OT: Topic del cazzeggio (12 lettori)

Fabrib

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La Repubblica/Altan
 

fabriziof

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A margine della visione di Atalanta Roma ,la prima viene chiamata la dea anche se Atalanta non lo fu,mentre invece gli antichi credettero a una dea Roma,vabbé perdoniamo...:)
 

Fabrib

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Calendario De Gasperi
di Massimo Gramellini | 23 dicembre 2020
Constatato l’enorme successo del Calendario Mussolini, in qualità di avvocato delle cause perse vorrei lanciare un Calendario De Gasperi, dedicato al più grande leader moderato dopo Cavour. Gennaio: foto di Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio in carica, sulla scaletta dell’aereo che lo condurrà negli Stati Uniti a trattare un prestito da cento milioni di dollari, con indosso il cappotto prestatogli da un collega di partito perché il suo era troppo liso. Giugno: foto di De Gasperi mentre scrive a papa Pio XII, che gli ha negato per ripicca un’udienza privata, avendo De Gasperi rifiutato l’alleanza con il Movimento Sociale nelle elezioni comunali di Roma: «Come cristiano accetto l’umiliazione, ma come capo del governo la dignità e l’autorità che rappresento mi impongono di esprimere stupore e di provocare un chiarimento». Luglio: foto di De Gasperi nella sua casa in Trentino mentre si rilassa leggendo l’Anabasi di Senofonte. In greco. Agosto: foto di De Gasperi alla conferenza postbellica di Parigi: «Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me».
Un uomo verticale che non si vergognava di indossare le proprie idee e i cappotti altrui. Il simbolo di quella che oggi chiameremmo una destra liberale e antifascista, e che ancora governa in Germania e in Francia, ma che in Italia, dopo di lui, sembra essersi dissolta. Sarebbe un calendario a tiratura limitata, però vuoi mettere la soddisfazione.
 

