiamo che si tratta di una vendita “fittizia”, Parguez) e questo per tutti gli anni settanta e ottanta. Poi, con l’entrata in vigore il primo novembre 1993 del Tratto di Maastricht, viene vietata la “concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da parte delle Banche centrali degli Stati membri [..] a istituzioni o organi della Comunità, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca centrale europea o delle Banche centrali nazionali”. Il Trattato, inoltre, sancisce anche l’abolizione del Conto corrente di Tesoreria.

Come conferma il professore della Bocconi, Luca Fantacci: “Nessuno stato è in grado di ripagare i propri debiti. D’altro canto, gli stati non sono nemmeno tenuti a ripagare i loro debiti. I debiti degli stati, da quando hanno preso la forma di titoli negoziabili sul mercato, ossia da poco più di trecent’anni, non sono più fatti per essere ripagati, bensì per essere continuamente rinnovati e per circolare indefinitamente. I titoli di stato sono emessi, sono acquistati e rivenduti ripetutamente sul mercato e, quando giungono a scadenza, sono rimborsati con i proventi dell’emissione di nuovi titoli” (fonte).

Quindi, fino al 1981 il Tesoro aveva la possibilità di finanziare la propria spesa utilizzando (oltre alla vendita di titoli presso privati) denaro fresco, creato dal nulla dalla Banca d’Italia tramite l’acquisto “fittizio” di titoli emessi dal Tesoro; questo denaro veniva immesso all’interno del settore privato (famiglie e aziende) all’atto della spesa pubblica. In pratica, a livello operativo, la Banca d’Italia “consentiva” semplicemente al Tesoro di monetizzare il proprio disavanzo.

Capite bene che, in un contesto di questo tipo, il potere monetario non era affatto indipendente e sovraordinato agli altri; al contrario, il suo controllo era ben saldo nelle mani del Tesoro, che a sua volta rispondeva al governo, al parlamento e al controllo della magistratura. In altre parole, il suo esercizio avveniva, nonostante tutti i limiti che potesse avere (la corruzione, la casta, i favori al cugino, le ostriche e lo champagne), all’interno del circuito democratico.

Daniele Della Bona
 

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"€SPORTA O MORIRAI" RINFACCIATO NEL COUNTRY REPORT! "ACCETTARE QUESTO STRANO AGGIUSTAMENTO E' STATA UNA FOLLIA"? [/paste:font]


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Poi l'Italia brucia e i viadotti crollano? Accettate virilmente...

1. Un "memorandum" per Pasquetta; una ricorrenza che trascorre, non dico placidamente (dipende dal grado di autonomia di pensiero del singolo rispetto alle ossessive manipolazioni del mainstream mediatico-istituzionale) ma perlomeno in uno stato di quiete.
Esaminiamo perciò, in quieto raccoglimento, alcuni dei dati sull'economia italiana "in breve" offerti dal più recente studio di tale serie compiuto dalla Banca d'Italia: per alcuni potrà risultare una lettura rilassante, in quanto pienamente confermativa delle priorità che un prossimo governo dovrà tentare di affrontare, con auspicabili cambiamenti intelligenti di politiche economico-fiscali.

2. Sceglierò, perciò, pochi dati indicativi, perché eloquenti nel senso appena auspicato.
Anzitutto, cominciamo dall'andamento del PIL scomposto nelle principali componenti della domanda (e già questo rammenta che la domanda - che include la spesa pubblica- è l'aggregato che rappresenta il reddito, ovverosia la capacità di spesa effettuata, prodotto nel Paese):


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3. Si può immediatamente notare come la famosa ripresa (fattoide ormai abbandonato in fase post-elettorale, in favore del rinverdito allarme per la tenuta dei conti fiscali e per il debito pubblico-fatepr€sto!) abbia appena riportato il livello dei consumi delle famiglie non a quello del 2007, cioè pre-crisi, ma appena a quello dell'inizio del 2012.
Cioè relativo all'epoca in cui il combinato delle manovre di Tremonti (iniziate peraltro già nell'estate del 2010 sul versante della spesa pubblica strutturale), insieme con quelle di Monti (legge Fornero e patrimoniale sulle prime case incluse), aveva riportato l'Italia in una recessione dalla quale era già uscita nel 2010.
Per consumi e investimenti, ma anche per le esportazioni, quell'iniziale fragile ripresa del PIL (e dell'occupazione) si può riconoscere nel tracciato soprastante: mancava però, appunto, la drastica contrazione indotta delle importazioni che, come ci dice pure Draghi parlando dell'aggiustamento dentro l'eurozona, si può ottenere solo, come disse Monti, con la sua più brutale schiettezza, "distruggendo la domanda interna" (qui, p.10). Cioè, piombando nella caduta verticale che emerge chiaramente dal grafico, sia i consumi - che inizieranno una lenta e ondivaga ripresa solo nella seconda parte del 2014, che, soprattutto, gli investimenti.
L'andamento di questi ultimi, si noti bene (a prescindere dal concomitante calo forzoso delle "importazioni") scende mentre, sempre nello stesso periodo che va dall'inizio 2012 alla seconda parte del 2014, le esportazioni salgono (non in modo spettacolare, inizialmente, ma prendendo l'abbrivio nel corso del 2013).

