Non c'è Pace Senza Giustizia (1 Viewer)

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Responsabilità civile magistrati

"Soddisfatti? N’anticchia. È una legge fatta per rassicurare i magistrati, non per responsabilizzarli veramente a non commettere errori sulla pelle delle persone, da Enzo Tortora a Giuseppe Gulotta". Parla chiaro Rita Bernardini, segretario nazionale dei Radicali Italiani che non a caso cita Tortora e il referendum dell’87 rimasto lettera morta. La legge renziana non la convince se non nell’eliminazione del "filtro di ammissibilità" e a Intelligonews spiega perché.

I Radicali per primi hanno portato avanti battaglie e referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Oggi che c’è la legge, qual è la sua opinione?
"Intanto noto un grande assente, anche dal dibattito politico e dai resoconti dei giornali: il grande assente è Enzo Tortora. Quella battaglia e la raccolta di firme portò al referendum del 1987 e fu fatta sul caso che noi Radicali abbiamo seguito contro tutto e contro tutti: Tortora ingiustamente schiaffato in galera, associato ai clan camorristici e definito ‘cinico mercante di mortÈ. La sua assoluzione fece da traino per il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati ed Enzo Tortora è stato presidente dei Radicali portando avanti una battaglia politica dopo aver provato sulla sua pelle come l’errore giudiziario poteva distruggere la vita delle persone. Oggi i giornali ricordano, al massimo, il referendum che abbiamo promosso nell’87 ma non la campagna politica messa in piedi precedentemente".

Dall’87 col caso Tortora alla legge di Renzi cosa è cambiato?
"Abbiamo visto che c’è una grande operazione per rassicurare i magistrati. Ho letto una cosa che ha dell’incredibile e cioè che per tranquillizzare le toghe hanno dovuto fare una relazione di accompagnamento alla legge nella quale si precisa che per ‘negligenza inescusabilÈ si intende un travisamento macroscopico ed evidente dei fatti, col ministro di Grazia e Giustizia che dice di essere pronto a cambiarla se ci saranno abusi. Tutto ciò dimostra il livello di consapevolezza anche nello scrivere un testo di legge rispetto a un problema col quale si confrontano tutti i cittadini".

Faccia un esempio.
"L’esempio è l’articolo 37-ter dell’ordinamento penitenziario, quello relativo al risarcimento per chi ha subìto trattamenti inumani e degradanti nelle carceri: in buona sostanza, non viene concesso quasi mai perché il provvedimento è scritto in un modo tale da essere interpretato dal magistrato – da Nord a Sud – come vuole. La cosa certa, è che solo l’1 per cento dei detenuti che hanno subito trattamenti simili alle torture possono arrivare a un risarcimento. E questo per il modo di legiferare che esiste in questo Paese".

Ma ci sarà pure qualcosa che la convince in questa legge.
"È stato eliminato il filtro di ammissibilità. Ricordo che a causa di questo filtro si è arrivati alla definizione in quasi trent’anni, solamente di sette casi di magistrati che hanno pagato per la loro responsabilità civile. Noi abbiamo il caso di Giuseppe Gulotta, la vicenda di Alcamo, condannato all’ergastolo nel ’90 poi assolto con formula piena nel 2012 con sentenza di revisione, dopo 22 anni passati in carcere. Ai giudici in un primo tempo disse di avere confessato perché sottoposto a trattamenti inumani simili alla tortura. Poi la revisione del processo con la confessione di chi aveva veramente commesso il fatto e l’assoluzione di Gulotta ma nel frattempo si è fatto venti anni di carcere. Non c’è stato un magistrato che abbia pagato per questo e adesso c’è l’Avvocatura dello Stato che si opporrebbe alla richiesta di risarcimento presentata da Gulotta perché lo Stato afferma che i magistrati che emisero la sentenza sarebbero stati tratti in inganno e non avrebbero avuto motivo di ritenere che Gulotta avesse subìto trattamenti simili alla tortura affinché confessasse. Ma ci rendiamo conto? Non è un caso che siamo l’unica forza politica ad aver fatto proprio il messaggio dell’allora presidente della Repubblica Napolitano".

