Non c'è Pace Senza Giustizia (1 Viewer)

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Sentenza Del Turco. Vittima di un’inquisizione senza prove

E va bene: bisogna attendere, come si dice ogni volta, che siano rese note le motivazioni della sentenza che ha condannato Ottaviano Del Turco a nove anni e mezzo di reclusione. Si attenderà, con una punta di curiosità, per vedere come si giustificherà un qualcosa che non si capisce come possa essere giustificato. Chi, grazie al servizio pubblico offerto e garantito da “Radio Radicale”, ha potuto seguire tutte le varie fasi del dibattimento, non può che essere afferrato da un senso di sgomento, di smarrimento, di incredulità. Lo steso senso di sgomento e di smarrimento che ieri pomeriggio abbiamo manifestato in una breve conversazione con l’avvocato difensore Giandomenico Caiazza che aveva appena lasciato l’abitazione del suo assistito a Collelongo. E di cosa ti stupisci?, ha risposto Giandomenico, e potevi immaginarla l’espressione di malinconico divertimento nel replicare alle nostre osservazioni. “Questo è il paese. Non poteva che finire come è finita, in primo grado, l’avevo pur anticipato: Del Turco non poteva che essere condannato…”.

Già: messa da parte la nostra ingenuità, a ragionarci freddamente, Del Turco non poteva che essere condannato. Si poteva smentire, e contraddire in modo clamoroso, l’operato di una procura che prima smantella la giunta abruzzese di centro-destra, poi quella di centro-sinistra? Certo che no. Al massimo, nelle pieghe della motivazione, si potranno trovare appigli che consentano in appello di ribaltare la sentenza. Per questo varrà la pena di attenderle e di studiarle con attenzione. Per il resto…

Per il resto, Del Turco ha trascorso il pomeriggio di ieri con i giornalisti, che dopo aver snobbato per mesi il suo processo, si sono finalmente accorti della vicenda, e sono andati a chiedergli il commento di prammatica. Sono le interviste a Nino Cirillo per “Il Messaggero” e Corrado Zunino di “Repubblica” che colpiscono: “Un processo alla fine del quale sono stato condannato senza lo straccio di una prova, esclusivamente sulla base delle accuse di questo Angelini, il ras delle cliniche abruzzesi. La mia parola contro quella di un bancarottiere”.

Ancora, alla domanda se crede ancora nella giustizia: “Certo che ci credo. Ma questo non mi impedisce di cogliere la logica inquisitoria che la devasta. Ci sono magistrati che sono stati PM per tutta la vita e che alle soglie della pensione si ritrovano presidenti di una corte: come possono cambiare? Ecco, questo è il problema della giustizia italiana, mica Berlusconi”.

Le amicizie, le solidarietà: “Mi viene in mente che non parlo più con Veltroni dal giorno in cui mi scrisse una lettera in cui si augurava che sarei riuscito a dimostrare la mia innocenza. Come ai tempi dell’Inquisizione, quando non toccava all’accusa dimostrare le responsabilità”… “Hanno cercato disperatamente le prove per quattro anni e non hanno mai trovato un euro, né la traccia di un euro. D’altronde viaggio in Panda e trascorro i miei Natali a Collelongo”.

Tra le prove, una fotografia nella quale si vedrebbe Del Turco che prende una busta sull’uscio di casa: “Sa cosa c’era dentro quella busta? Castagne, noci, mele. È la foto di un anno prima rispetto alla presunta tangente. Le nostre perizie hanno smontato tutto…”.
E infine: “Che si tratti di un errore giudiziario non lo debbo dire io. Quanto all’errore politico, di sicuro quando si tratta di giudicare vecchi quadri socialisti come me, va tutto sin troppo veloce…”.

Del Turco confida che quando gli hanno comunicato l’esito della condanna si è sentito “un po’ come Tortora: malato, innocente e condannato come lui a dieci anni…”. Per quel che vale, siamo d’accordo.