4. Cosa stava accadendo? L'aggiustamento stava funzionando nel suo modo peculiare, tanto amato dai sostenitori post-litteram (keynesiana e, soprattutto, costituzionale) del gold standard.
E ha funzionato contraendo repentinamente la struttura stessa del capitale; diminuisce la produzione industriale ad un tale livello che fallimenti e disoccupazione vengono acutizzati, in modo del tutto pro-ciclico, sacrificando il benessere e le speranze di lavoro dignitoso di intere generazioni di italiani.
Ora, questo aggiustamento pro-ciclico, svolto nella selezione schumpeteriana degli alberi nella foresta, non è evidentemente piaciuto alla massa degli elettori, in quanto lavoratori che perdono il lavoro o se lo vedono precarizzare, mentre si tagliano pensioni e sanità pubbliche, e neppure alla grande maggioranza dei piccoli e medi imprenditori, sostanzialmente falcidiati dalla corsa alla sopravvivenza export-led - popolo italiano, o tedesco che sia, "esporta o muori!"-, ma certamente è piaciuto alla grande impresa "internazionalizzata" che, nel frattempo, sempre più, passava nel controllo azionario di mani straniere. Il che costituisce un debole richiamo al consenso elettorale...

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(Rammentiamo che la parallela esortazione di Hitler al popolo tedesco si accompagnò al fatto che il nazismo non rinunciò mai al gold-standard, esattamente come l'Italia mussoliniana).

5. E lo si può vedere dal sottostante ulteriore grafico Bankitalia. dove la "fiducia" che porta a una certa ripresa degli investimenti lordi non implica una corrispondente crescita complessiva della produzione industriale.
Si badi bene: s'è trattato, evidentemente, di una propensione alla mera ricostituzione di capitale fisico da sostituire, in vista del mantenimento della produzione (solo) esportativa, in luogo della chiusura (darwinistica) che continuava a incombere su tutti gli altri. Una "fiducia" che anticipa, già nel 2013, la vera e propria ripresa (ma sempre moderata) di investimenti e consumi (del 2014).
L'andamento della produzione industriale che ne consegue, perciò, non registra certo un incremento spettacolare, anzi; a malapena, ad oggi, siamo ai livelli del "fatidico" inizio del 2012; segno che la riduzione della capacità industriale si struttura sulla nuova linea della compressione della domanda interna, mentre la fiducia cresce in divergenza dalla stessa produzione industriale, segno che i soggetti che esprimono questa fiducia coincidono con i sopravvissuti nella foresta e non con la platea complessiva degli imprenditori che, prima della crisi, potevano credere di appartenere ad...un'unitaria categoria contrassegnata da interessi omogenei:


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5.1. Da rimarcare ancora e a conferma: la produzione industriale, allo stato attuale, è appena tornata ai livelli dell'inizio 2012, segno che, dopo circa 6 anni, la deindustrializzazione ha lasciato il suo retaggio strutturale esattamente come voluto. Sull'aumento delle esportazioni lasciamo la parola (e che parola! Come vedremo...) al Country Report appena sfornato dalla Commissione...

6. Molti altri dati, possono essere considerati, con un minimo di ragionevolezza, e conoscendo i caposaldi della dottrina politico-filosofica del neo-liberismo imposto ai paesi dell'eurozona, nel perfetto schema dell'ordine internazionale del mercato.
E questi dati, specie sull'andamento della spesa pubblica in termini reali, nei settori più nevralgici per la qualità di vita dei cittadini-elettori, li trovate, oltre che nello studio di Bankitalia, anche in questo del Senato, che tiene conto dell'ultima nota di aggiornamento al Def: alcuni dati sono impressionanti, per un lettore dotato di normale senso comune e ordinarie competenze economiche, circa la correlazione tra prolungata contrazione della spesa pubblica, in termini reali e anche nominali, e salute o tenuta del territorio nelle sue più fondamentali infrastrutture di prevalente interesse generale. Come quelli che trovate nella figura 15 dello studio da ultimo linkato, e che dipingono icasticamente (sempre per chi è dotato di buon senso) il futuro di tante categorie di cittadini e lavoratori, come, esemplificando, i pendolari - sempre più precarizzati- che dovranno usare ferrovie e viabilità pubblica senza rischiare la vita...