Fabrib

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Lo scopo di questo articolo è temerario. Vorrei riuscire a convincere chi ne ha il potere, o qualche “influencer”, che la vicenda di uno sconosciuto netturbino palermitano è importante. Anzi, è molto importante; vorrei che il suo nome e la sua storia diventassero popolari, come le vicende di un qualsiasi povero nero ammazzato dalla polizia in America. Il mio eroe è vivo, beato lui, anche se ha fatto diciotto anni di carcere da innocente, che è quasi come essere ammazzati. Si chiama Gaetano Murana, e dovremmo occuparci di lui. “Gaetano Murana matters”, è importante.
Capisco che parlare di un netturbino che subì una ingiustizia vent’anni fa, in un momento come questo, con una pandemia in corso, i morti che crescono invece di diminuire e un piano di vaccinazione di massa dal quale dipenderà il nostro futuro, può sembrare un bizzarria. Il 2020 sarà ricordato, da vecchi e giovani, come l’anno più drammatico della nostra esistenza. Però, è anche vero che il biennio 1992-1993, in cui il nostro netturbino ha cominciato il suo calvario, non scherzava. Bombe colossali e uccisioni spettacolari, l’esercito schierato in Sicilia, carceri speciali; tutto questo avveniva nel ribollente sud Italia. Nel nord invece cresceva vertiginosamente il primo partito apertamente razzista in Europa e nel palazzo di giustizia di Milano venivano azzerati e incarcerati gli storici partiti politici che avevano governato l’Italia dal dopoguerra. Anche allora sembrava che l’Italia non ce l’avrebbe fatta ad esistere; e invece, tutto improvvisamente finì. Nel ventennio che seguì – tra guitti, bunga bunga, corruzione resa endemica e indifferenza, perlomeno non scoppiarono più bombe, nessun cadavere eccellente (quelli che adesso chiamiamo “la casta”) venne più trovato nell’abitacolo di un’automobile e le rozze belve che avevano provocato tutto ciò marcirono nelle celle del 41bis. I più vecchi, quelli che sono riusciti a schivare il Covid e adesso sono ansiosi di denudare il deltoide ipotrofico per il vaccino, sono rimasti gli unici che si ricordano quella stagione, o forse se ne ricordano solo dei lampi di memoria. I più giovani invece sanno solo che Falcone e Borsellino sono due eroi della patria, che a loro sono intitolate piazze, strade, scuole, tribunali, giardini, giardinetti, monumenti, busti, targhe, lapidi, che li mettono ormai alla pari con Garibaldi, Cavour e Mazzini, ma se chiedeste loro chi li ha fatti fuori, li mettereste in imbarazzo.
Ma non bisogna sempre incolpare i giovani. Perché, sì, sembra incredibile, ma è proprio così, non si sa come andarono le cose con Falcone e Borsellino. Anzi, per dire meglio: all’inizio si sapeva, poi man mano le certezze si sono fatte dubbi e alla ricerca della verità si è sostituita l’organizzazione della menzogna, che è un tratto caratteristico del nostro modo di convivere. Come scriveva Leonardo Sciascia, in un lontano anniversario della strage di piazza Fontana: «Chi non ricorda la strage della Portella della Ginestra, la morte del bandito Giuliano, l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino a oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo a fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere. (Nero su nero, 1979)». Oh, come aveva ragione!
Falcone e Borsellino
Prendete il caso di Flacone. All’inizio era tutto chiaro: è stato Salvatore Riina, detto U curtu, per vendetta contro i suoi nemici. Ha fatto tutto lui e il suo sodale Giovanni Brusca, detto U Verru, ha schiacciato il telecomando sulla collinetta. Ora, a distanza di 22 anni, nessuno si sentirebbe di avallare quella ricostruzione. Non si sa ancora che tipo di esplosivo venne usato; non si capisce come mai Cosa Nostra abbia affidato ad un incompetente, Brusca, il compito più delicato dell’attentato. E soprattutto non si capisce perché Cosa Nostra abbia organizzato un attentato degno di Osama bin Laden, quando avrebbe potuto tranquillamente uccidere Falcone a Roma, all’uscita di una delle trattorie del centro dove andava a mangiare, senza scorta. E così molte persone importanti, pensosamente dicono: c’è dell’altro, in quella storia, ma evitano di andare oltre.
E Borsellino, allora? Non protetto, lasciato solo, spiato telefonicamente lui e la sua famiglia, con ogni giorno qualcuno che gli sussurrava che sarebbe morto presto. Infine ucciso, facendo addirittura saltare un palazzo, dal quale erano stati fatti evacuare “amici” che avrebbero potuto essere coinvolti. Telecomandi, esplosivo, logistica, coperture. Persino il numero tre dei nostri servizi segreti che veleggiava, una domenica 19 luglio, con amici (mafiosi) davanti al porto di Palermo e fu il primo a sentire il botto e a portarsi sulla “scena del delitto”. Un po’ troppo, non trovate?, per attribuire tutto ciò alla sola “belva di Corleone”, un contadino che a malapena sapeva fare la propria firma. C’è dell’altro, dicono pensierosi le persone che se ne intendono. Ma non dicono cosa.