Walter Vecellio, 23 luglio 2013
 
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Ho vinto la mia battaglia ma in carcere troppi innocenti

Silvio Scaglia, fondatore di Fastweb, parla dopo l’assoluzione


Stasera è finita la battaglia più dura della mia vita. Sono molto contento di essere tornato volontariamente in Italia e di essermi sottoposto con fiducia alla nostra giustizia». Gran brusio di sottofondo ed eccitazione alle stelle tra i collaboratori italiani di Silvio Scaglia. Lui, che dagli altari di Fastweb - di cui è stato uno dei fondatori e l’amministratore delegato - era precipitato rovinosamente nella polvere della carcerazione cautelare per associazione a delinquere transnazionale pluriaggravata, non perde la sua flemma anche se ricorda «un anno esatto di carcerazione preventiva, di cui tre mesi a Rebibbia e altri nove ai domiciliari in Valle d’Aosta». Dopo le sue vicende giudiziarie, oggi Scaglia è un imprenditore che ha scelto di investire nel business della moda e della bellezza femminile - le modelle di Elite Group e l’intimo di La Perla - ed è già forte in un mercato da noi sconosciuto come quello della musica in Cina con la sua etichetta Gold Typhoon. Ma soprattutto, da ieri sera, è un uomo assolto dalle accuse che gli erano piombate addosso più di tre anni fa.

Che cosa le resta di questa esperienza, ingegner Scaglia?
«La consapevolezza che ci sono battaglie che vanno combattute. È l’unico modo per ristabilire il proprio onore, se mi passa l’espressione per salvare il proprio nome. Ma sono battaglie che in questo, come in tanti altri casi, sono quasi impossibili da combattere per le condizioni in cui uno si trova. La cosa tremenda quando si finisce nella mia condizione è che tutti ti trattano immediatamente come un colpevole. Sull’onda di questa vicenda stavano anche per buttare via una grande azienda come Fastweb senza troppa attenzione. Sono cose che lasciano il segno sulle persone, ma anche sulle società».

Lei però è stato un imputato in qualche modo privilegiato, con tanto di sito web per rendere nota la sua posizione e la sua linea difensiva...
«Di certo lo sono stato, anche perché mi sono potuto permettere i migliori avvocati. Ma le assicuro che per tantissime persone che ho incontrato in prigione non è così. La metà delle persone che sono in carcere sono in attesa di giudizio e la metà circa di loro sono destinate a non essere poi condannate. Si tratta di decine di migliaia di individui, faccia lei i calcoli...».

Il Presidente Giorgio Napolitano sollecita misure per ridurre il sovraffollamento delle carceri. Lei concorda dopo la sua esperienza?
«Le carceri sono un posto orribile e il sovraffollamento, non a caso, è ciò di cui ci accusano in sede internazionale. Trovo che la battaglia del Presidente sia sacrosanta».

Lei questa sera è giustamente soddisfatto, ma il saldo tra l’assoluzione e la lunga carcerazione preventiva è positivo o negativo?
«Ovviamente è negativo perché la mia battaglia è stata durissima e inutile, nel senso che per le condizioni in cui sono stato messo ho dovuto faticare molto per far passare le mie ragioni».

Le resta un senso di sfiducia nella giustizia italiana?
«No, non direi, anzi alla fine mi pare che la giustizia abbia funzionato. Non mi parrebbe giusto generalizzare, anche se mi resta la rabbia verso il comportamento di un gruppo di procuratori».

Quando la sua vicenda sarà finita definitivamente ancora Italia o via dall’Italia?
«Ho appena investito in Italia con la mia holding Pgm, acquistando il marchio La Perla. Anzi direi che sono uno dei pochi che in questa fase ha scommesso in modo pesante su questo Paese. Poi vivo fuori dall’Italia, ma questo già da prima dell’arresto, per motivi familiari».