7. Un addendum conclusivo, però, merita di essere compiuto: Bankitalia ci fornisce l'andamento della posizione patrimoniale netta sull'estero e delle partite correnti della bilancia dei pagamenti:

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Nota a margine dell'andamento delle partite correnti: la deflazione salariale da aggiustamento fiscale "giova" alle esportazioni (di merci); ma, naturalmente, non al volume complessivo della coeva produzione industriale, come abbiamo visto e, appunto, dimostra uno stato di salute industriale vitale solo nelle esportazioni.
Il QE di Draghi, a sua volta, ha giovato un pochino al saldo della partita dei "redditi primari" (rimesse dei lavoratori italiani all'estero e compensi dal capitale nazionale investito sempre all'estero; v. poi Country Report della Commissione Ue per il 2018) mentre rimane in deficit e quasi invariata la voce dei "redditi secondari": puri trasferimenti senza contropartita: pensioni dello Stato italiano erogate a non residenti, aiuti internazionali vari - tra cui anche le missioni militari e navali all'estero, di ogni tipo-, e, last but not least, il sistematico trasferimento di risorse all'Ue, in qualità di contributori netti al suo bilancio.

8. La PNE, per suo conto, risulta, allo stato, inferiore al 10% su PIL; e persino l'ultimo Country Report della Commissione Ue, sull'Italia, dà atto che sia solo "lievemente negativa": e ci mancherebbe.
In questo recente paper, infatti, Eurostat, prende atto (senza fare stranamente un classifica) che l'Italia, entro l'eurozona, sta messa certamente meglio di quasi tutti gli altri paesi-membri (...virtuosi? Si vedano, in primis, l'Irlanda, ma anche la Spagna-facciamocome e il Portogallo...), inclusa la Francia (che, pure, può effettuare sistematicamente IDE a credito bancario nazionale politicamente illimitato), e con la sola (ovvia) eccezione di Germania-Olanda-Lussemburgo-Austria e di qualche altro paradiso fiscale societario...

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9. Ed è utile rammentare che, in linea di logica economico-finanziaria, lo spread (sui prezzi di collocamento del debito pubblico) dipende in modo preponderante dalla posizione netta sull'estero.
Empiricamente: una forte posizione debitoria patrimoniale corrisponde anche ad una costante ricattabilità di un'economia nazionale, e delle sue istituzioni formalmente democratiche, da parte degli investitori esteri che possono ritirare i capitali se insoddisfatti delle condizioni istituzionali da loro auspicate, e imporre una forte austerità fiscale deflattiva a loro conveniente, che conduce, a sua volta, all'aumento di salvataggi bancari pubblici da insolvenze diffuse nonché all'aumento parallelo della spesa pubblica per varie forme di stabilizzatori automatici per la disoccupazione-precarizzazione, funzionali al costo del lavoro ritenuto "competitivo".
E questo dà luogo ad aumento dei deficit pubblici del paese in posizione negativa, simultaneo al drenaggio di liquidità, con conseguente ricorso crescente, e a tassi sempre più alti, del collocamento del debito pubblico sui "mercati".

10. Il Country Report (pag. 10), peraltro, sottolinea una prospettiva curiosa e quasi sorprendente (almeno per la linea tenuta dall'Italia dal 2011 in esecuzione dell'euro-aggiustamento deindustrializzante e esterocontrollato, quanto alle politiche di crescita "export-led only").
Ve lo riporto perché suscita un certo stupore (sia pure dovendo essere contestualizzato):