Eppure, quello era un periodo in cui credevamo a tutto; era un po’ come vivere nel paese delle fiabe, in cui succedevano cose terribili, ma alla fine arrivava un cavaliere bianco in groppa a un cavallo bianco e uccideva il drago.
Era come se la morte dei due eroi avesse liberato, nel nostro stato così sgangherato, le energie migliori, le più pulite. Palermo era imbandierata di lenzuola bianche che pendevano dai balconi; i mafiosi, sopraffatti da tanta indignazione popolare, si pentivano, gettavano le armi, chiedevano di espiare senza condizioni, rivelavano le loro malefatte. Quanti? Arrivarono a essere più di mille. E il loro capo, la belva di Corleone, venne preso quasi subito e fotografato come Satana sotto il ritratto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. E a Milano, allora? Gli industriali si mettevano in fila per andare a confessare al magistrato Antonio Di Pietro, un tipo brusco che nel suo poco tempo libero guidava il trattore nelle sue piccole campagne, tutti i soldi che erano stati costretti a versare ai partiti ingordi. E solo per poter lavorare, anzi per poter dare lavoro a tanta povera gente. E fuori, i milanesi facevano la fila per applaudirli, i magistrati del pool di mani pulite. C’era forza, in quell’Italia di allora. I magistrati di Palermo avevano avuto addirittura il coraggio di portare alla sbarra nientemeno che Giulio Andreotti, il politico che aveva governato l’Italia da mezzo secolo; un industriale milanese, simbolo del “miracolo italiano”, che aveva ottenuto tutto dalla vita, la televisione, l’edilizia, la coppa campioni e una magnifica moglie, sacrificava tutto ciò per “scendere in campo”, assicurare all’Italia un nuovo miracolo e soprattutto evitare che una forza politica immatura, confusa come il Partito comunista italiano potesse prendere il potere alle elezioni. Ammesso e non concesso che la storia abbia i suoi cicli, si osserva, senza molto piacere, che nei momenti difficili, l’Italia sa anticipare i tempi: Mussolini anticipò Hitler di 11 anni, Berlusconi Donald Trump di una ventina.
E così, non potemmo che gioire quando ci dissero che la nostra polizia aveva risolto il caso dell’omicidio Borsellino, ad appena due mesi di distanza! C’era voluto l’acume di un poliziotto vecchio stile, il capo della mobile di Palermo, commissario Arnaldo La Barbera, un tipo brusco che gira con la 357 magnum e fa lui di persona i pedinamenti nei più sordidi vicoli di Palermo, tra la feccia dell’umanità mafiosa. E lì ha trovato chi ha rubato la macchina poi imbottita di esplosivo. Bel colpo, commissario.
Passano sei mesi appena, e, secondo colpo: la Dia (è una sorta di Fbi all’americana, la struttura di polizia voluta da Giovanni Falcone) arresta, marzo 1993, uno degli esecutori materiali della strage di Capaci. Nientemeno che uno di quelli che si infilarono in un tunnel sotto l’autostrada per piazzare i 500 kg di esplosivo. È un pezzo grosso, si chiama Nino Gioè, nel gotha di Cosa Nostra, paracadutista della Folgore. E qui arriva il primo colpo di scena. Gioè, pochi mesi dopo, vien trovato morto nel carcere di Rebibbia. Meglio: impiccato ai lacci delle sue scarpe.
Storiaccia, vero? Ma, a quei tempi non ne sapevamo niente. E se io adesso vi dicessi che il brusco commissario La Barbera, nel lontano 1988, aveva arruolato Gioè per fare un servizietto al giudice Falcone, voi – se non vi siete ancora annoiati – sobbalzereste. E direste: non è possibile! Questa è fantascienza!
Avevamo altro cui pensare, in quel 1993, che fu il vero annus horribilis dell’Italia prima di questo 2020. Una bomba a Firenze, agli Uffizi, capolavori danneggiati, una bambina tra i 5 morti. Tutto il mondo ne parlò, terribile. Una a Milano. Due a Roma. Maurizio Costanzo che sfugge a un attentato. Il presidente dell’Eni suicida in carcere. Raul Gardini, l’enfant prodige dell’industria italiana, e l’uomo più liquido sulla piazza, suicida. La Lega che chiede ufficialmente di dividere l’Italia in tre, con quella del sud da dare alla mafia, perché è la sua «parte più imprenditoriale» (parole di Gianfranco Miglio, l’ideologo della Lega di Bossi). Palazzo Chigi si trova con i telefoni isolati, mentre un robot disinnesca una bomba davanti a Montecitorio. Voci di colpo di stato. Ciampi che va a Bologna, a commemorare la strage e dice “no pasaran”. Il presidente della Repubblica Scalfaro che va in televisione e denuncia i servizi segreti che «mettono bombe e cercano di coinvolgermi in un enorme scandalo», Marcello Dell’Utri che fonda dal nulla un nuovo partito che vincerà le elezioni. (L’idea verrà copiata da tale Gianroberto Casaleggio venti anni dopo, con un comico genovese come frontman, invece che un industriale brianzolo). Ripensandoci, con un po’ di giusto cinismo: erano tempi più interessanti di questi. Furono tempi molto anticipatori, nessuno era quello che sembrava. Vivevamo tutti in una bolla di fake news, prima che il termine venisse inventato.
