Ocio a facebook & c....sei sei solvibile o no lo decidera' un algoritmo (1 Viewer)

tontolina

Forumer storico
Il co-fondatore di Facebook spiega perché bisogna fermare Zuckerberg


Chris Hughes ha lanciato il social network ai tempi in cui i due frequentavano l'università, ma ora non lo riconosce più per quello che è diventato e per il potere che gestisce

di massimo basile
09 maggio 2019,21:35
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Il co-fondatore di Facebook spiega perché bisogna fermare Zuckerberg

"Mark è rimasto un bravo ragazzo, ma temo che il suo concentrarsi sulla crescita lo abbia portato a sacrificare sicurezza e civiltà in cambio di un click. Sono deluso da me stesso, per non aver capito che Facebook poteva cambiare la nostra cultura, influenzare le elezioni e rafforzare i leader nazionalisti". E' l'ammissione del co-fondatore di Facebook, Chris Hughes, che in un lungo articolo scritto per il New York Times, prende le distanze dal suo amico, Mark Zuckenberg, con il quale ha condiviso la fondazione del social più famoso al mondo, e invita i legislatori a fermarlo perché "sta concentrando troppo potere in una persona sola", ha il "controllo della comunicazione", un "potere senza precedenti per monitorare, organizzare e persino censurare le conversazioni di due miliardi di persone", qualcosa di "non americano".

I’m calling for breaking up @Facebook in an essay in the @nytimes. FB has become too big and too powerful, and it’s part of a trend in our economy of an increasing concentration of corporate power. We can fix this: break the company up and regulate it. Opinion | It’s Time to Break Up Facebook

— Chris Hughes (@chrishughes) 9 maggio 2019
Hughes chiede di togliere a Zuckerberg Instagram e Whatsapp, di scorporare Facebook e vietargli altre acquisizioni. "Non lavoro più con lui da una decina d'anni - spiega Hughes - ma mi sento ugualmente responsabile per ciò che sta succedendo". Dopo aver ricordato gli inizi, quando i due amici, nel dormitorio universitario, portarono avanti la loro idea di creare un social che mettesse le persone in contatto su una tribuna comune, Hughes descrive come si è trasformato Facebook: "Mark controlla il 60 per cento delle quote, decide tutto, quali algoritmi, quali dati privati possono essere usati. Può silenziare un competitore, bloccandolo, acquistandolo o copiandolo".

Hughes riporta gli esempi: come Zuckerberg ha bloccato Vine, che trasmetteva video della durata di sei secondi che poi sparivano. E come ha copiato Snapchat. Lo definisce uno "zar della privacy", capace di "rubare decine di milioni di password, che migliaia di impiegati di Facebook hanno potuto vedere".

Il governo americano, spiega, deve fare di più: la multa da 5 miliardi "non basta". Hughes si riferisce alla sanzione che Facebook dovrebbe pagare per lo scandalo Cambridge Analytica, la società di consulenza politica britannica, che aveva Steve Bannon come vicepresidente, e che durante le presidenziali americane 2016 e il referendum sulla Brexit ha potuto accedere alle informazioni personali di 87 milioni di utenti della piattaforma social.

"I legislatori considerano Mark come troppo grande e un po' matto per gestire tutto" continua Hughes "ed è proprio quello che lui voleva, perché così poco cambierà". "E' tempo di rompere con Facebook", scrive il co-fondatore perché l'America ha gli "strumenti" in un Paese "costruito sull'idea che il potere non debba concentrarsi nelle mani di una sola persona".

