PER COMBATTERE L'ANSIA MI HANNO CONSIGLIATO DI CAMMINARE FINCHE' NON MI PASSA. DEVO DIRE CHE STA COMINCIANDO A FUNZIONARE, VIENNA E' BELLISSIMA. (1 Viewer)

Val

Torniamo alla LIRA
Tutti a tifare viva Conte, abbasso Conte, forza Meloni, morte a Salvini.

Ma chi se ne accorge, quando certe cose accadono e il mondo finisce per cambiare passo?

Lì, per lì, in pochi: per decenni – dice un’autorità culturale come lo storico Alessandro Barbero –
abbiamo creduto alla bufala del medioevo, un tunnel di secoli oscuri, quando invece non s’era mai vista, tutta insieme,
una tale esplosione di progressi, conquiste, signorie illuminate e benessere socialmente percepito.

Mille anni, di cui sappiamo ancora pochissimo.

Una sola, grande certezza: tutto quello che credevamo di sapere, dice Barbero, era inesatto, se non falso.

Indicatori esemplari: la leggenda barbarica dello jus primae noctis e, meglio ancora, quella del terrore millenaristico;
a pochi mesi dal fatidico Anno Mille, si firmavano regolarmente carte e contratti pluriennali, come se il mondo non dovesse finire mai.

E se questo vale per l’epoca medievale, oltre che per tanti altri periodi storici
(di cui non esistono fonti dirette, ma solo storiografiche e quindi fatalmente soggettive),
non potrebbe valere anche per oggi?


Lo scorso 26 aprile l’Italia ha perso uno dei suoi osservatori più scomodi, Giulietto Chiesa:
emarginato come complottista, quasi che i complotti non esistessero.

Davvero?

La Guerra del Vietnam esplose dopo l’incidente del Golfo del Tonchino; nel John Kennedy 1964,
gli Usa accusarono la marina nordvietnamita di aver attaccato l’incrociatore statunitense Uss Maddox.

Ci ha messo quarant’anni, la verità, a emergere: nel 2005, tramite la Nsa, l’intelligence di Washington
ha finalmente ammesso che quello scontro navale non era mai avvenuto:

era solo una fake news, per inscenare il casus belli.

Molto più recentemente, siamo stati capaci di invadere l’Iraq, disastrando un’area
che poi sarebbe diventata il brodo di coltura del cosiddetto terrorismo “islamico”,
grazie alla maxi-bufala mondiale delle inesistenti armi di distruzione di massa in dotazione a Saddam Hussein.

Era anche quella un’invenzione, rilanciata in mondovisione dalla “fialetta di antrace” agitata all’Onu da Colin Powell.



La preparazione della realtà virtuale da somministrare al pubblico era stata accuratissima, come sempre.

Il britannico Tony Blair, in primis, si era dato da fare per accreditare la bufala, in collaborazione con l’intelligence (anche italiana)
che fabbricò la falsa pista del Nigergate, in base alla quale il regime di Baghdad – già armato dagli Usa contro l’Iran, anni prima –
avrebbe cercato di approvvigionarsi di uranio in quel paese africano.

Non che qualcuno possa rimpiangere (a parte molti iracheni, forse) un regime dispotico come quello di Saddam.

Ma possibile che loro, i “padroni Colin Powell all'Onu del discorso”,
debbano ricorrere in modo sistematico alla manipolazione, fondata su clamorose menzogne,
per ottenere il consenso necessario a supportare grandi cambiamenti?

Non potrebbero autorizzare i nostri governanti a dire semplicemente la verità, ancorché sgradevole?

Gliene manca il coraggio?


Retropensiero: se tanto impegno viene profuso per raccontare il contrario del vero,
non sorge il sospetto che la nostra opinione in fondo conti parecchio, nonostante si cerchi di declassarla a fenomeno irrilevante?

Certo, votiamo inutilmente: i partiti – tutti – poi si piegano sempre a direttive sovrastanti.

Parla da sola la vicenda incresciosa dei 5 Stelle, che hanno tradito per intero le loro promesse elettorali.