Il Minority report
La mia storia, come una lunga serie televisiva, si muove in quell’acqua, e Gaetano Murana vi compare come uno dei tanti, una comparsa chiamata a giocare una parte, quella del testimone-vittima del Grande Inganno, il Minority report sulla nostra storia patria. Accanto a lui, alcuni personaggi che sarebbero di grande forza e attrattiva sul piccolo schermo. Vincenzo Scarantino, il falso pentito. È un ragazzone povero, cresciuto nei bassifondi di Palermo. Bocciato due volte in terza elementare; ha difficoltà a leggere, non sa scrivere. In due anni, la polizia lo tortura (da 106 kg a 60, nelle celle di Pianosa) e lo blandisce fino a presentarlo al pubblico come un «uomo d’onore riservato di Cosa Nostra» che ha ideato, diretto ed eseguito uno dei più grandi attentati della storia. Manda in galera una ventina di persone innocenti, tra cui Murana. Tiene banco per una quindicina d’anni prima di essere scoperto. Si occupano di lui almeno trenta magistrati che certificano che è “credibile”. E se lo dicono trenta magistrati, perché non ci dovremmo credere anche noi?
Arnaldo La Barbera, il falso detective. Se fosse ancora vivo, avrebbe la faccia di Lino Ventura, ma senza la sua simpatia. È uno sbirro di Verona, “bad cop”, agente dei servizi, dispone di grandi budget, recupera opere d’arte rubate, fa fuori i rapinatori di persona. Si è fatta una reputazione da ispettore Callaghan a Venezia con la mafia del Brenta, è stato catapultato per mettere ordine nella Palermo fuori controllo della fine degli anni Ottanta; si è portato dietro la sua squadretta di veneziani fedeli, gente che sa come si fa il lavoro sporco. Autore del più grande depistaggio della storia italiana (che pure ne vanta tantissimi), diventa questore, prefetto, dirigente supremo della polizia. All’età di sessant’anni indossa ancora le sneaker, l’elmetto e la fedele 357 magnum e guida l’assalto alla scuola Diaz nel tragico G8 del 2001. Muore l’anno dopo, per un tumore al cervello. Ha avuto quasi funerali di stato: procuratori, generali, ministri. Tutte persone che sapevano che era un bel fior di mascalzone, ma che era stato un utile mascalzone. Molte persone in Italia devono la loro carriera al suo depistaggio.
In fin dei conti, un eroe anche lui. Ha fatto quello che gli era stato ordinato di fare. Se fosse un film, sarebbe di sicuro un protagonista, il contrario del commissario Montalbano. Da sviluppare in campi lunghi, bianco e nero, corridoi di uffici, stanze del Viminale, pedinamenti nella notte, poche parole, molta solitudine a Palermo. Uomo d’azione, una volta uccise a freddo un ragazzo in una sauna. Ha ansia di carriera, di vittoria, è convinto che le donne non resistano al suo fascino. Gran personaggio italiano, una specie di Conformista di Bertolucci. E poi i funerali, con tutte le maschere dello stato: se fossi un regista andrei pesante con citazioni da Cadaveri Eccellenti di Rosi e Todo Modo di Elio Petri, tutti e due da Sciascia.
Ah, dimenticavo, e non vorrei tediarvi con le technicalities da mafiologi. Ma un pezzo forte della trama lo vedrebbe all’estero. Il commissario La Barbera (a che titolo, non si sa) si recò, con altri agenti dei servizi segreti, nel 1988, in un carcere inglese, per un colloquio con il famoso Francesco Di Carlo, grande trafficante di eroina e uomo dei servizi, che era trattato con rispetto perché conosceva i segreti dell’omicidio del banchiere Calvi (quello che penzolò dal ponte dei Frati Neri). In quel colloquio De Carlo consigliò a La Barbera suo cugino Gioè, che chiedeva a chi potesse appoggiarsi a Palermo, per qualche lavoretto. Gioè, l’attentatore di Capaci e il suicida di Rebibbia e La Barbera, lo sbirro intraprendente, si conoscevano. Un bravo sceneggiatore qui potrebbe fare grandi cose…
E, poi bisognerebbe restituire il clima di allora, dei fax, dei vhs, dei telecomandi, dei primi telefonini clonati, dei blindati dell’esercito davanti agli “obiettivi sensibili”. La terribile inevitabilità di quello che successe; quelli che cercarono di opporsi; quelli che avrebbero potuto cambiare il corso della storia o, perlomeno, evitare la galera al nostro povero Murana.
La lista di Fulci
E qui arriva la vera spy story, ed è una vicenda che non è stata ancora raccontata, e a cui legioni di magistrati inquirenti non hanno prestato mai attenzione.