Francesco Manacorda
 
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27 novembre 2013

“Le ricordo che come teste lei non deve fare ipotesi, ma raccontarci fatti visti o parole sentite”. Quante volte chi frequenta le aule giudiziarie ha sentito il presidente rimbrottare così un testimone? Spesso il malcapitato replica: “Ma io non so nulla di quello che mi si chiede. Posso solo fare ipotesi”. A quel punto l’uomo con la toga piazza il colpo decisivo: “Allora non ci interessa. Se ne può anche andare”. Il teste abbandona l’aula con la coda fra le gambe, accompagnato da sguardi ostili. Quello del pm dice chiaramente: “Ringrazia, che ti è andata anche bene”. Funziona così. Col presidente della Repubblica sta andando al contrario. Li ha avvertiti prima per lettera. “Guardate che non so nulla delle ipotesi che il mio compianto consigliere faceva sulle vostre ipotesi. Dovrei fare ipotesi sulle ipotesi che un altro faceva a proposito di ipotesi di terzi. Credo proprio non possa servirvi”. Travaglio nota che un teste normale non può decidere prima se quello che dirà interessi o meno i giudici. Ma il presidente della Repubblica non è un teste normale, infatti sulla sua testimonianza c’è un articolo apposta del codice. E nessun giudice può dirgli: “Se ne vada”, perché deve andarlo a sentire al Quirinale. Per questo gli ha scritto prima quella lettera, alla quale tutti danno per sicuro che i giudici alla fine risponderanno: “Veniamo lo stesso”. Qualcuno sta esagerando e non è il presidente della Repubblica.

di Massimo Bordin
 

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24 gennaio 2014

Alla presenza del capo dello Stato Giorgio Napolitano, Santacroce ha fatto i conti dell'arretrato colossale che pesa sulla giustizia italiana:

5 milioni e 250 mila cause civili, 3 milioni e duecentomila processi penali.
 

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Il pm Diego Marmo: “Su Tortora ho sbagliato, chiedo scusa alla famiglia

di Francesco Lo Dico. 27 giugno 2014

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«Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. E adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Agii in perfetta buona fede». Dopo un lungo corpo a corpo fatto di reciproci pregiudizi, di frasi smozzicate e di estrema diffidenza, Diego Marmo, il pm che inchiodò Enzo Tortora con una dura requisitoria rimasta negli annali, si è finalmente svestito della toga. Ma prima, prima di questo, c’è la foga di chiedere, di giudicare senza appello a nostra volta.

Ci sono state molte polemiche per la s
ua nomina ad assessore alla Legalità a Pompei. Ma ha dichiarato al Velino che il caso Tortora è un “episodio” della sua carriera. Non le pare di aver liquidato la vicenda con troppa sufficienza?
A domanda ho risposto. Si parlava della mia nomina ad assessore a Pompei. La storia del mio coinvolgimento sul caso Tortora è tutto un altro capitolo, un capitolo di un’attività professionale lunga 50 anni, che non può essere affrontato in due minuti. La cosa è molto più complessa.

Eppure lo ha fatto. Ha definito come “episodio” il più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana. É sembrato che stesse dicendo: “Ora faccio l’assessore, e chissenefrega di Tortora”.
In trent’anni non ho mai pensato o detto “chissenefrega del caso Tortora”. Immaginavo che potessero sorgere polemiche sulla mia nomina. Ma alla fine ho deciso di accettare perché la situazione degli scavi di Pompei mi sta particolarmente a cuore. Esercitando la funzione di procuratore a Torre Annunziata, mi sono convinto dello stato di abbandono nel quale si trova la città antica.

Verrà pagato per questo incarico?
Lavorerò a titolo gratuito, mi pagherò anche la benzina. E se la mia presenza dovesse provocare difficoltà al buon funzionamento della giunta, sono pronto a lasciare. Il sindaco mi ha scelto senza conoscermi personalmente perché probabilmente ha apprezzato il mio lavoro da procuratore. Ho accettato perché sono dell’avviso che la legalità non va predicata ma praticata. Ho lasciato la Procura di Torre Annunziata con amarezza.

A che cosa si riferisce?
Parlo dell’omicidio di Vero Palumbo. Faceva il meccanico. La notte del 31 dicembre, mentre giocava a scopa, è stato ucciso dai colpi d’arma da fuoco della camorra che festeggiava barbaramente il Capodanno. Ho promesso alla sua famiglia che avrei trovato l’assassino. Non ci sono riuscito. Questa nomina potrebbe aiutarmi a sollecitare il legislatore ad estendere i benefici che riguardano le vittime della camorra anche alla vedova e alla figlia, alle quali questo status non viene riconosciuto.