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11. Tra l'ultima frase ("l'avanzo delle partite correnti rimane superiore al livello suggerito dai fondamentali (+ 0.5% del PIL), il che è in contrasto con un disavanzo dello 0,2% che sarebbe sufficiente per mantenere stabile la posizione patrimoniale sull'estero dell'Italia") e la nota 8 ("il saldo delle partite correnti corretto per il ciclo (o saldo sottostante) in percentuale del PIL è il saldo delle partite correnti che prevarrebbe se l'economia nazionale i suoi maggiori 42 partner commerciali si trovassero al loro PIL potenziale..."), si assiste all'€spressione di un ossimoro ideologico.
Ma allora, visto che il vincolo esterno può anche essere visto in modo Kaldoriano, alla Germania e all'Olanda cosa dovrebbe essere detto? Anzi: prescritto (e sanzionato veramente)?
L'effetto di un invito a essere meno export-led mentre, (nello stesso Report!), si predica il pareggio di bilancio (cfr; pagg. 20 e ss, dove i tagli strutturali della spesa pubblica sono giustificati per il...bene della "produttività") per rispettare la "regola del debito" pubblico, risulta quasi comico, se non fosse tragico: cioè cornuti e mazziati. Ad personam, però...

Pubblicato da Quarantotto a 15:19 4 commenti: Link a questo post
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WALL STREET: IL PEGGIORE PESCE DI APRILE DALLA GRANDE DEPRESSIONE!
Scritto il 3 aprile 2018 alle 10:40 da icebergfinanza

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Nulla di particolare a Wall Street nel giorno di Pasquetta, un po di panico qui e la, come ai bei tempi della Grande Depressione…

A Wall Street il peggiore inizio di aprile dalla Grande Depressione
Il ritorno di venti di guerre commerciali e il continuo sell-off dei titoli tecnologici hanno provocato a Wall Street il peggiore inizio di aprile dalla Grande Depressione degli anni ’30 del secolo scorso. Il tutto è successo dopo un marzo che è stato per gli indici americani il mese peggiore dal gennaio 2016. Inoltre, il primo trimestre del 2018 è stato per il DJIA e l’S&P 500 il primo in calo dopo 9 di fila in aumento… America 24

Gli americani sono speciali nel ricordare la storia, non hanno davvero tutti i torti visto che una nuova Grande Depressione si sta avvicinando.

Nulla di particolare, nessuna sorpresa, per gli amanti del protezionismo, la Cina reagisce come è giusto che sia e decide di …

La Cina reagisce ai dazi di Trump: tariffe su 128 prodotti Usa

La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina è iniziata davvero: con l’entrata in vigore a partire da lunedì mattina di tariffe fino al 25% su 128 prodotti statunitensi importati dalla Cina, tra cui carne di maiale e frutta, per un valore totale 3 miliardi di dollari. È la risposta alla “mossa protezionistica” decisa dal presidente Donald Trump, dazi su acciaio e alluminio varati a marzo. Pechino, riferisce una nota del ministero del Commercio cinese, cerca così di «salvaguardare gli interessi della Cina e bilanciare le perdite» legate alle nuove tariffe Usa.

Nello stesso tempo, si sollecita Washington «a revocare le misure protettive che violano le regole del Wto» e a «riportare i rapporti bilaterali sui relativi prodotti alla normalità». Ma dall’altro fronte sta per arrivare un’altra bordata durissima: entro venerdì è atteso l’annuncio di ulteriori dazi su importazioni cinesi del settore hi-tech, beni di un valore di 50/60 miliardi di dollari.

Ma noi queste cose è oltre un anno che ve le raccontiamo osservando la storia, l’analisi empirica.

Chi sostiene che una guerra commerciale oggi è come una tempesta in un bicchiere d’acqua dovrebbe sciacquarsi la bocca, con lo stesso bicchiere. L’unico problema è che Trump, Ross e Navarro sono dei perfetti ignoranti, se vogliono vincere una guerra commerciale devono mirare ai settori giusti e in realtà stanno sparando a caso!

Fanno sorridere i burocrati europei quando chiedono a Trump di essere esentati sempre e comunque dai dazi, l’Europa è il continente più protezionista al mondo.

Qui invece il buon Donald ha il nostro più totale sostegno, il cancro Amazon va estirpato dall’economia reale…

Trump di nuovo contro Amazon: fa perdere denaro alle Poste

Ma davvero c’è ancora qualcuno che crede ai dati farlocchi alle “fake news” istituzionali sulla situazione economica globale, date un’occhiata qui sotto…

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ISM manifatturiero farlocco che scende, spesa per le costruzioni sempre più anemica…

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… ma soprattutto i nostri tesorucci che sfondano l’inimmaginabile rendimento del 3 % e arrivano sino a 2,95 punti.



Grazie al nostro amico PuntoSella… una panoramica della dinamica EUR/USD…

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clicca sull’immagine per ingrandire

…il nostro obiettivo finale lo conoscete, tempo al tempo, ogni cosa a suo tempo sotto il cielo!