L’Anm sostiene che la legge colpisce i magistrati. Lei cosa risponde?
"Ho letto che l’Anm dice che con questo provvedimento aumenteranno i processi e i contenziosi. Si accorgono adesso che la giustizia è lenta e lo è da almeno trent’anni? E che per questo l’Unione europea ci ha condannato? A loro rispondo che hanno la coda di paglia. Per non parlare della questione che viene gestita all’interno del Csm per la quale se un magistrato sbaglia non solo non paga ma viene semplicemente trasferito in un altro luogo".

Quindi siete soddisfatti a metà?
"Diciamo n’anticchia, perché il primo nodo da affrontare è quello della "illegalità" della nostra giustizia. Napolitano aveva detto che era un obbligo intervenire subito ma così non è stato. Non siamo soddisfatti anche perché nel nostro referendum oltre alla responsabilità civile dei magistrati c’era anche la questione della separazione delle carriere, gli incarichi extragiudiziali, i distacchi dei magistrati nell’amministrazione pubblica, il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, cioè una serie organica di puti che davano il quadro di una riforma complessiva della giustizia. Le pare che nella legge approvata dalla Camera ci sia tutto questo o che qualcuno stia parlando di separazione delle carriere o di riforma del Csm?".

Quindi per una volta sarà d’accordo con Salvini che dice che si tratta di un provvedimento che non cambierà nulla?
"No, perché Salvini ha una visione della giustizia, della sicurezza, che non può essere paragonabile alla nostra. Noi siamo per un diritto che recuperi le persone, lui invece ha un approccio punitivo, vendicativo, non ha alcuna umanità verso le persone che sbagliano. Mi divide tutto da lui; forse posso essere d’accordo sul fatto che in Italia ‘fatta la legge trovato l’inganno’ ma questo vale per ogni campo fino a quando non ripristiniamo uno Stato di diritto e facciamo tornare l’Italia ad essere un Paese democratico".

Lucia Bigozzi
 

Dogtown

Forever Ultras Ghetto
Mio umile pensiero:

certezza della pena, su tutto. Chi sbaglia paga, subito, poi ricomincia. Altrimenti non se ne esce con il buonismo, la diplomazia e il laisser-faire.

Se uno è consapevole che fottendo ottiene benefici maggiori che rispettando le leggi, quand'anche venga scoperto o colto in flagarante è legittimato a farlo perchè tanto sa che quello che ha ottenuto rubando, fottendo, uccidendo...fregandosene di tutto&tutti è maggiore di quello che avrebbe ottenuto rispettando la legge e le regole.

In più se ti beccano ti fanno anche lo sconto di pena...di tasse...di tutto...che pena di Paese che siamo.:sad:
 

Dogtown

Forever Ultras Ghetto
Mio umile pensiero:

certezza della pena, su tutto. Chi sbaglia paga, subito, poi ricomincia. Altrimenti non se ne esce con il buonismo, la diplomazia e il laisser-faire.

Se uno è consapevole che fottendo ottiene benefici maggiori che rispettando le leggi, quand'anche venga scoperto o colto in flagarante è legittimato a farlo perchè tanto sa che quello che ha ottenuto rubando, fottendo, uccidendo...fregandosene di tutto&tutti è maggiore di quello che avrebbe ottenuto rispettando la legge e le regole.

In più se ti beccano ti fanno anche lo sconto di pena...di tasse...di tutto...che pena di Paese che siamo.:sad:


un altro esempio di ciò che ci aspetta: le generazioni future, completi decerebrati e violenti...una di 17 anni che mena una bambina di 12 anni e nessuno, dico nessuno interviene.

Non c'è bisogno di andare dalla famiglia in questi casi...1 anno di riformatorio e tutte le mattina sveglia alle 5 e poi a lavorare all'aria aperta sino al tramonto senza storie...sotto il sole e sotto l'acqua, sempre...e appena ti lamenti un calcio nel culo.

Giunti a questo punto l'educazione di persone del genere deve passare per l'unica "lingua" che sono in grado di comprendere.

Poi se ne riparla, dopo un anno di "lezioni"...tutti i giorni.

http://www.corriere.it/cronache/15_...1e4-911e-3d01b106f698.shtml#commentFormAnchor
 
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nonmollare

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Mafia: Corte di Strasburgo, Contrada non andava condannato

14 aprile 2015 ANSA

Bruno Contrada non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non "era sufficientemente chiaro". Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani. Lo Stato italiano deve versare all'ex numero due del Sisde 10 mila euro per danni morali.