Sembra un uomo capace di provare rammarico. Perché per Tortora non ne ha mai provato?
È quello che ha sempre pensato il circo mediatico. Quello che avete sempre pensato tutti voi. Ma il rammarico c’era da tempo. L’unica difesa che avevo era il silenzio.

Se provava rammarico, non era meglio manifestarlo? Perché ha taciuto?
Perché nessuno prima d’ora me lo aveva mai chiesto. Vi siete accaniti contro di me. Mi avete condannato. Venivo sempre aggredito. Ma nessuno ha mai pensato di interpellarmi o ascoltarmi.

È lei che ha chiesto la condanna di Tortora senza prove. La ascolto volentieri.
Il mio lavoro si svolse sulla base dell’istruttoria fatta da Di Pietro e Di Persia. Tortora fu rinviato a giudizio da Fontana. Io feci il pubblico ministero al processo. E sulla base degli elementi raccolti, mi convinsi in perfetta buona fede della sua colpevolezza. La richiesta venne accolta dal Tribunale.

Non avevate niente: nessun controllo bancario, nessun pedinamento, nessuna intercettazione. Solo la “nazionale dei pentiti”. Come ha potuto chiedere 13 anni per il presentatore?
Mi vuole fare il processo?

No,voglio delle risposte.
A ciascuno il suo. Mi faccia rispondere di quello che ho fatto io. Gli elementi raccolti in fase istruttoria mi sembrarono sufficienti per richiedere una condanna. Ma Tortora non era l’unico imputato di quel processo. Insieme a lui c’erano altri 246 imputati. Io chiesi un terzo di assoluzioni. Si sono dette anche molte menzogne sul mio conto. Tempo fa mio figlio mi chiamò allibito. Mi disse: “Papà, in televisione hanno appena detto che hai fatto arrestare Tortora”.

Si sente il capro espiatorio?
Molte anime belle, e anche tanti giornalisti e colleghi, batterono allora la gran cassa contro l’imputato eccellente. Molti sono gli stessi che ancora oggi gridano allo scandalo. Ma in Italia si dimentica in fretta. E pochi sanno che in Procura mi indignai per le sfilate degli uomini in manette davanti alle telecamere. Nei trent’anni successivi di carriera, come in precedenza, non lo permisi mai.

Incise la pressione mediatica sul processo? Perdere l’imputato eccellente sarebbe stato un duro colpo per il vostro operato?
Facemmo di tutto per perdere l’imputato eccellente. Era una presenza che avrebbe creato una bufera. La pressione mediatica fu terrificante, lo ammetto. Ma c’era molta più sete di sangue di quanto non sembri oggi. Erano molti, in giro, i “Diego Marmo”. Ma sul banco degli imputati sono rimasto io solo.

È vero. Ma nell’immaginario è rimasto come il carnefice di Tortora perché lo definì un “cinico mercante di morte”, un “uomo della notte” ben diverso dal bravo presentatore di Portobello. Non giudicò l’imputato, giudicò anche l’uomo. Lei andò oltre, lo ammetta.
La requisitoria durò circa una settimana, quella nei confronti di Tortora durò alcune ore. La frase venne inserita in un contesto accusatorio. Certamente mi lasciai prendere dal mio temperamento. Ero in buona fede. Ma questo non vuol dire che usai sempre termini appropriati, e che non sia disposto ad ammetterlo. Mi feci prendere dalla foga.

Come le venne in mente di dire che Tortora era stato eletto con i voti della camorra?
Non l’ho detto.

Si, lo ha fatto. Lo abbiamo sentito tutti.
Non era quello che è stato inteso. Il mio discorso era molto più articolato. Pur precisando che né Tortora né i Radicali avevano chiesto voti alla camorra, feci notare viceversa che la malavita aveva sponsorizzato alcune candidature per trarne vantaggio. Ne ebbi riscontro dalla stampa e dai tabulati che mi consegnarono i carabinieri. Era emerso che al carcere di Poggio Reale, e nel triangolo Bagheria, Altavilla, Casteldaccia, i radicali avevano preso moltissimi voti. Ma sono altre le cose che mi rimprovero.