La reazione di Facebook non si è fatta attendere. “Facebook accetta che con il successo arrivi la responsabilità" ha detto Nick Clegg, Vicepresidente di Facebook per gli Affari Globali e la Comunicazione, "Tuttavia, la responsabilità non va imposta chiedendo lo smembramento di un’azienda americana di successo. La responsabilità delle aziende tecnologiche può essere raggiunta attraverso la scrupolosa introduzione di nuove regole per Internet. Questo è esattamente ciò che Mark Zuckerberg ha chiesto. Infatti, questa settimana sta incontrando vari leader di governo per portare avanti questo progetto”.
 

marofib

Forumer storico
tutti dovrebbero togliersi, specie i + giovani che sono ancora alla ricerca di un lavoro
basta una serata alcolica, qualche commento di troppo, e ti giochi un possibile lavoro
tutti prima di assumerti ravanano dentro sta fetecchia
 

tontolina

Forumer storico
WikiLeaks ci ha fatto illudere che internet potesse essere uno spazio di libertà e uguaglianza
LA RETE NON È LIBERA
Durante l'arresto di Julian Assange molti commentatori hanno scritto che oggi la Rete è diventata più libera rispetto al 2010, quando WikiLeaks comincia a rendere pubblici centinaia di migliaia di documenti riservati. Possiamo illuderci che sia così, ma non è vero.

Durante l’arresto di Julian Assange, una vergogna giudiziaria e politica al di là dell’opinione che si può avere sulla sua persona, molti commentatori hanno scritto che oggi la Rete è diventata più libera rispetto al 2010, quando WikiLeaks comincia a rendere pubblici centinaia di migliaia di documenti riservati.

Una delle tesi più diffuse è che i social network sono a loro modo costruiti dal basso, dalle interazioni tra gli utenti. Le bacheche permettono quindi una libertà di espressione e una capacità di diffusione del pensiero, o anche di documenti, sempre maggiore. Una libertà sconosciuta agli albori di internet.

Ok, prendiamo un attimo per buona questa deriva tecno-entusiasta.
Fingiamo di ignorare che i social network sono incessantemente al lavoro per estrarre valore dalle nostre vite, ovvero per raccogliere i nostri dati, immagazzinarli, confrontarli e poi rivenderli alle agenzie di marketing che ci restituiscono pubblicità sempre più targettizzate.
Oppure per rivenderli a eserciti e polizie, pubblici e privati, di stati democratici o di dittature
, tutti impegnati nella costruzione del più imponente sistema di sorveglianza della storia: il panottico digitale dove ciascuno è sorvegliante di se stesso. Cambridge Analytica è stata solo la punta dell’iceberg di una trama ben più complessa e pervasiva.
Non è solo Google o Facebook.
È Amazon.
È Uber.
È Angry Birds.
È il surveillance capitalism, fondato sull’estrazione dei dati personali.

Fingiamo di ignorare anche che questi dati personali sono rivenduti alle multinazionali che si dedicano allo sviluppo dell’intelligenza artificiale: il fulcro e nuovo alfabeto del capitalismo estrattivo. Sarebbe assurdo, come discutere di colonialismo premettendo che non ci occuperemo dell’estrazione di materie prime nei territori soggiogati.
Ok, ma andiamo avanti lo stesso.
Fingiamo di ignorare anche che il sistema di gratifica e punizione messo in atto dalle notifiche è devastante da un punto di vista psichico, e arriva addirittura a modificare le capacità affettive ed emotive degli utenti in Rete.

Bene, abbiamo finto che tutto questo non accade, e dunque le bacheche dei social network sono veramente un luogo di libertà?
Se utilizzate nella maniera giusta, possono portare a cambiamenti positivi per le sorti dell’umanità?
La risposta è no: i social network lavorano al mantenimento dello status quo.

Lo dimostra, da ultimo, una ricerca empirica della Northeastern e della Cornell University.
Il team di studenti supervisionati dai professori Muhammad Ali e Piotr Sapiezynski ha messo su Facebook una serie di pubblicità a pagamento dove offrivano dei lavori o delle proprietà immobiliari. Queste inserzioni erano pressoché uguali alle solite che si vedono, se non che differivano per piccoli particolari, a partire dal compenso lavorativo o dal budget necessario per l’acquisto della casa, fino al tipo di fotografia o di parole usate per lo stesso annuncio.
La risposta è stata che la machine learning di Facebook, il famoso algoritmo, ha deciso che gli annunci riguardanti insegnanti o segretarie dovevano essere rivolti a donne mentre quelli per tassisti o bidelli agli uomini. Allo stesso modo le case in vendita erano riservate ad utenti di pelle bianca, quelle in affitto a utenti di pelle nera.