''Ho presentato due mesi fa la quarta domanda di revisione del processo a Bruno Contrada e la corte di appello di Caltanissetta mi ha fissato l'udienza il 18 giugno. La sentenza di Strasburgo sarà un altro elemento per ottenere la revisione della condanna''. Lo dice l'avvocato Giuseppe Lipera legale dell'ex numero 2 del Sisde. ''Ora capisco perché nonostante le sofferenze quest'uomo a 84 anni continui a vivere'', conclude Lipera.

''Ventitre anni di vita devastati non potrà restituirmeli nessuno. Così come i 10 anni trascorsi in carcere''. E' il primo commento di Bruno Contrada.

Bruno Contrada si è rivolto alla Corte di Strasburgo nel luglio del 2008 affermando che - in base all'articolo 7 della Convenzione europea dei diritti umani, che stabilisce il principio "nulla pena sine lege" - non avrebbe dovuto essere condannato perché "il reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso è il risultato di un'evoluzione della giurisprudenza italiana posteriore all'epoca in cui lui avrebbe commesso i fatti per cui è stato condannato". I giudici di Strasburgo, a differenza di quanto fatto da quelli italiani, gli hanno dato ragione, affermando che i tribunali nazionali, nel condannare Contrada, non hanno rispettato i principi di "non retroattività e di prevedibilità della legge penale". Nella sentenza i giudici affermano che "il reato di concorso esterno in associazione mafiosa è stato il risultato di un' evoluzione della giurisprudenza iniziata verso la fine degli anni '80 e consolidatasi nel 1994 e che quindi la legge non era sufficientemente chiara e prevedibile per Bruno Contrada nel momento in cui avrebbe commesso i fatti contestatigli".

La Corte di Strasburgo sostiene anche che i tribunali italiani "non hanno esaminato approfonditamente la questione della non retroattività e della prevedibilità della legge" sollevata più volte da Bruno Contrada, e che non hanno quindi risposto alla questione "se un tale reato poteva essere conosciuto da Contrada quando ha commesso i fatti imputatigli". Contrada aveva chiesto alla Corte di accordargli 80 mila euro per danni morali, ma la Corte ha stabilito che lo Stato italiano dovrà versargliene solo 10 mila. I giudici di Strasburgo hanno respinto anche la richiesta di riconoscergli quasi 30 mila euro per le spese processuali sostenute a Strasburgo, ordinando all'Italia un risarcimento limitato a 2.500 euro.


LA MIA PRIGIONE di Bruno Contrada
storia vera di un poliziotto a Palermo

È la vigilia di Natale del 1992 quando Bruno Contrada, dirigente del Sisde con alle spalle una lunga carriera in Polizia, viene arrestato a Palermo con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Al termine di una complessa vicenda giudiziaria sarà condannato a scontare dieci anni di reclusione. Da allora Contrada non ha mai smesso di proclamare la sua innocenza portando avanti una tenace battaglia. Nato dall'incontro con la giornalista Letizia Leviti, questo libro raccoglie il racconto dei fatti, i ricordi, le considerazioni, le previsioni di un uomo che nell'arco della vita ha conosciuto la mafia e i mafiosi, la politica e i politici, la magistratura e i magistrati. E ha conosciuto il carcere. Ripercorrendo decenni di storia d'Italia - dal suo arrivo a Palermo nel 1962 a oggi - Contrada affronta tutti i risvolti, anche i più oscuri, della sua storia: le accuse dei pentiti, i rapporti con Falcone e Borsellino, il suo presunto coinvolgimento nella strage di via d'Amelio, la trattativa stato-mafia. A completare il quadro, un documento inedito: un'informativa sulla situazione della mafia a Palermo e provincia che Contrada stilò nel 1982 all'indomani dell'omicidio La Torre, in cui per primo faceva riferimento all'esistenza della cosiddetta «zona grigia». Risultato di un profondo travaglio morale, il libro si compone di tante risposte, ma genera altrettante inquietanti domande.


