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ricominciamo con gli approfondimenti tematici sugli Artisti che seguo da anni.

Michele Zaza

Michele Zaza nasce a Molfetta in Puglia il 7 novembre del 1948.
Frequenta l’Istituto d’Arte di Bari e nel 1967 si iscrive al corso di scultura di Marino Marini all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, dove consegue il diploma nel 1971.
La ricerca di Zaza muove dall’idea che “l’arte non offre possibilità alternative alla condizione umana, ma è al contrario la risultante di questa condizione” e, come tale, si perpetua nel pensiero umano.
Con il ciclo iniziale Cristologia, presentato, nel 1972, alla galleria Diagramma/Inga-Pin di Milano, l’artista si preoccupa di “commentare”, mediante un repertorio figurale, la falsa libertà che intercorre fra l’individuo e i diversi poteri.
Nel gennaio 1973 Zaza dà inizio al ciclo Dissidenza Ignota, esposto da Marilena Bonomo a Bari.
Nel 1974, lavori intitolati Naufragio euforico, Sisifo ritrovato madre e figlio, evidenziano l’aspetto contraddittorio della libertà sotto forma di un percorso “a senso unico”.
Segue nel 1975 il ciclo delle Mimesi, esposto da Massimo Minini a Brescia e da Annemarie Verna a Zurigo.
Dal 1976 l’irreale non è in antinomia al reale, ma anzi costituisce una realtà in divenire, fatta di curiosi paesaggi di terra e di ovatta, abitati da piccoli oggetti di carta somiglianti a macchine volanti.
Nella mostra da Ugo Ferranti a Roma intitolata Anamnesi, i personaggi sembrano agire nella dimensione del sogno, nutrendosi di molliche di pane. Sempre nel 1976 Zaza realizza il ciclo Universo Estraneo da Lucio Amelio a Napoli, e poi Fantasia Privata da Yvon Lambert a Parigi.
Nel 1978 crea opere intitolate Racconto celeste, dove analizza l’incorporeo.
Il colore blu della parete cosparsa di stelle-molliche è un cielo che avvolge i volti del padre e della madre. Lo spazio abitativo diviene “spazio celeste”. Terra inventata rappresenta un mondo in cui crescono piante di pane e di stelle, alla Galleria Saman di Genova nel 1978.
Nel 1980, da Leo Castelli a New York, Zaza espone Neo-Terrestre. Qui appaiono ancora i richiami ad una terra “germinatrice” che feconda sculture dipinte e forme di ovatta. I volti appaiono frontali o in rotazione. Segue nello stesso anno il ciclo Itinerari.
Nel 1980 Zaza è invitato alla Biennale di Venezia con una sala personale. Successivamente, nel 1981 è a Parigi con una personale al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris.
Mentre a Ginevra, al Cabinet des Estampes du Musée d’Art et d’Histoire nel 1991, e a Mosca nel 1996 presso lo Shchusev Architecture Museum con una serie di nuovi lavori ispirati a Hölderlin.
Tra le collettive, nel 1977 e nel 1982 partecipa a Documenta di Kassel, nel 1975 alla Biennale di Parigi e nel 1977 alla XIV Biennale di São Paulo.
Negli anni Ottanta e Novanta partecipa a mostre presso il Centre Pompidou di Parigi, la Nationalgalerie di Berlino, la Hayward Gallery di Londra, la Staatsgalerie di Stoccarda.
Negli anni ‘80 Zaza comincia ad inserire nelle sue opere elementi scultorei, come Paesaggio in cui appaiono accanto alle fotografie delle forme simili a volatili. Significativa è la serie di lavori intitolata Cielo Abitato.
Nelle opere fotografiche degli anni ’90 Zaza compie una trasfigurazione dei volti attraverso delle campiture di colore che mettono in evidenza dei punti focali quali la fronte, il naso, le mani, che sottendono alle funzioni vitali. Dal 1996 la frontalità dei volti ritratti in primo piano e i titoli stessi delle opere rimandano alla tradizione delle Icone. Il volto è la via di accesso verso universi interiori da esplorare.
Il “viaggiatore” diventa colui che procede in direzione delle proprie origini, in un “ritorno verso se stesso”. Opere quali il Centro del Viaggiatore, Cercatemi altrove, Paesaggio segreto, Corpo magico, stabiliscono uno scambio fra l’intimità umana e il cosmo, attraverso sculture di cartone e ovatta con cui l’artista trasfigura il proprio corpo avvolto da effetti di luce. Anche le dimensioni delle opere e la loro distribuzione nello spazio espositivo sembrano voler dar vita ad una presenza che tende ad occupare tutto lo spazio, un allargamento del sentire in direzione dell’Universo.
Zaza escogita un'atmosfera carica di simboli, in cui il corpo o il volto si trovano in contatto con uno scenario segreto, elaborato a partire da elementi del quotidiano (molliche, ovatta, cuscini) e da presenze scultoree archetipiche. Spesso il volto, sia maschile che femminile, viene dipinto con colori riferiti alla terra e al cielo – il marrone, il blu, il bianco. Esemplari diventano le tappe recenti, da Rivelazione segreta e Corpo segreto (2005) a Paesaggio magico e Orizzonte segreto (2006), oppure Io sono il paesaggio (2007).
Nell’arte di Zaza la fotografia non è “testimonianza” di una realtà oggettiva, ma sempre “creazione” della realtà. Dietro un “cuscino dai segni misteriosi” l’immagine torna ad essere profetica di un “trapasso” che va dal sogno ad una immaginazione inaspettata sempre nuova. L’artista con le sue mani strette o sovrapposte sul volto mima segni magici, schiudendo l’intera visione alle “tracce” di un’esistenza sconosciuta, ovvero a qualcosa di misterioso.
Negli anni 2000 presenta il suo lavoro al Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea di Roma e al MAMCO Musée d’Art Moderne et Contemporain di Ginevra.