L’algoritmo di Facebook ha quindi lavorato per confermare tutti gli stereotipi di razza, censo e sesso che rendono la nostra società ingiusta e diseguale.

Anche perché, come spiegano a Intercept, gli autori della ricerca si sono focalizzati sulla categoria ad delivery e non su quella di ad targeting, ovvero non hanno richiesto loro che le pubblicità fossero rivolte a uno specifico target – maschi bianchi benestanti, giovani appassionati di musica, donne laureate in ingegneria informatica, e così via – ma invece hanno posto solo come premessa che gli annunci si rivolgessero a residenti degli Stati Uniti.

È stato quindi Facebook a decidere, autonomamente, che alcune pubblicità – con il loro carico di produzione esterna del desiderio e delle aspettative individuali e sociali – andassero bene per un sesso, una razza, un ceto sociale e un credo religioso piuttosto che per un altro.

Un portavoce di Facebook ha subito risposto che la multinazionale sta lavorando per risolvere il problema. Ma è una storia vecchia, da sempre l’algoritmo lavora per discriminare o, al meglio, per mantenere attuali le discriminazioni esistenti.

Lo dimostra questo breve recap di New Scientist. O Latanya Sweeney, professore ad Harvard, che già nel 2013 aveva pubblicato un paper in cui si dimostrava la discriminazione razziale insita nelle pubblicità online che apparivano su Google. E sempre restando al gigante di Mountain View, come considerare il fatto che il tanto annunciato Comitato Etico per la gestione dell’Intelligenza Artificiale sia già naufragato dopo solo due settimane di esistenza?
Doveva essere la prova che non ci sarebbero più state discriminazioni, si è rivelato essere la cartina di tornasole dell’impossibilità di pretendere una Rete libera se a gestirla rimangono le multinazionali con una spiccata fede nel neoliberismo.
Una serie di indagini interne condotte dai dipendenti e poi sfociate in aperte manifestazioni di protesta e di sfiducia hanno rivelato che nel fantomatico Comitato (il cui ruolo fondante dovrebbe essere impedire ogni forma di discriminazione) sedevano membri dell’estrema destra creazionista e suprematista americana.
Un autogol clamoroso.
La dimostrazione che, come nel 2010, quando WikiLeaks comincia a rendere pubblici i documenti riservati che svelano le atrocità commesse dalla politica e dall’esercito statunitense, anche nel 2019 la Rete non è niente affatto libera.
Non lo sono i social network né i motori di ricerca, tutti tarati attraverso l’algoritmo alla perpetuazione infinita degli stereotipi e delle disuguaglianze.
La Rete è uno strumento e la sua funzione, che sia liberatrice o coercitiva, dipende dall’utilizzo che ne viene fatto.
Dal come e anche dal chi, certo.

Pensare che la Rete sia di per sé uno spazio democratico, liberatorio e progressista, è la dimostrazione che a furia di vivere nell’acquario non sappiamo più distinguere l’acqua in cui nuotiamo.
 

tontolina

Forumer storico
La guerra dei dati e il capitalismo di sorveglianza
SHHH… IL NEMICO TI SORVEGLIA
Taci! Il nemico ti ascolta e sorveglia. Quando non ci sono progressi in campo economico e sociale, il sistema fa ricorso alla minaccia da fronteggiare. La paranoia è totalizzante e viene spacciata per tuo unico alleato. Nel frattempo, il panottico contemporaneo prende forma nei laboratori di psicometria e di raccolta dati. È il surveillance capitalism.


Taci! Il nemico ti ascolta e sorveglia. Affissioni, locandine, cartelli. In epoca fascista appariva ovunque il geniale slogan che Leo Longanesi aveva immaginato per il duce.
Come ogni regime, anche la sanguinaria dittatura di Benito Mussolini aveva necessità di insistere sulla dimensione sociale paranoica per rinsaldare il popolo attorno all’idea.