presentazione del libro
https://www.youtube.com/watch?v=rrrZSAKYkLk

Si può scaraventare in carcere di massima sicurezza per anni una Persona che ha servito la Patria salvandola da pericoli immani ( mi chiedo se abbiamo più una Patria o un patrigno!) solo perché alcuni specchiati tagliagole hanno "cantato" per tornaconto? Non risulta ad oggi che i pentiti siano seminaristi ma efferati criminali. La parola di un Uomo, Bruno Contrada, contro le farneticazioni ad orologeria di ominicchi. E non solo la sua parola ma anche quella di centoquarantadue uomini delle istituzioni che sono andati a testimoniare la verità dei fatti non è stata creduta. Hanno testimoniato del suo operato contro la criminalità organizzata mafiosa molti alti rappresentanti dello Stato tra cui tanti ricoprenti altissime cariche istituzionali. Cinque capi della polizia che si sono succeduti nel tempo, cinque Direttori Generali del Sisde, trenta Questori, ventidue Prefetti e tanti tanti Ufficiali dei Carabinieri, della Polizia, della Guardia di Finanza, e così via. Queste testimonianze non sono state ritenute valide. Ma valida si la parola dei pendagli da forca! E’ semplicemente inaudito! Per i giudici sono risultati degni di fiducia i "pentiti!" Pentiti di che? Un giorno forse qualcuno spiegherà cosa sia veramente accaduto in questo tempo! Forse. Ma saremo già morti!

Chi combatte la mafia rischia il fango
bruno contrada
 
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Il mostro è innocente

di Davide Vari

Contrada era un servitore dello Stato e non un uomo al servizio dei boss. L’ha stabilito ieri la corte di Strasburgo: «L’accusa di concorso esterno non era sufficientemente chiara». Poche parole che radono al suolo 23 anni di indagini, centinaia di udienze, polemiche feroci, bugie e mezze verità. Come quella di Antonino Caponnetto che in
un’aula del Tribunale riferì che Giovanni Falcone «disprezzava» il poliziotto del Sisde.

Di più, nel corso del processo di primo grado a Contrada, l’ex capo del pool di Palermo raccontò un episodio che avrebbe dovuto definitivamente chiarire il rapporto conflittuale e avvelenato tra l’ex uomo del Sisde, il traditore di Stato, e l’icona antimafia, Giovanni Falcone: «Quando Contrada venne interrogato sull’omicidio
Mattarella – raccontò Caponnetto – mi rimase impresso un gesto di Falcone: una volta che Contrada ebbe terminato, entrambi, io e Falcone, ci alzammo per stringergli la mano. Poi Falcone la fissò per qualche istante e la pulì vistosamente sui pantaloni. Era un chiaro segno di ribrezzo».

Ma qualcosa non torna: il fatto è che quel giorno il giudice Falcone non era in aula. Di più l’interrogatorio a Contrada non era stato verbalizzato dall’ufficio istruzione di Falcone ma dal procuratore della Repubblica Vincenzo Pajno in persona, come verificarono gli avvocati e pochi, coraggiosi, giornalisti. E di fronte alla richiesta di qualche straccio di prova di quel che andava dicendo, Caponnetto cambiò versione e, con un’alzata di spalle, disse che forse si era sbagliato, che Falcone non lo disse in aula ma, “eventualmente”, nel suo studio. Ma questa è solo anedottica che pure ha contribuito a distruggere la carriera, e la vita, dello 007 italiano.

La vita di Bruno Contrada va in frantumi la notte di Natale del 1992. Quattro pentiti sostengono che lui è il riferimento della mafia siciliana e tanto basta a rinchiuderlo preventivamente nel carcere militare di Forte Boccea dal quale uscirà solo 31 mesi e 7 giorni dopo. «Non c’era nessuna necessità di arrestarmi la vigilia di Natale – racconterà molto tempo dopo Contrada -. Avevo il telefono sotto controllo, sapevano benissimo che avrei passato le feste a casa con i miei figli. In anni di servizio non mi è mai capitato di arrestare i criminali nel giorno di Natale…».