Idem, la storia tutta italiana dei recenti referendum: regolarmente celebrati, ma poi ignorati;

il risultato quasi mai applicato, spesso annacquato se non aggirato e sostanzialmente azzerato.

Eppure: se il cosiddetto "potere" ormai scavalca impunemente la "democrazia", mortificandola e sterilizzandola nei suoi effetti,
perché si affanna così tanto a imporci la sua narrazione disonesta?

Non sarà che teme, nonostante tutto, che prima o poi possa insorgere una reazione, da parte del pubblico?


Negli anni Ottanta, agli italiani è stato raccontato che era meglio che Bankitalia smettesse di finanziare direttamente lo Stato, a costo zero:
era più trendy avvalersi della finanza privata speculativa, pagandole i salatissimi interessi che fecero esplodere di colpo il famoso debito pubblico.


Negli anni Novanta, i medesimi narratori hanno cantato le magnifiche sorti e progressive
della sottospecie deforme di Unione Europea fabbricata a Maastricht, quella che oggi impedisce all’Italia
– devastata dalle conseguenze del lockdown – di rimettere in piedi le aziende che non riescono a riaprire
o che chiuderanno tra poco, quelle che licenzieranno i dipendenti in autunno, quelle che scapperanno all’estero
o, meglio ancora, si svenderanno agli attuali committenti esteri, specie tedeschi,
prima di cedere il timone al capitale cinese o alla mafia nostrana, che già pregusta il banchetto.


Tutti a ridere, nel 2002, quando Giulietto Chiesa scrisse – per primo – che non era possibile credere alla versione ufficiale dell’11 Settembre.

Ora la voglia di ridere è passata, dopo che i pompieri di New York hanno cercato di far riaprire le indagini,
in base alle loro testimonianze personali e alle evidenze scientifiche schiaccianti fornite
dai tremila ingegneri e architetti americani del comitato “Verità sull’11 Settembre”:

le torri di Manhattan non potevano crollare in quel modo, su sè stesse ed in pochi secondi,
se non fossero state “minate” ben prima dell’impatto degli aerei. Una cosa però è la verità, e un’altra il suo sdoganamento.

Tanto per cominciare, certe verità sono troppo indigeste: se anche venissimo scoperti, dicevano i nazisti,
nessuno crederà mai che siamo stati capaci di inventarci una cosa come Auschwitz.

E’ un fatto che la mente umana, semplicemente, non accetta.

La prima risposta è invariabile: non può essere vero, mi rifiuto di crederlo.


Il tempo è galantuomo, si dice; solo che se la prende comoda.

Caso classico: John Kennedy, assassinato a Dallas nel 1963.

Tuttora, le fonti manistream – da Wikipedia in giù – seguitano a incolpare Lee Harvey Oswald,
presentato come una specie di squilibrato solitario, confinando nelle “ipotesi cospirazionistiche” la nuda verità dei fatti,
fiutata da subito ma emersa solo Howard Hunt quando l’allora numero due della Cia, Howard Hunt,
scomparso nel 2007, ha confessato in punto di morte che quello di Dallas fu un complotto del Deep State, attuato attraverso varie complicità:

la Cia, l’Fbi, la manovalanza della mafia di Chicago e ben tre futuri presidenti degli Stati Uniti (Lyndon Johnson, Richard Nixon e George Bush).

A sparare a Kennedy non fu Oswald, ma il mafioso Chuck Nicoletti.

Ma a far saltare il cervello al presidente della New Frontier fu il killer di riserva, James Files:
reo confesso, tuttora detenuto per altri reati e mai interrogato, su quei fatti, da nessun magistrato.


Di Kennedy ha riparlato due mesi fa il grande Bob Dylan, con l’epico brano “Murder Most Foul”.

L’omicidio di Dallas messo in relazione addirittura con il coronavirus: come se la pandemia che ha paralizzato il mondo
nascesse da una regia occulta, direttamente ispirata dagli eredi dei criminali al potere che organizzarono il complotto costato la vita a Jfk.