Quando non ci sono progressi in campo economico e sociale il sistema fa ricorso alla minaccia da fronteggiare.
Tutti compatti contro il nemico, che è sempre in procinto di arrivare.
Si scruta l’orizzonte lontano sui monti, alla fine del deserto, e ci si guarda la schiena mentre si fa avanti e indietro nella Fortezza Bastiani.
La paranoia è totalizzante.
Fuori ci sono: i bolscevichi, gli africani, gli orientali, il complotto plutodemogiudaico.
Dentro: le donne, gli invertiti, i barboni, i migranti, gli zingari. I deviati, in generale.
Poi ci sono: i padroni, gli industriali, le banche, le lobby di affari. Additati come nemico di cui occuparsi in un secondo momento, sono in realtà i migliori alleati di ogni regime.
La minaccia è talmente pervasiva, sfuggente e nascosta che non è possibile affrontarla
Meglio affidarsi al sistema per rimanere protetti. Il nemico è ovunque e ovunque ti guarda: come a Dunkirk, è il tempo della sopravvivenza.

Quindi taci, china la testa, obbedisci.
Alla minima protesta lo stai aiutando, lo favorisci, metti in pericolo l’intera struttura di potere forgiata nel sangue dei tuoi avi per proteggere i tuoi discendenti. Se metti a repentaglio l’idea di dio, di patria e famiglia, sei solo un cospiratore.
Taci! Il nemico ti ascolta.
Oggi che la società è più liquida, rarefatta, che si sono dissolti i confini nazionali, che il Capitale gioca su una scacchiera globale, il nemico è ancora più onnipresente. Ha attraversato ogni frontiera, anche quella che separa il sé dall’altro da sé. Il nemico sei tu. Taci, e ascoltati. È il surveillance capitalism.

Il panottico contemporaneo nasce dalla collaborazione tra lo Stato e l’apparato militare.
È nei laboratori di psicometria delle più prestigiose università che sono elaborati gli studi e le ricerche per l’elaborazione di sistemi che attraverso la raccolta dei dati monitorano – e prevedono – i desideri degli utenti in ambito commerciale.

I dati sono il potere, la democrazia si può hackerare. L’analisi dei dati nella società della sorveglianza non serve per predire il futuro, ma per costruirlo.
Il social network aperto
sul tuo telefonino non è pericoloso, perché sa cosa vuoi prima ancora di te. Il punto è che è proprio lui a dirti cosa devi volere.
«I social media ti permettono di raggiungere praticamente chiunque, e di giocare con le loro menti. Puoi fare quello che vuoi, puoi essere chi vuoi. È il luogo dove si combattono le guerre, vincono le elezioni, dove si sviluppa il terrorismo
» afferma Uzi Shaya, ex membro del servizio segreto israeliano.

Lo dice al «New Yorker», che titola: “Il Mossad privato, al servizio di chi paga”.
È la guerra psichica.
Si racconta la storia di Psy-Group, una delle mille organizzazioni di “mercenari della rete”.
Ex militari, analisti dell’intelligence, agenti segreti, sviluppatori della Silicon Valley, hacker islandesi, guerriglieri del Corno d’Africa.

Al netto delle paranoie che hanno scortate l’elezione di Donald Trump – il nuovo undici settembre della cospirazione globale, quando il mantra è stato “sarà un complotto che vi seppellirà”il long form del «New Yorker» racconta come questa ex agenzia privata israeliana di intelligence non si limiti a raccogliere dati per sorvegliare e punire. Utilizza invece le più sofisticate tecniche di manipolazione per influenzare le persone.
È così da sempre.
Fine anni Cinquanta, tra le prime società che s’interessano alla raccolta e alla catalogazione dei dati c’è la Simulmatics Corporation, nata per orientare i flussi elettorali e per operazioni di spionaggio e controguerriglia in funzione anticomunista come contractor dell’esercito americano.

Tra i fondatori c’è Ithiel de Sola Pool, professore al MIT, pioniere della tecnologia applicata alle scienze sociali, creatore del modello teorico simulmatics e una delle menti dietro la creazione di Arpanet (Advanced Research Projects Agency Network), il progetto dell’esercito americano da cui nasce internet.

Da Simulmatics Corporation nasce Parlantir, poi Cambridge Analytica: le unisce un filo nero fatto di colpi di Stato, rivoluzioni fallite, elezioni falsate, bombe nelle piazze e nelle stazioni, stragi nelle scuole e nelle chiese, manuali di controguerriglia psichica urbana.