A proposito di tesorucci, mettetevi comodi, prendete pop-corn e bibita e godetevi lo spettacolo, se non avete capito qualcosa, chiamate il nostro Machiavelli.

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Prima però rileggetevi questo articolo del Sole24OreDOPO…

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Titoli di Stato Usa alla svolta del 3%: pronta la rotazione degli asset…
Poi dopo una risata, continuate la lettura soprattutto con questo…

Così i titoli di Stato Usa sfidano le leggi della gravità (e della logica…)
l più grande mercato mondiale di titoli di Stato, quello statunitense, sembra impazzito. Nel senso che fa esattamente il contrario di quello che dovrebbe, almeno secondo logica. Vediamo cosa sta succedendo: dall’inizio dell’anno, il rendimento del decennale statunitense era salito vertiginosamente fino a sfiorare la mitica soglia del 3 per cento. Logico, in uno scenario di rialzo dei tassi e di robusta crescita economica.

Logico cosa? Il buon Manzoni soleva dire che il buonsenso c’era ma se ne stava nascosto per paura del bene comune.

Nella finanza, invece la logica è il senso del gregge, ma la logica ad uso e consumo proprio, bastava studiare la realtà e la storia per capire che il mercato stava andando nella direzione sbagliata.

Quando la scorsa settimana la Fed guidata da un Powell più “falco” di quanto previsto alza i tassi dello 0,25% e conferma altri due aumenti per quest’anno (oltre a tre ulteriori nel 2019) tutti gli analisti obbligazionari si aspettano il trionfale sfondamento della soglia del 3 per cento. Invece esattamente il contrario: i rendimenti dei decennali Usa anziché salire iniziano a scendere, planando sotto quota 2,8% (ai minimi da due mesi) tra lo sgomento dei trader obbligazionari e di quasi tutte le previsioni delle banche d’investimento. I grafici dei titoli di Stato Usa insomma puntano verso l’alto e i rendimenti verso il basso (ricordiamo che i prezzi sono inversamente correlati ai rendimenti).

Che cosa sta succedendo? Le possibili spiegazioni sono almeno tre. Iniziamo dalla prima: il meccanismo di avversione al rischio. Secondo alcuni analisti i titoli di Stato sono in rally perché rappresentano un “porto sicuro” durante i crolli di Borsa. Analisi classica ed evergreen ma che lascia un po’ il tempo che trova, anche perché non si capisce per quale motivo i rendimenti dei T-Bond si ritrovino puntualmente al di sotto delle previsioni, sia quando l’azionario sale che quando scende.

Aria fritta!

La seconda possibile spiegazione è che i bond Usa stiano anticipando lo scenario di un rallentamento dell’economia più grande del mondo, e quindi di uno stop all’aumento dei tassi Fed. Ipotesi allarmante, legata in parte alla parziale delusione dei “surprise index” (gli indici che segnalano le sorprese positive provenienti dai dati macroeconomici) e in parte a una dinamica dell’inflazione meno vigorosa di quanto suggerisca la logica in fasi di crescita economica come queste. Ma sappiamo bene che l’innovazione tecnologica potrebbe aver mutato per sempre il comportamento dell’inflazione, mentre i “surprise index” hanno deluso soprattutto in Europa, non negli States.

Questa è la realtà, i “surprise index” in America sono fantasie, dati farlocchi, invenzioni!

La terza spiegazione è la più suggestiva, e forse la più convincente. Arriva dalla penna di Mohamed El-Erian, capoeconomista di Allianz, ex ceo di Pimco e editorialista di spicco del Financial Times, nonché una delle menti più brillanti di Wall Street in campo obbligazionario. Secondo El-Erian la ragione dello strano comportamento dei titoli di Stato Usa risiede negli enormi flussi di acquisti provenienti dai grandi investitori istituzionali mondiali, che lui conosce molto bene: colossali fondi pensione, giganti del mondo assicurativo e così via. I quali agiscono in modo perfettamente razionale.

Elementare Watson, ma lo fanno perché non c’è alternativa alla fine di un ciclo economico!

Sul fronte azionario, gli istituzionali hanno incassato profitti straordinarigrazie a un rally borsistico a tre cifre percentuali, lungo ben nove anni. Ora vogliono soprattutto una cosa: evitare di perdere i soldi guadagnati. E qual è il posto più sicuro dove parcheggiare i profitti che serviranno a pagare le future pensioni nei Paesi sviluppati? L’obbligazionario governativo statunitense. Che acquistano a mani basse, alimentando il rally.