Il 19 giugno è finalmente uscito “Rough and Rowdy Ways”, il disco che contiene la denuncia kennedyana:
non si contano gli elogi che la grande stampa profonde per quest’opera musicale del 79enne Premio Nobel per la Letteratura,
ma nessun giornalista s’è peritato di scavare tra le righe per decifrare il codice esoterico Bob Dylan
attraverso cui Dylan lancia un’accusa esplicita, accennando al 33esimo grado che contrassegnava i massoni oligarchici e reazionari
che vollero spegnere il sogno di un mondo libero, esattamente mezzo secolo fa.


Quanto ci vorrà, ancora, prima che un nuovo Howard Hunt confessi il suo ruolo nella strage dell’11 Settembre?

Meno di quanto si pensi, forse, calcolando la velocità della crisi in corso e il prestigio dei personaggi che, in vario modo
– da Dylan a Mario Draghi, fino a Christine Lagarde e Joseph Stiglitz – si stanno mettendo di traverso,
rispetto al copione (emergenza, dunque crisi) messo in scena a livello planetario con la presunta pandemia
frettolosamente dichiarata da una strana Oms, supportata dalla Cina.

Proprio l’Oms ha provato a imporre ovunque il modello Wuhan, lockdown e coprifuoco, anche a paesi come l’Italia:
non avendo più sovrantià finanziaria, a differenza di Pechino, noi non ce lo possiamo proprio permettere,
un blocco di tre mesi che già quest’anno costerà 15 punti di Pil e chissà quanti milioni di disoccupati.

Questo, almeno, è quello che sta finalmente emergendo, giorno per giorno, agli occhi di tutti:

non è stato un affare, rinunciare a Bankitalia.

E non era d’oro, la promessa europea che i super-privatizzatori come Prodi avevano fatto luccicare.


Unire i puntini?

Non è mai facilissimo, specie in mezzo al frastuono assordante di un mainstream che tace l’essenziale
e ridonda di gossip politico irrilevante. In primo piano, ora e sempre, la superficie epidermica della realtà:
viene esibita la rozzezza retorica e spesso inaccettabile di Donald Trump, mettendo in ombra il cuore del fenomeno.


Un vero e proprio incidente della storia, che ha proiettato alla Casa Bianca un outsider incontrollabile,
capace di imporre uno stop alla super-globalizzazione che ha schiantato i lavoratori americani.

Istrionico, ambiguo, già aggregato ai democratici, nel 2016 Trump s’è travestito da repubblicano sui generis,
riuscendo a fermare il pericolo pubblico numero uno, Hillary Clinton, grande sponsor della nuova guerra fredda contro la Russia.

Poi Trump – teoricamente, “di destra” – ha fatto cose che la sinistra (americana ed Trump europea)
si poteva solo sognare, negli ultimi decenni: ha dimezzato le tasse e raddoppiato il deficit.

Risultato: disoccupazione azzerata.

Infine, ha imposto uno storico stop – con i dazi – alla creatura preferita dei globalizzatori atlantici più reazionari e guerrafondai: la Cina.


Manco a dirlo, l’emergenza Covid è esplosa a Wuhan un minuto dopo il “niet” inflitto da Trump a Xi Jinping,
facendo dilagare la crisi giusto alla vigilia delle presidenziali americane.


Come dire: è in gioco qualcosa di enorme, due versioni del mondo.

La prima ce l’hanno fatta intravedere anche i prestanome italiani del governo Conte,
peraltro non ostacolati minimamente dall’altrettanto farsesca opposizione:

lockdown e niente aiuti, repressione orwelliana, distanziamento, mascherine, panico amplificato (bare sui camion militari)
e cure efficaci contro il Covid regolarmente oscurate, emarginando i medici che per primi erano riusciti a sconfiggere il nuovo morbo,
trasformandolo in malattia normalmente curabile.