Taci! Il sistema ti sorveglia.
E per farlo, non conta a che grado di sviluppo siamo arrivati, ha bisogno dei suoi sgherri.

Ieri i guardiani del silenzio avevano il fez nero, il manganello e l’olio di ricino.
Oggi la tua obbedienza è monitorata da flussi d’informazioni che corrono a velocità iperuraniche nelle viscere della terra e finiscono immagazzinati in giganteschi server simili ai monoliti di 2001, Odissea nello spazio.
A manipolare questi flussi, a custodire questi bunker, ci sono sempre degli esseri umani.

Le migliori vittorie il sistema le ottiene quando riesce a farsi servire dai suoi avversari.
Come le squadracce fasciste erano composte per la maggior parte di criminali – al servizio di chi li pagava per controllare e reprimere i deviati, diversi e sovversivi –,
così le squadracce del surveillance capitalism sono composte per la maggior parte da hacker, mercenari ed ex agenti segreti.
Uomini dello Stato al servizio di chi li paga per controllare e reprimere i nuovi nemici dello Stato.
In questo modo il sistema ne esce pulito.

Ieri erano Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo, gli squadristi che uccisero Giacomo Matteotti all’insaputa del regime.
Oggi sono Psy-Group, Nso Group, Global Risk Advisor, DarkMatter, Black Cube, solo alcuni dei nomi di queste società private di intelligence incaricate di sorvegliare e punire il cittadino all’insaputa del “sistema” che dovrebbe proteggerlo.

E oggi che la società è liquida, i confini incerti, lo stato un’entità economica sovranazionale a geometria variabile, sono i “fondi sovrani” – a dispetto del loro nome, vere e proprie potenze multinazionali – a combattere per i dati: il nuovo oro nero. La guerra delle spie non è mai finita, e adesso si combatte lungo i cavi di fibra ottica che attraversano il pianeta e dentro i monoliti che immagazzinano il sapere.

La nuova guerra per procura si svolge in quel lembo di terra emersa dal sangue chiamata Medio Oriente, in cui – dietro il paravento della religione e dietro i nomi di luoghi geografici che non esistono più: Arabia Saudita, Israele, Iran, Qatar ed Emirati Arabi – le nuove “città-Stato” liquide dei fondi sovrani globali si danno battaglia.

Si fronteggiano tra loro e per conto degli ultimi imperi rimasti: la Cina, la Russia e gli Stati Uniti. L’Europa non è pervenuta.

Taci! Il sistema ti sorveglia.
Il nemico sei tu.
Gli ex dipendenti di Cambridge Analytica ora lavorano con Black Cube, sede in Israele.
Come Nso Group: due amici in un garage che assomiglia a una qualsiasi startup tecnologica. Ma quando sviluppano il loro primo dispositivo di sorveglianza, “Pegasus”, capace di leggere qualsiasi dato attraversi l’aria senza lasciare traccia, capiscono che non si limiteranno a costruire computer portatili di metallo argentato sempre più leggeri e veloci.
Con la scusa di aiutare il governo messicano a incastrare El Chapo, o quello saudita a difendersi dagli attacchi via stampa di Jamal Khashoggi, Nso Group spia i cittadini, fornisce previsioni dei loro movimenti e, quando è il caso, li indirizza.

Governi che cadono, elezioni che slittano, terroristi che colpiscono, gruppi armati pseudo rivoluzionari che appaiono improvvisamente oltre i confini della storia. Sorvegliare, punire e indirizzare. La gestione della devianza al servizio di chi paga meglio.

Nel campo di gioco globale delimitato dal quadrilatero Riyad, Gerusalemme, Teheran, Abu Dhabi, ecco spuntare Global Risk Advisors. La sede è a New York, i capitali arrivano da Doha.
Ma gli americani, attraverso CyberPoint, sono anche dentro Dark Matter, sede ad Abu Dhabi, la città-Stato rivale di Doha.