Le sue opere sono conservate presso varie collezioni pubbliche, tra cui:
Fondation Emanuel Hoffmann, Öffentliche Kunstsammlung (Basilea)
Hamburger Bahnhof-Museum für Gegenwart (Berlino);
Walker Art Center (Minneapolis);
Centre Georges Pompidou Musée national d’art moderne (Parigi);
Musée d’art moderne de la Ville de Paris (Parigi); Staatsgalerie (Stoccarda)
Museum of contemporary art (Téhéran)
Kunsthaus (Zurigo).

fonte Galleria Bianconi

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fonte Umbisan

La Quadriennale di Roma riscopre l’arte degli anni ’70. Intervista a Daniela Lancioni

La Quadriennale di Roma, che ha sede da tempo a Villa Carpegna a Roma, è dagli anni Trenta una tra le più importanti istituzioni che si occupano di promuovere l’arte contemporanea italiana, attraverso l’organizzazione di grandi eventi espositivi nella capitale. Una rassegna che tra alti e bassi, ha raggiunto, dal 1931 al 2008, le quindici edizioni, a cui vanno aggiunte le mostre collaterali, storiche e retrospettive tenute tra un evento e l’altro.

Luigi Ontani, San Sebastiano, 1970
Luciano Giaccari in una foto di repertorio
L'Attico di Via Beccaria, Roma, con l'ingresso dei cavalli di Kounellis, gennaio 1969
Bonito Oliva e Lonardi Buontempo, Vitalità del negativo, Palazzo delle Esposizioni, Roma, dicembre 1970
Graziella Lonardi Buontempo, Palma Bucarelli e Christo alle Mura Aureliane, Roma, 1974

Oltre alla ricca attività espositiva, la Fondazione si propone da diversi anni di organizzare dei percorsi di riflessione e studio che hanno come oggetto l’arte degli ultimi decenni, attraverso la programmazione di iniziative volte ad approfondire il rapporto con il nostro recente passato, prevedendo il confronto diretto con i suoi protagonisti.