La seconda ipotesi di mondo – quella per la quale morì Kennedy – è tutta da difendere e da ricostruire,
dopo il “golpe” mondiale della finanza neoliberista che s’è inventata persino l’eurocrazia stracciona
che impoverisce i popoli e oggi li avvelena, mettendoli l’uno contro l’altro.

Di Nuova Frontiera, probabilmente, si può riparlare solo se rivince Trump:
se invece perde, prepariamoci a farci spiegare da Bill Gates come sarà la nostra vita domani.
 

Val

Torniamo alla LIRA
“L’antirazzismo non è più la difesa della pari dignità delle persone, ma un’ideologia, una visione del mondo”, scrive il filosofo francese Alain Finkielkraut.


“L’antirazzismo si è trasformato. (...) All’ora della grande migrazione non si tratta più di accogliere i nuovi arrivati
integrandoli nella civiltà europea, ma di esporre i difetti di questa civiltà”.


Finkielkraut ha definito “l’autorazzismo” come “la patologia più sconcertante e grottesca della nostra epoca”.


La sua capitale è Londra.


Topple the racists“ (“Abbatti i razzisti”) è una mappa con sessanta statue in trenta città inglesi
di cui si chiede l’abbattimento in omaggio al movimento nato negli Stati Uniti.

A Bristol, una folla ha gettato in acqua la statua del filantropo e proprietario di schiavi Edward Colston.

Poi, le proteste si sono spostate a Londra con atti di vandalismo ai danni delle statue
di Winston Churchill, del Mahatma Gandhi e di Abraham Lincoln.

E il sindaco, Sadiq Khan, ha annunciato una commissione sulla rimozione di statue
che non riflettono i “valori di Londra”, dopo aver rimosso il monumento dedicato a Robert Milligan,
ricco mercante scozzese di schiavi, che era posto fuori dal Museum of London Docklands.

Ci sono i nomi di altre due statue da rimuovere da due ospedali londinesi.


Vandalismo e odio di sé stanno rapidamente guadagnando terreno.

L’epopea delle grandi scoperte associate all’impero britannico è diventata vergognosa.

Le proteste non riguardano la schiavitù.

Oggi, nessuno nel Regno Unito si rallegrerebbe per quel periodo.

È piuttosto un appello all’epurazione culturale di tutte le opere che contraddicono il nuovo mantra: “diversità”.


“Una nuova forma di talebani è nata oggi nel Regno Unito”, ha scritto Nigel Farage,
riferendosi alle due gigantesche statue del Buddha che vennero fatte saltare in aria dai talebani in Afghanistan, nel 2001.

“Se non ristabiliamo presto l’autorità morale, sarà impossibile vivere nelle nostre città.”


La lista delle statue da rimuovere annovera i nomi di Oliver Cromwell e Horatio Nelson,
due figure di spicco della storia britannica, nonché quello di Nancy Astor, la prima donna a essere eletta deputata nel 1919.

Spiccano anche i nomi di Sir Francis Drake, Cristoforo Colombo e Charles Gray
(primo ministro il cui governo supervisionò all’abolizione della schiavitù nel 1833).


Il premier britannico Boris Johnson, esprimendo opposizione alla campagna di rimozione, ha dichiarato:


“Noi non possiamo tentare di modificare o censurare il nostro passato. Non possiamo fingere di avere una storia diversa.
Le statue nelle nostre città sono state erette da generazioni precedenti. Avevano prospettive diverse,
una diversa comprensione di ciò che è giusto e sbagliato. Ma quelle statue ci insegnano il nostro passato, con tutti i suoi errori.
Abbatterle significherebbe mentire sulla nostra storia e impoverire l’istruzione delle generazioni future”.


Il senso di colpa postcoloniale per il passato imperiale britannico sta, tuttavia, avendo ripercussioni ben più ampie dell’abbattimento delle statue.

Ad esempio, c’è ancora un silenzio totale riguardo ai cristiani perseguitati, secondo un vescovo britannico
che è stato incaricato dal governo di indagare sui casi di persecuzione dei cristiani in tutto il mondo e sulle loro sofferenze.