La guerra dei dati è una guerra liquida, senza fazioni contrapposte, tutti sono ovunque e nello stesso momento. Si attraversano schieramenti come si attraversava il Checkpoint Charlie ai tempi della Guerra Fredda: triplici e quadruplici giochi.

L’informazione è il potere, la sorveglianza le sue squadracce fasciste.
Che tu sia obbediente o deviante, che tu consumi o rubi, che tu abbia voglia di parlare o di lamentarti, di sottometterti o di ribellarti.
Sempre e comunque ti conviene stare zitto, fermo e immobile.
Taci! Il sistema ti sorveglia.
Il tuo unico alleato è la paranoia.
 

tontolina

Forumer storico
Facebook non può disattivare un account senza motivo

E se non lo riattiva subito paga una penale per ogni giorno di ritardo. Interessante sentenza del tribunale di Pordenone sulle cancellazioni degli account da parte di Facebook


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di Lucia Izzo - A Facebook non è consentito disattivare profili in base a violazioni solo presunte ed evidenziate senza contraddittorio. Il social network dovrà pagare una penale per ogni giorno di ritardo nella riattivazione dell'account immotivatamente disattivato.

Lo ha deciso il Tribunale di Pordenone che, pronunciandosi nella causa civile n. 2139/2018 (provvedimento qui sotto allegato), ha accolto il ricorso ex art. 700 c.p.c. promosso da un utente Facebook che si era visto disattivare e cancellare il profilo personale e, di conseguenza, era stato privato della possibilità di gestire la sua pagina presente sul social.
  1. Il caso
  2. Facebook: non consentite sanzioni sproporzionate senza consentire all'utente di giustificarsi
  3. Immediata riattivazione profilo Facebook: penale in caso di ritardi
Il caso
L'utente aveva pubblicato un video tratto dal profilo pubblico Instagram del Torneo di Wimbledon e relativo al punto decisivo in un incontro di tennis importante. Tale comportamento era poi stato segnalato a Facebook da una società che riteneva illegittimo l'uso del video.
Appena avvertito dell'illecito, il ricorrente aveva subito provveduto a rimuovere il video a scusarsi con la società, ma nonostante ciò Facebook aveva comunque bloccato e disattivato il profilo.
Da qui il ricorso d'urgenza al Tribunale volto ad ordinare a Facebook di ripristinare il profilo personale e riattivargli l'accesso alla gestione della pagina.

Ricorso che viene accolto in toto dal Tribunale che non riscontra alcuna chiara e reiterata violazione da parte dell'utente delle condiziona contrattuali o della normativa, fra cui quella relativa alla proprietà intellettuale, visto che il video era stato preso da una pagina pubblica.

Anzi, l'atteggiamento di Facebook, secondo il giudice, viola le stesse regole contrattuali stabilite dal social, nonché il diritto di libera espressione del pensiero come tutelato dalla Costituzione.


Facebook: non consentite sanzioni sproporzionate senza consentire all'utente di giustificarsi

Tra le obbligazioni assunte da Facebook vi è innanzitutto quella di garantire all'utente di "esprimersi e comunicare in relazione agli argomenti di interesse" così da aiutarlo a "trovare e a connettersi con persone, gruppi, aziende, organizzazioni e altri soggetti di interesse".
E la stessa società conferma che "l'utente è libero di condividere i contenuti con chiunque, in qualsiasi momento" e si impegna ad assicurare "l'offerta di esperienze coerenti e senza interruzioni nei prodotti delle aziende di Facebook".

Nel caso in esame il Tribunale ritiene che Facebook abbia sanzionato l'utente "senza consentire allo stesso di giustificarsi, adottando un rimedio del tutto sproporzionato rispetto agli addebiti mossi, finendo così non solo per violare le norme contrattuali, ma anche violando i diritti costituzionalmente garantiti al ricorrente".

Con riferimento al periculum in mora, il magistrato osserva che la necessità di un'immediata tutela delle ragioni del ricorrente si giustifica in ragione della circostanza che il prolungarsi del "congelamento" di una pagina Facebook determina l'assoluta perdita di interesse degli utenti nei confronti della stessa e, di conseguenza la vanificazione di tutto il tempo speso e l'attività svolta dal ricorrente per la sua implementazione, con l'irrimediabile perdita dei followers finora acquisiti.