Dopo aver rivolto attenzione all’arte degli anni Novanta ed Ottanta, quest’anno si è dato il via a un ciclo di incontri dedicati ad analizzare la cultura visiva specifica: L’arte negli anni ’70, le parole e le immagini, con le sue proiezioni – oltre al documentario sulla X Quadriennale del 1973,i alcune opere video – i filmati realizzati da Luciano Giaccari, quelli prodotti da Art/Tapes/22 e i video conservati alla GAM di Torino.consiste soprattutto in uno scambio diretto con alcuni tra gli artisti che hanno dominato la scena durante quel decennio così rivoluzionario per l’arte e per la cultura. In particolare hanno partecipato alla manifestazione Sandro Chia, Jannis Kounellis, Michele Zaza, Carlo Maria Mariani, Maurizio Mochetti e Luigi Ontani

A condurre il progetto e le conversazioni con gli artisti è Daniela Lancioni, critica d’arte e curatrice senior del Palazzo delle Esposizioni, luogo da sempre deputato a ospitare le rassegne istituzionali della Quadriennale. A lei dedichiamo questa intervista:

Che ruolo ha avuto la Fondazione Quadriennale nella promozione degli artisti italiani in un decennio rivoluzionario come gli anni settanta?

“La sua incidenza negli anni Settanta è dovuta soprattutto alla mostra La ricerca estetica dal 1960 al 1970 del 1973 (X Quadriennale d’Arte), che credo abbia rappresentato l’edizione più significativa della Quadriennale di Roma, seconda per importanza solo a quella del 1935. Quest’esposizione, la cui ideazione si deve soprattutto a Filiberto Menna e ad Alberto Boatto, ha avuto il merito di fare il punto sull’arte italiana di quegli anni in modo puntuale, intelligente ed anche sperimentale. In questa occasione, infatti, alla facciata del Palazzo delle Esposizioni fu addossata una gigantografia della facciata stessa, attuando così un’operazione tautologica.”

Qual’è stata l’importanza di una città come Roma, con le sue istituzioni e le sue gallerie, in quest’epoca di grande fermento artistico?

“Roma in quegli anni rappresentò una grande piazza per l’arte contemporanea: le mostre e le opere che qui vennero realizzate o che vi giunsero la resero una grande capitale internazionale dell’arte. Il merito è dovuto alla presenza di grandi artisti e all’attività di vivaci gallerie che, sebbene non troppo rilevanti in ambito mercantile e commerciale, si dimostrarono molto abili dal punto di vista della promozione culturale. Mi riferisco in particolare a L’Attico di Fabio Sargentini, attivo già negli anni Sessanta. Altri importanti galleristi avviarono la loro attività a Roma nel corso degli anni Settanta: Gian Enzo Sperone, tra gli altri, Ugo Ferranti, Enzo Cannaviello e Giuliana De Crescenzo; a questi sono poi da aggiungere presenze fondamentali già operative a partire dalla fine degli anni Cinquanta, come Plinio de Martiis con La Tartaruga e Gian Tomaso Liverani con La Salita.
Era anche un momento in cui, data la crisi petrolifera, si verificò un abbattimento generale dell’economia internazionale che si andò a sommare al vantaggio di costi all’epoca di gran lunga inferiori a quelli odierni. Lo scambio tra gli artisti era continuo e a Roma giungevano opere provenienti da tutto il mondo. Nel decennio precedente l’arte americana aveva egemonizzato il panorama internazionale, mentre adesso, probabilmente a causa di un logoramento dell’immagine americana dovuto alla risonanza di avvenimenti drammatici come la guerra del Vietnam, ma anche grazie alla presenza di grandi artisti ed intelligenti curatori, pensiamo a Harald Szeemann, l’Europa torna a essere un forte interlocutore nella scena internazionale.”

A cosa è dovuta questa confluenza di artisti nella capitale, rispetto ad altri poli culturali come Milano e Torino?