Inoltre, c’è soprattutto un ritiro dalla scena mondiale.

“Quando l’Occidente perde fiducia in se stesso, a causa dell’eccessivo o assurdo senso di colpa per il colonialismo, vira verso l’isolazionismo”,
ha osservato Bruce Gilley, un professore di Scienze Politiche.

“Abbiamo timore che qualsiasi cosa facciamo sia coloniale. Ci sono molti Paesi
disposti a entrare in quel vuoto di governance a livello globale: Cina, Iran, Russia, Turchia.”


Il senso di colpa postcoloniale sta inoltre soffocando la libertà di espressione nel Regno Unito.

Trevor Phillips, l’ex presidente della Commissione britannica per l’Uguaglianza e per Diritti dell’uomo,
è stato sospeso dal Partito Laburista con l’accusa di “islamofobia”.

La colpevolezza di Phillips?

Essere stato critico nei confronti del multiculturalismo.

Nelle parole di Phillips:

“A mio avviso, la reticenza nell’affrontare questioni legate alla diversità e ai suoi disagi rischia di consentire al nostro Paese
di sonnambulare verso una catastrofe che metterà le comunità l’una contro l’altra, approverà le aggressioni sessiste,
sopprimerà la libertà di espressione, annullerà le libertà civili duramente conquistate e minerà la democrazia liberale
che ha servito così bene questo paese per così tanto tempo”.


Phillips ha inoltre affermato che i politici e i giornalisti britannici sono “terrorizzati” all’idea di parlare di razza,
lasciando così che il multiculturalismo diventi un “ racket“ nelle mani di coloro che cercano di consolidare la separazione.

Un uomo originario della Guyana, un veterano del Labour Party e presidente della Commissione per l’Uguaglianza ha detto la verità ai multiculturalisti.


Gli attivisti mobilitati per rimuovere le statue vogliono cambiare radicalmente la fisionomia della capitale britannica.

Lo scontro sembra essere costituito, da un lato, da violenti censori che bullizzano tutti
e, dall’altro lato, da politici vigliacchi che si adeguano, hanno paura e si inchinano ai vandali.

I monumenti sono una parte vitale e visibile di una città, ne incarnano il posto nella storia,
altrimenti restano solo fermate dei bus e Burger King.

Questi contestatori sembrano desiderare una storia riveduta e asettica.

Se non comprendiamo rapidamente che, se cancelliamo il nostro passato, come ha cercato di fare l’ex Unione Sovietica,
sarà più facile per queste persone creare la loro visione del nostro futuro, privandoci del timone per pilotarci e ancorare noi e i nostri valori.

Ci resteranno in mano soltanto i cocci della nostra storia e cultura.


Questo movimento di odio dell’Occidente – che ha, come tutti noi, una storia imperfetta – sembra essere nato nelle università britanniche.

A Cambridge, docenti di Letteratura hanno chiesto di sostituire gli autori bianchi con quelli di colore per “decolonizzare” il curriculum.

L’Unione degli studenti della Soas, la prestigiosa Scuola di studi orientali di Londra,
ha invocato la rimozione dal curriculum di Platone, Kant, Cartesio, Hegel e altri nomi della cultura occidentale,
perché “tutti bianchi”, come se il colore della pelle dovesse essere l’unico fattore determinante dei nostri pensieri.

A Manchester, studenti hanno cancellato il murale della poesia “If” di Kipling.


Nigel Biggar, uno studioso del colonialismo, ha detto che un “clima di paura” è tornato a regnare nelle università britanniche.

Di recente, l’Università di Liverpool ha deciso di cambiare il nome di uno degli edifici del campus, intitolato all’ex primo ministro William Gladstone.

A Oxford, la statua di Cecil Rhodes, filantropo e fondatore della Rhodesia (oggi Zimbabwe), ha le ore contate


“C’è un po’ di ipocrisia,” ha commentato Lord Patten, cancelliere di Oxford,
“nel finanziare gli studi a Oxford di un centinaio di studenti stranieri all’anno, circa un quinto proveniente dall’Africa,
e poi dire che vogliamo gettare la statua di Rhodes... nel Tamigi”.