Immediata riattivazione profilo Facebook: penale in caso di ritardi
Valutando la situazione, il Tribunale non solo ritiene vada accordata all'utente la tutela d'urgenza, che può essere concessa per neutralizzare qualsiasi periculum in mora che risulti essere imminente e irreparabile, ma anche debba essere applicato l'art. 614-bis del codice di rito che ha introdotto le c.d. "astreintes" (Misure di coercizione indiretta).
La norma consente al giudice di fissare, su istanza di parte e con il provvedimento di condanna all'adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro, una soma di denaro dovuta dall'obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del provvedimento.

Nel caso di specie, oltre a ordinare a Facebook l'immediato ripristino del profilo e la riattivazione del elativo accesso alla gestione della pagina, il giudice stabilisce che il social network dovrà pagare una penale all'utente di 150 euro per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione del provvedimento.

Scarica pdf Tribunale di Pordenone n. 2139/2018
Vedi anche:
Facebook: ecco gli aspetti legali che ognuno dovrebbe conoscere

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ItaliaOggi - Numero 296 pag. 24 del 15/12/2018
diritto e fisco
Stop alle censure immotivate da parte di Facebook - ItaliaOggi.it

Il tribunale di Pordenone ha imposto al social network una multa per ogni giorno perso
Stop alle censure immotivate da parte di Facebook
Il social network non potrà più disattivare profili sulla base di violazioni solo presunte e evidenziate senza contradditorio. Prevista una penale in capo all’azienda americana per ogni giorno di ritardo nella riattivazione dell’account immotivatamente disattivato. E’ quanto stabilito dal tribunale di Pordenone nella causa civile n. 2139/2018 pubblicata lo scorso 10 dicembre
di Michele Damiani
Scarica il pdf
 
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tontolina

Forumer storico
ma Facebook non ha capito bene e ha bloccato un altra persona che dichiara di voler denunciare
Facebook disattiva il militante di destra Alex Cioni: "cancellati ricordi"



Facebook disattiva Alex Cioni che accusa la sinistra: “cancellati anni di lavoro e ricordi personali”
Di Citizen Writers 13 Maggio 2019

Da sabato mattina – scrive il militante di destra Alex Cioni – il mio profilo personale attivo da dieci anni è stato arbitrariamente disattivato in modo permanente senza alcuna spiegazione, cancellando anni di lavoro oltre che di ricordi personali. Inutile dire che questa carognata, tra l’altro messa in atto in piena campagna elettorale, è la coerente conseguenza di una manovra liberticida provocata dalla segnalazione sistematica di agenti provocatori al servizio della peggiore sinistra intollerante e multirazzista.

Avaaz è una ong tutt’altro che sopra le parti, visto che un anno fa i suoi attivisti invitavano a votare contro la coalizione di centro-destra data per vincente in tutti i sondaggi. Così scrivevano sulla loro pagina facebook: “La coalizione Berlusconi Salvini Meloni è quasi maggioranza. Maggioranza. Ma possiamo fermarli, basta votare per il candidato con più possibilità di battere la destra nel tuo collegio. Il quattro marzo vota con la testa”.

Non ho intenzione di lasciare correre la questione, tanto da essere in procinto di presentare una denuncia avvalendosi tra l’altro di una sentenza del tribunale di Pordenone dello scorso dicembre con la quale il giudice ha dato ragione ad un utente che si era visto disattivare e cancellare il profilo.

Facebook ormai non è più solo una piattaforma privata, visto che la sua valenza politica e sociale a livello globale è ampiamente riconosciuta da studi e persino da sentenze. Come tale, quindi, non può più arbitrariamente decidere, fatte salve conclamate e motivate violazioni della propria policy.

Risulta evidente la sussistenza di un disegno ben preciso mirato a cancellare le voci dissonanti rispetto ad una narrazione minoritaria ma dominante che trova per l’appunto il sostegno dei poteri forti e l’ausilio di buona parte del sistema mediatico propedeutico ad indirizzare l’opinione pubblica verso un unico filone di pensiero.
 

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