Nel frattempo la pratica passa ad Antonio Ingroia che nel ‘95 – e anche grazie agli “aneddoti” di Caponnetto -ottiene una condanna a 10 anni di carcere per concorso esterno. Nella sua requisitoria, Ingroia accuserà Contrada di essere «un funzionario a totale servizio di Cosa nostra, l’anello di una catena all’interno di un patto scellerato tra pezzi dello Stato e la mafia, responsabile del tradimento nei confronti di Boris Giuliano e Ninì Cassarà fino ad arrivare alla strage di Capaci». Contrada cascò dalle nuvole, era legato da una fortissima amicizia con Cassarà, il poliziotto ucciso dai corleonesi nell’agosto dell’85:«Avevo un rapporto fraterno con Ninì, ci chiamavano Castore e Polluce. Quando lasciai il comando della Mobile di Palermo lo lasciai a lui, lo lasciai per lui…».

Passano gli anni, 5 per la precisione, il processo arriva di fronte ai giudici della Corte d’Appello di Palermo che sconfessano l’istruttoria e ribaltano il primo grado: Contrada viene assolto perché il fatto non sussiste, ma nel 2002 la Cassazione decide che l’Appello va rifatto davanti a una diversa sezione della Corte di Palermo.
Il nuovo appello, dopo 35 ore di camera di consiglio, conferma la condanna a 10 anni di carcere e nel 2007 la Cassazione conferma la sentenza. Contrada torna in carcere, a Santa Maria Capua Vetere, e chiede la revisione del processo che, dopo un lungo tira e molla, viene negata: «La richiesta è inammissibile», scrivono i giudici.
L’odissea giudiziaria, a quel punto, sembra finita. Per la giustizia italiana Bruno Contrada è un funzionario dei Servizi al soldo dei clan.

Iniziano le pratiche per la richiesta di grazia che lui rifiuta: «Sono un servitore dello Stato e sono innocente, non voglio nessuna grazia. Dallo Stato mi aspetto un grazie e non una grazia», ripeterà dal carcere dove vive sempre più isolato e malato.

Al solo sentir parlare di grazia, Rita Borsellino, la Fondazione Caponnetto e la Fondazione Scopelliti, levano gli scudi e, nonostante le gravi condizioni di salute dell’ex 007, chiedono un incontro con Napolitano per bloccare qualsiasi iniziativa. L’associazione delle vittime di via dei Georgofili tira addirittura in ballo presunti ricatti da parte di Cosa nostra allo Stato. Sono i primi indizi della teoria della trattativa tra Stato e mafia: «È importante da parte delle massime Istituzioni – spiega l’Associazione – ascoltare la voce di chi come noi ha pagato un prezzo incredibile, perché servitori dello Stato hanno tradito questo Paese. Ma soprattutto perché si sappia fino in fondo, che la mafia in carcere condannata per le stragi del 1993 sta giocando una partita per lei molto importante a suon di ricatti».
E qui occorre aprire una parentesi. Contrada aveva infiltrati, confidenti e poteva contare su tutta quella serie di legami indispensabili per un uomo del Sisde. Chi lavora per i Servizi si muove su un crinale ambiguo, vive al confine della linea d’ombra, lì dove le regole del normale ingaggio saltano, si trasformano, diventano più flessibili. E proprio lì, lungo quel confine, si creano legami veri e legami ambigui, ci sono amici e nemici, si fanno patti che un minuto dopo si tradiscono.

E proprio grazie a quei patti (o tradimenti) Contrada arrivò a un passo dalla cattura di Bernardo Provenzano. Siamo alla fine di novembre del ‘92. Lo 007 ottiene notizie confidenziali su alcune utenze che fanno riferimento al nascondiglio di Provenzano. Erano i numeri di un nipote del boss che faceva da tramite tra lo zio e gli uomini di Cosa nostra. Contrada si ferma: il suo compito è quello di raccogliere informazioni e passarle agli “operativi”. Allora va a raccontare tutto al capo della Criminalpol, il quale gli dà l’incarico di scegliersi gli uomini migliori per portare a termine l’operazione Provenzano. Contrada si mette immediatamente al lavoro e nel giro di poco tempo riesce a beccare il nascondiglio del boss. E con il covo sotto controllo la sua cattura era davvero a un passo. Lui riferisce ai superiori e rimane in attesa dell’ok, ma qualche giorno dopo arriva una velina dal ministero dell’Interno che chiede di sciogliere la squadra messa in piedi da Contrada con effetto immediato. Pochi giorni dopo lo 007 viene arrestato. Mistero. Due le ipotesi: o il ministero sapeva che su Contrada c’era un’indagine che di lì a poco lo avrebbe portato in galera, oppure l’ex 007 finisce in galera perché Provenzano doveva restare uccel di bosco. E se così fosse, non solo l’ex 007 non sarebbe un uomo della trattativa, ma una vittima sacrificale. Del resto le mancate catture di Provenzano hanno lasciato sul campo tante vittime e costruito nuovi eroi tra togati e giornalisti. Ma questa è un’altra (strana) storia.