Non è la prima volta che le Borse si comportano in modo strano quest’anno.Meno di due mesi fa, l’azionario statunitense è crollato per una buona notizia (l’aumento dell’inflazione salariale, spia di una robusta crescita economica) anziché per una cattiva. Ora invece la Federal Reserve alza i tassi ma i titoli di Stato Usa si comportano come se li avesse tagliati. Fare previsioni sui mercati è sempre stato difficile, ma ora lo è più che mai.

Non aggiungo altro il nostro Machiavelli si sta sbellicando dalle risate…

Dopo il suo ritorno dall’America nel 1493, Colombo fu invitato ad una cena in suo onore dal Cardinale Mendoza. Qui alcuni gentiluomini spagnoli cercarono di sminuire la sua impresa dicendo che la scoperta del Nuovo Mondo non fosse stata poi così difficile, e che chiunque sarebbe potuto riuscirci.

Udito questo, Colombo sfidò i commensali a un’impresa altrettanto facile: far stare un uovo dritto sul tavolo.

Vennero fatti numerosi tentativi, ma nessuno riuscì a realizzare quanto richiesto. Convinti finalmente che si trattasse di un problema insolubile, i presenti pregarono Colombo stesso di cimentarsi nell’impresa. Questi si limitò a praticare una lieve ammaccatura all’estremità dell’uovo, picchiandolo leggermente contro il tavolo dalla parte più larga, e l’uovo rimase dritto. Quando gli astanti protestarono dicendo che lo stesso avrebbero potuto fare anche loro, Colombo rispose:

“La differenza, signori miei, è che voi avreste potuto farlo, io invece l’ho fatto!”

Da tempo suggerisco pazienza e perseveranza, ribadisco che questo è l’ultimo viaggio, il più esaltante di tutti, attraverso la consapevolezza, la conoscenza della storia e la protezione dei propri risparmi.

Di questi tempi dopo il buco Lehman del 2009 ora anche la voragine immobiliare in quel che resta delle Poste Italiane… Caso Vegagest, due ipotesi e un silenzio assordante
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attualita' aprile 4, 2018 posted by Fabio Lugano
EUROSTAT CONFERMA CHE GENTILONI DISSE DELLE BALLE


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Un’immagine d’archivio del 3 agosto 2005 che mostra l’allora ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni. MARTINA CRISTOFANI/ANSA

Cari amici,

l’Eurostat ha pubblicato vari dati relativi alla situazione economica italiana, certificando un dato che gli italiani già conoscevano: Gentiloni e Padoan hanno raccontato palle.

La soluzione del Governo per le due banche popolari venete ha pesato moltissimo sul bilancio dello stato e sul debito, al contrario di quanto ha voluto far credere il governo ormai dimesso: i deficit è aumentato di 4,6 miliardi di euro, a causa delle dazioni diretta a Banca Intesa affinchè acquisisse la parte “Buona” delle due banche, ed il debito è aumentato di 11,2 , per le garanzie sui crediti sempre concesse all’istituto torinese. Insomma alla dine Padoan porta il deficit al 2,1 – 2,2%, ed il debito al 131,8%.

Questa vicenda presenta due scandali. Il primo un Presidente del Consiglio che, 3 giorni prima delle elezioni, ha raccontato delle solenni palle per motivi elettorali.

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Il secondo che tutto questo debito, tutto questo deficit, è stato creato senza nessun vantaggio per alcuno, che non fosse Banca Intesa. Infatti:

  • gli azionisti BPVI e VB non hanno avuto nessun vantaggio, anzi sono stati AZZERATI perfino nella tutela dei loro diritti;
  • gli obbligazionisti non hanno avuto tutela diversa che quella garantita dalle leggi preesistenti;
  • per i correntisti non è cambiato assolutamente nulla, perchè comunque sarebbero stati coperti sino a 100 mila euro.
Quindi lo Stato penalizza il proprio bilancio, generando tasse future e taglio nei servizi, per cosa ? Per favorire una parte privata. Facciamo presente che la nazionalizzazione delle banche, per lo meno, avrebbe lasciato il pubblico proprietario degli istituti ed avrebbe tutelato la legalità complessiva, permettendo agli azionisti truffati di rifarsi. Invece si è preferito creare 11 miliardi di debito per fare un regalo ad un privato. Ringraziamo tutti il presidente Gentiloni ed il ministro Padoan.
 

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