Patten ha affermato che la sua opinione non si discosta da quella “espressa da Nelson Mandela
in occasione dell’istituzione del Rhodes Trust nel 2003”, pertanto, nonostante i
“problemi legati a Cecil Rhodes nella storia, se andava bene per Mandela, allora va bene anche a me”.

Ma non ai revisionisti.


È come se la storia occidentale sia stata riscritta per rappresentare tutta la civiltà occidentale come un’unica e gigantesca apartheid.

È come se non dovessimo solo abbattere le statue, ma anche noi stessi.

Una democrazia di successo, tuttavia, non può essere costruita cancellando semplicemente il passato.


La statua di Winston Churchill a Londra – il quale si oppose ai nazisti durante la Seconda guerra mondiale e salvò l’Europa dalle barbarie –
è stata coperta dalle autorità locali durante le recenti proteste.

Il suo “impacchettamento” ricorda una delle antiche statue nude romane
che sono state coperte per compiacere il presidente iraniano Hassan Rohani in visita a Roma
o la “sparizione” dei ritratti nella ex Unione Sovietica di persone cadute in disgrazia per decisione del Politburo.

Cancellare la propria storia non serve a nulla.

Si può non avere una storia perfetta, ma è comunque la propria storia.

Come ha scritto lo storico Victor Davis Hanson, un Paese “non deve essere perfetto per essere buono”.

Asportare le parti sgradevoli non cambia i fatti: possono essere rimpiazzati da parti più sgradevoli.


Alcuni musei londinesi hanno già adottato da tempo questa politica di epurazione e di autocensura.

La Tate Gallery di Londra ha vietato la creazione artistica di John Latham che mostrava una copia del Corano dentro una lastra di vetro.

Il Victoria and Albert Museum ha prima esposto e poi ritirato un’opera d’arte devozionale dell’immagine di Maometto.

La galleria Saatchi ha esibito due opere che sovrapponevano scrittura araba a immagini nude,
ma poi ha coperto i due dipinti dopo le lamentele dei visitatori musulmani.

La Whitechapel Art Gallery ha epurato una mostra rimuovendo delle bambole nude esposte.


Il dizionario Merriam-Webster ha appena rivisto e aggiornato la definizione di “razzismo” per includere quello “sistemico”,
il che significa presumibilmente che l’intera società è colpevole e ingiusta.


I censori sembrano intenzionati a controllare il nostro universo mentale, come nel romanzo di George Orwell, 1984:


“Ogni documento è stato distrutto o falsificato, ogni libro è stato riscritto, ogni quadro ridipinto, ogni statua,
ogni strada e ogni edificio sono stati rinominati, ogni data è stata modificata. E il processo procede di giorno in giorno, di minuto in minuto.
La storia si è fermata. Non esiste null’altro che un eterno presente in cui il Partito ha sempre ragione.”


Questo processo di auto-avvilimento occidentale è iniziato molto tempo fa.

I consiglieri laburisti in tutto il Regno Unito, ad esempio, hanno cominciato a esaminare tutte le statue sotto la loro giurisdizione.

Il sindaco di Bristol, Marvin Rees, anziché difendere lo Stato di diritto,
ha definito la violenta rimozione della statua di Colston un atto di “poesia storica“.

Quando i vandali hanno iniziato a distruggere le statue, molti hanno applaudito.

Il premier britannico Boris Johnson ha definito questi atti di distruzione “iconoclastia politicamente corretta“.


Una settimana prima della polemica sul destino delle statue, nel Regno Unito le persone si sono inginocchiate nel nome di George Floyd.

Era come se ci fosse una richiesta collettiva che la società occidentale nel suo insieme doveva pentirsi.

Sembrava una forma di isteria ideologica, non così distante da quella dell’Inquisizione o dei processi alle streghe di Salem,
che faceva sentire chi si inginocchiava più virtuoso, dalla “parte giusta” della giustizia.