Che cosa?
Tortora si comportò da uomo vero, ma lo capii successivamente.

Sta dicendo che ha provato ammirazione per Tortora?
Fu un imputato esemplare. Più passa il tempo e vedo l’Italia che ho intorno, e più mi rendo conto della differenza tra lui e chi lo chiama in causa oggi a sproposito.

Che cosa intende esattamente?
Tortora avrebbe potuto appellarsi all’immunità ma non lo fece. Volle farsi la galera pur di difendere la sua innocenza. E mi fanno arrabbiare certi quaquaraquà di oggi che invocano il suo nome per nascondere magagne e miserie e ottenere visibilità.

Perché chiese la condanna?
Ripeto. Non fui il solo a reputare Tortora colpevole: la mia richiesta venne accolta. Il rispetto del mio ruolo di magistrato mi impone di non parlare di altri. Dico solo che mi sbagliai. E che dopo le sentenze di assoluzione, mi resi conto dell’innocenza di Tortora e mi inchinai.

Non aveva mai ammesso di avere sbagliato. Mi sta dicendo che è pentito?
Non ho mai pensato di raccontare il mio stato d’animo sino ad ora. Ho creduto che ogni mia parola non sarebbe servita a niente. Che tutto mi si sarebbe ritorto contro. Ho preferito mantenere il silenzio. Ero Diego Marmo, l’assassino morale di Tortora. E dovevo tacere.

Ha parlato di colpa. Una parola forte per uno che ha definito la richiesta di condanna per Tortora come un “episodio” della sua carriera.
Non ho usato quel termine in senso riduttivo. In 50 anni di lavoro gli “episodi” sono stati tanti. Molti drammatici: processi di terrorismo, camorra, vita blindata per dieci anni con inevitabili disagi per me e soprattutto per la mia famiglia. E tuttavia che cosa crede? Ho richiesto la condanna di un innocente. Porto il peso di quello sbaglio nella mia coscienza. Sono un cattolico osservante. E ho sempre pensato di dovermela vedere con me stesso, e con Dio.

Poteva vedersela anche con i familiari di Tortora, non pensa?
Ci ho pensato a lungo. Ma alla fine non l’ho mai fatto. Mi sono detto che non si poteva tornare indietro, e che niente che potessi fare o dire sarebbe servito a qualcosa. “Si, potrei anche provare a incontrarli”, ragionavo tra me e me. Ma temevo che il mio gesto potesse risultare sgradito.

E forse ha paura di chiedere perdono.
Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente. Ma adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Posso dire soltanto che l’ho fatto in buona fede.

Grazie dottor Marmo. A me le sue parole sembrano molto importanti. Le cose che mi ha detto le fanno onore. E sbriciolano i pregiudizi sui pm visti come sceriffi implacabili. Magari avessero tutti il coraggio di ammettere i propri errori. Non l’avrei immaginato. Ci ha dato una lezione. Non come pm, ma come uomo.
 
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Usarono Tortora per coprire il patto Stato-camorra

di Valter Vecellio 30.06.2014

Il dottor Diego Marmo nella bella e importante intervista rilasciata a “Il Garantista”, sia pure trent’anni dopo, chiede scusa a Enzo Tortora; ci ricorda che la sua requisitoria si svolse sulla base dell’istruttoria dei colleghi Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, e “gli elementi raccolti sembrarono sufficienti per richiedere una condanna”; che per tutti questi anni ha convissuto con il tormento e il rammarico di aver chiesto la condanna di un uomo innocente; che fu a causa del suo temperamento focoso e appassionato che definì Tortora “cinico mercante di morte” e “uomo della notte”. Va bene, anche se si potrebbe discutere e controbattere tutto.