Torniamo al 2007 e a quella richiesta di grazia che viene regolarmente negata. Contrada a quel punto finisce in ospedale: ha perso 22 chili e i suoi avvocati chiedono il differimento della pena e la richiesta dei domiciliari proprio per le gravi condizioni di salute del condannato. Le associazioni protestano ancora una volta e il presidente Napolitano – memore delle “minacce” sulla trattativa Stato mafia – scrive al Guardasigilli per bloccare tutto: Bruno Contrada può tranquillamente morire in carcere. Lui è rassegnato da tempo e arriva addirittura a chiedere l’eutanasia. Uscirà dal carcere, malato e umiliato, solo nel 2012.

Prima della sentenza di ieri, nel 2014 Strasburgo aveva già condannato l’Italia: «La detenzione era incompatibile con il suo stato di salute», e ora, a distanza di 23 anni da quel giorno di Natale in cui fu trascinato in carcere, sempre dall’Europa arriva una seconda sentenza che rade al suolo decenni di controversie legali: l’ipotesi di aver aiutato i boss siciliani non è sufficientemente chiara, dicono i giudici. Fin qui la fredda cronaca. Ma la storia di Contrada è piena di chiaroscuri, di detti e non detti, ed è attraversata da vicende che si impastano con la storia più cupa e contraddittoria della nostra Repubblica e dei nostri eroi presunti.
 

nonmollare

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Roberto Berardi

Roberto Berardi è l'imprenditore di Latina detenuto in Guinea Equatoriale dopo un processo farsa che nel 2013 lo ha condannato a 2 anni e 4 mesi di carcere a seguito delle accuse rivoltegli dal suo ex socio in affari Teodorin Nguema, vicepresidente del paese, ex ministro di molte cose e figlio di Teodoro Nguema al potere dal 1979.

Berardi ha scontato la pena e il 19 maggio avrebbe dovuto essere liberato dal terribile carcere di Bata dov'è rinchiuso ma così non è stato e ora non è chiaro se e quando sarà scarcerato e potrà tornare in Italia. La Guinea Equatoriale è considerata dalle principali organizzazioni per i diritti umani la seconda peggiore dittatura africana dopo l'Eritrea
 

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nonmollare

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Padre condannato, ora i figli ritrattano

'Erano tutte invenzioni dettate dalla madre', e chiedono la revisione del processo

ANSA
I figli ritrattano dopo 15 anni e chiedono la revisione del processo nei confronti del padre, condannato a nove anni e due mesi per abuso sessuale su minori. La vicenda è avvenuta tra la Sardegna, terra d'origine della famiglia in questione, e la città lombarda dove padre, madre e due figli hanno vissuto per anni e dove sono state depositate le prime denunce nei confronti del genitore, di 46 anni, oggi rinchiuso nel carcere di Sassari.

"Quello che avevamo detto io e mio fratello erano tutte invenzioni dettate da quello che mia madre ci diceva. Lei voleva allontanare mio padre e ci faceva dire che nostro padre abusava di noi", afferma oggi il figlio più grande della coppia, Gabriele che ha 24 anni e che fino a 18 anni ha vissuto in diverse comunità nel Bresciano a causa delle liti tra i genitori sull'affidamento. All'epoca dei fatti contestati al padre, Gabriele aveva 12 anni mentre il fratello Michele ne aveva 9.

"Agli atti ci sono solo le dichiarazioni di due bambini e nessun'altra prova contro mio padre - spiega il ragazzo -. Nessuno ci ha mai chiesto di raccontare la nostra verità". Per il legale del padre dei due ragazzi, l'avvocato bresciano Massimiliano Battagliola, "la clamorosa ritrattazione dei due figli a distanza di 15 anni oggi assume il valore di una nuova prova e per questo chiediamo alla Corte d'Appello di Roma la revisione del processo".
 

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