Si sono messi in ginocchio anche i poliziotti britannici, mentre negli Stati Uniti la speaker della Camera dei Rappresentanti,
Nancy Pelosi, e altri parlamentari dem si sono inginocchiati davanti ai loro feudatari.

Entrambi sono stati atti di irresponsabilità e capitolazione.

Pochi giorni dopo, l’establishment britannico si è inchinato ai nuovi talebani.



A cosa punta questo macabro gioco al massacro?

Non a demolire i monumenti in quanto tali, come le statue di Cristoforo Colombo che sono state distrutte o decapitate.

È più di questo.

È una presa di potere per creare una rivoluzione culturale, per impedire a chiunque
di dire che le culture non sono tutte uguali: per mettere sotto processo il passato dell’Europa;
per infondere un rimorso perenne nelle coscienze e per diffondere il terrore intellettuale al fine di promuovere il multiculturalismo.



Quante persone si rifiuteranno di acconsentire a questa soppressione forzata della storia?

Se molti si inginocchiano davanti a questo nuovo totalitarismo,
chi avrà il coraggio di difendere la cultura e la storia occidentale?
 

Val

Torniamo alla LIRA
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Val

Torniamo alla LIRA
C’e’ un che di caravaggesco nella scena della “deposizione” di Vittorio,
un gesto sarcastico e irriverente con il quale Sgarbi ha voluto farsi notare,
facendosi espellere dalla Camera, per richiamare l’attenzione del Paese
nei confronti del tema insopportabile della corruzione nella magistratura,
massima istituzione che la Costituzione pone a tutela della legalità e della dignità dello Stato.

Per chi non l’avesse capito o per chi dorme, politici inetti e irresponsabili in primis,
la Palamaropoli svela una situazione inaccettabile e pericolosa per tutti,
avverso alla quale pochi e troppo poco hanno parlato.

Compresi i “leader” del centrodestra.

Compreso il Presidente della Repubblica.

Compresi quelli che hanno subito “inquisizioni” e inchieste ingiuste.

Vittorio Sgarbi, invece ha parlato, e ha parlato per tutti e sopra di tutti.

Finché non gli hanno tappato la bocca trasportandolo fuori dall’aula con un gesto vile
che dimostra l’assoluta irresponsabilità di una classe politica fallimentare
e di un Parlamento che non tutela se stesso, tradendo il principio della rappresentanza e della sovranità popolare,
sbilanciando i poteri dello Stato e consegnandoli, di fatto, a chi non deve averli.


Perché non sta scritto da nessuna parte che il CSM, tramite qualcuno dei suoi membri più influenti,
debba tramare con personaggi di potere ne’ che possa favorire o sfavorire partiti o personaggi politici o chissà qui.

Anzi sta scritto il contrario, in ogni tribunale:

“la legge è uguale per tutti”.

E chi non lo denuncia e’ complice di quella che Cossiga, vero statista, definì “un’associazione mafiosa”,
come ha ricordato Sgarbi dopo aver urlato che

“Dobbiamo aprire una commissione d’inchiesta urgente contro la criminalità di magistrati che fanno l’opposto del loro lavoro”.

Parole eroiche, sibilline e commoventi, degne di una persona libera e coraggiosa.

L’omertà e’ meno impegnativa, la connivenza e’ più vantaggiosa.

Indignarsi poi per qualche mugugno o per qualche vaffa di troppo e’ più conveniente,
così come ha fatto Mara Carfagna, splendida presidentessa ma non troppo, in quella seduta parlamentare.

Squallido però il suo comportamento di ieri quando, sentendosi investita di una dignità istituzionale un po’ troppo auto-celebrativa,
ha preteso il sollevamento dell’inerme Sgarbi, dimenticando persino chi l’ha portata in parlamento, per indubbissime capacità politiche,
e tutte le inchieste di cui è stato accusato Berlusconi.

Un consiglio a “la Mara” e a tutti i perbenisti: indignatevi per le cose serie, e soprattutto imparate… capre!
 

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