Si tratta di questo: nel 1993, dopo le stragi passate alla storia come “continentali”, per distinguerle da quelle “siciliane”, un altissimo funzionario dello stato italiano, l’ambasciatore alle Nazione Unite a New York, Francesco Paolo Fulci comunicò direttamente al generale dei carabinieri Federici, al capo della polizia Parisi, al presidente della Repubblica Scalfaro, una lista di nomi coinvolti nella fabbricazione degli attentati che stavano scuotendo l’Italia. Erano 15 nomi, tutti appartenenti a una struttura del Sismi, tutti legati alla divisone Folgore, tutti esperti in sabotaggi ed esplosivi, che avevano all’attivo operazioni losche all’estero, al servizio di regimi dittatoriali. Come faceva a sapere tutte queste cose? Fulci, ambasciatore di carriera, famiglia di diplomatici e alti funzionari dello stato, nel 1991 era stato fortemente pregato da Cossiga, presidente della Repubblica, e da Andreotti, presidente del Consiglio, di assumere la presidenza del Cesis, l’organismo di controllo dei servizi segreti, allo scopo di fare pulizia in quell’ambiente. Fulci operò in un ambiente molto ostile, venne pesantemente intimidito, ma fu un ottimo detective. Scoprì strutture segrete, gigantesche malversazioni di denaro, legami con gli ambienti neofascisti e gli aspetti più segreti della famosa Gladio. Nel 1993, con suo grande sollievo, terminò l’incarico e assunse quello di ambasciatore a New York. Ma quando cominciarono a scoppiare le bombe, fece il suo dovere di servitore dello stato e comunicò i suoi sospetti.
La sua rivelazione – dettagliata, al midollo – fu lasciata cadere: era molto scomoda, e i servizi fecero sapere, in modo piuttosto brusco, di non voler essere indagati. Il monopolio delle indagini venne affidato, dal governo di allora, al commissario Arnaldo La Barbera che si inventò Scarantino, una storia che non dava fastidio a nessuno. E abboccarono tutti: magistrati, giornalisti, opinione pubblica, praticamente per pigrizia.
Le storie di mafia sono sempre affascinanti, anche perché raramente ci riguardano; a meno che abbiamo dato i nostri soldi a un commercialista che poi sparisce; a meno che, senza sapere perché, ci ritroviamo una testa di capretto nel bagagliaio, la mafia è una cosa che non ci interessa. E poi, come tutti avranno notato, non esiste più, da quei tempi eroici. La lista dei comuni sciolti per mafia è più noiosa di quella del calo del tasso di natalità; nessun politico, da tempo, ha più a cuore il problema, però ci sono ancora pletore di magistrati che sgomitano per farsi belli, per ottenere fettine potere. Curioso, no? La magistratura italiana, uccisi Falcone e Borsellino, non è riuscita a cavare un ragno dal buco: ignava, pigra, senza alcuna idea o autonomia, ha sposato i peggiori depistaggi, per poi lanciarsi in stravaganti ed innocue teorie – quella della “trattativa” è la più sgangherata, e promette di andare avanti ancora per un altro decennio - ma continua ad essere sulla scena, pomposa, arrogante, inutile.
L’altro giorno ho letto su un giornale che c’è una pizzeria in Germania che ha messo come insegna “Falcone&Borsellino”, e dentro il locale ci sono – per dare un tono – grandi fotografie di Riina, Vito Corleone, sparatorie, finti fori di mitra sui muri. Ho letto che la famiglia Falcone ha protestato e che un giudice tedesco ha dato loro torto. Ha detto, il giudice tedesco: capisco, ma sono cose di tanti anni fa, non ci vedo nulla di offensivo.
Forse ha ragione; invece di fare inchieste o cercare la verità, è meglio aprire una pizzeria. Peccato, però, perché la storia di Murana meritava di essere conosciuta. Gaetano Murana, l’innocente, accusato di aver preso parte al delitto Borsellino. Arrestato nel 1994, liberato, nell’imbarazzo nel 2010. Il nostro Giobbe palermitano. Non fu Scarantino a denunciarlo, il nome glielo fece dire il commissario La Barbera che di Scarantino era il puparo. Ma tutti, prima e dopo, se ne sono fregati di lui: tutti sapevano che c’era un innocente in galera, ma non hanno mosso un dito. È povero, nessuno gli mai chiesto neanche scusa. Non ha lavoro, ma – e questo è francamente fastidioso – ha costruito la carriera di tanti. Mettiamola così: sulle torture a Murana, La Barbera è diventato prefetto, un bel mazzetto di magistrati ha costruito le proprie carriere e i veri assassini di Borsellino l’hanno fatta franca. Anzi, hanno vinto. Stringe il cuore vedere, negli anniversari, stuoli di ragazzini delle scuole portati a vedere l’albero Falcone, e sapere che quello che gli raccontano è tutto falso.
Se per caso, magari sotto l’onda della pandemia che ci costringe a casa, a guardare dentro noi stessi e a cercare su Netlix i vecchi film di mafia, ci rimane un po’ di tempo, dovremmo interessarci di più della storia di Gaetano Murana, ricompensarlo di quello che ha subito. Direi: “Gaetano Murana matters”.
Non solo per quanto hanno fatto a lui, ma per quanto hanno fatto a noi.
DOMANI/Deaglio
 

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