Per via del mio lavoro di giornalista al “TG2” mi sono occupato per anni del “caso Tortora” che era in realtà il caso di centinaia di persone arrestate (il “venerdì nero della camorra”, si diceva), per poi scoprire che erano finite in carcere per omonimia o altro tipo di “errore” facilmente rilevabile prima di commetterlo, e che si era voluto dare credito, senza cercare alcun tipo di riscontro, a personaggi come Giovanni Pandico, Pasquale Barra ‘o animale, Gianni Melluso. Ho visto decine e decine di volte le immagini di quel maxi-processo, per “montare” i miei servizi, e decine e decine di volte quella convinta requisitoria del dottor Marmo; che a un certo punto pone una retorica domanda: “…Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?”. Cercavamo…Anche Marmo, sembrerebbe di capire, cercava. E quali gli elementi di colpevolezza che emergevano durante il paziente lavoro di ricerca delle prove di innocenza? Non basta dire che la requisitoria del dottor Marmo si è svolta sulla base dell’istruttoria deli colleghi Di Pietro e Di Persia. Non basta.

Il 18 maggio di ventisei anni fa Enzo Tortora ci lasciava, stroncato da un tumore, conseguenza – si può fondatamente ritenere – anche del lungo e ingiusto calvario patito. Chi scrive fu tra i primi a denunciare che in quell’operazione che aveva portato Enzo in carcere assieme a centinaia di altre persone, c’era molto che non andava; e fin dalle prime ore: Tortora era stato arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata, fatto uscire solo quando si era ben sicuri che televisioni e giornalisti fossero accorsi per poterlo mostrare in manette. Già quel modo di fare era sufficiente per insinuare qualche dubbio, qualche perplessità. Ancora oggi non sappiamo chi diede quell’ordine che portò alla prima di una infinita serie di mascalzonate.

Manca, tuttavia, a distanza di tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: “perché?”. Forse una possibile risposta sono riuscito a trovarla, e a suo tempo, sempre per il “TG2”, riuscii a realizzare dei servizi che non sono mai stati smentiti, e ci riportano a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Venne chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”.

Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ebbe un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e, tra gli altri, Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, “mai più ritrovato”.

Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli. Che l’arresto di Tortora costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. Quello è stato fatto lo si sarà fatto in buona o meno buona fede, cambia poco. Le “prove”, per esempio, erano la parola di Pandico, camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un cumpariello. Barra è un tipo che in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia per sfregio l’intestino…Con le loro dichiarazioni danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Questo in istruttoria non era emerso? E il sedicente numero di telefono in un’agendina, mai controllato, neppure questo? C’è un documento importante che rivela come vennero fatte le indagini, ed è nelle parole di Silvia Tortora, la figlia. Quando suo padre fu arrestato, le chiesi, oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra cosa c’era? “Nulla”. Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? “No, mai”. Intercettazioni telefoniche? “Nessuna”. Ispezioni patrimoniali, bancarie? “Nessuna”. Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? “Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri”. Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? “Nessuna”. Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. u che prove? “Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato”. Qualcuno ha chiesto scusa per quello che è accaduto? “No”.

Arriviamo ora al nostro “perché?” e al “contesto”. A legare il riscatto per Cirillo raccolto i costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale.

E’ in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”. Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Tortora è stato chiamato a rispondere per calunnia. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Il dottor Marmo dice di aver agito in buona fede, non c’è motivo di dubitarne. Ma la questione va ben al di là della buona fede di un singolo. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”.

visita alla tomba di Enzo Tortora 15 luglio 2004 - YouTube

Da quella vicenda è poi scaturito grazie all’impegno radicale, socialista e liberale, un referendum per la giustizia giusta. A stragrande maggioranza gli italiani hanno votato per la responsabilità civile del magistrato. Referendum tradito da una legge che va nella direzione opposta; e oggi il presidente del Consiglio Renzi e il ministro della Giustizia Orlando approntano una serie di norme che vanno in direzione opposta rispetto a quanto la Camera dei Deputati ha votato qualche settimana fa.
 
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L'attuale Ministro della Giustizia Andrea Orlando, alla data di oggi, non ha ancora visitato le carceri italiane :(

complimenti :down:
 

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