“A Roma c’è quel mostro sacro di Burri! Nasce il culto di Giorgio de Chirico, sebbene in quegli anni fosse ancora una presenza piuttosto appartata. A Roma si stanziano o transitano importanti artisti stranieri: Twombly, Buren, Kosuth, Douglas Huebler, Richard Long, Gilbert & George… Poi c’è una schiera di giovani straordinari come Jannis Kounellis, Mario Schifano, Tano Festa, Eliseo Mattiacci, Luca Maria Patella, Maurizio Mochetti… Pino Pascali muore nel 1968, ma l’eco della sua arte è ancora molto forte, Alighiero Boetti si trasferisce a Roma da Torino proprio all’inizio degli anni settanta. Senza dimenticare l’attività di alcuni tra gli astrattisti del dopoguerra, come Giulio Turcato, Carla Accardi e Pietro Consagra, che continuano ad essere attuali.
Ecco poi arrivare i più giovani: Gino De Dominicis, Luigi Ontani, Vettor Pisani, Sandro Chia, Ferruccio de Filippi, Laura Grisi… il loro exploit è meraviglioso e ogni artista segna il suo passaggio in modo diverso. Infine non è da trascurare la presenza di grandi “animatori” come Tullio Catalano e Maurizio Benvenuti che, lavorando fuori delle istituzioni, non cessano di animare la città con iniziative molto singolari sulla scia e sull’esempio del Situazionismo.
Oltre a questi non è da trascurare la presenza di artisti e musicisti americani, rivoluzionari nell’ambito del teatro e della danza, invitati a Roma da Sargentini proprio in questo periodo: tra questi Philip Glass, Charlemagne Palestine, Terry Riley, Trisha Brown, Simon Forti… Ad essere accolti sono anche rappresentanti della cultura orientale, come l’indiano Ravi Shankar.
Insieme a loro erano a Roma tutti coloro che avevano rivoluzionato la scena del teatro in Italia alla fine degli anni Sessanta. Insieme di convergenze che resero forte la commistione di linguaggi fra arte teatrale e arte visiva.”

Senza dimenticare l’apporto della critica e dei critici d’arte…

“Certamente. Innanzitutto oltre ad artisti e gallerie, Roma aveva un’istituzione eccelsa come gli Incontri Internazionale d’Arte, impresa eroica e monumentale messa su da Graziella Lonardi Buontempo a Palazzo Taverna. Oltre alla promozione di continue iniziative culturali, fu proprio grazie ad essa che nacquero due tra le più importanti esposizioni del decennio: Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/70 che, svoltasi alla fine del 1970 al Palazzo delle Esposizioni, delineò un excursus sul meglio dell’arte italiana del decennio appena trascorso e Contemporanea (1973-1974), universalmente riconosciuta come una tra le più importanti mostre d’arte mai realizzate al mondo, in realtà rassegna interdisciplinare. Durante quest’ultima il parcheggio sotterraneo di Villa Borghese, appena ultimato da Luigi Moretti e non ancora assegnato a destinazione d’uso, venne riempito da centinaia di opere d’arte provenienti da tutto il mondo: dai grandi della pop art, al minimalismo americano, fino a Joseph Beuys. Tutto quanto sotto la cura artistica di Achille Bonito Oliva, senz’altro il critico e osservatore di maggiore rilievo a Roma in quegli anni. Egli rielabora i modi della critica oltrepassando la pura analisi dei fenomeni dell’arte e approdando a una critica creativa che assume l’evento della mostra come oggetto definito di questa nuova creatività.”

L’arte negli anni Settanta: le parole e le cose: nel dare questo titolo alla rassegna di incontri si è ispirata al testo Le parole e le cose di Foucault? Può spiegare meglio a cosa si riferisce?

“A questo proposito mi rifaccio a quello che è l’incipit del libro di Filiberto Menna La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone, dove lo studioso afferma che si può dire veramente contemporanea solo l’arte che accetti l’idea dell’arbitrarietà del linguaggio. Dunque il linguaggio non è più un elemento a cui ci si affida per identificare o rappresentare la realtà, ma si rivela uno strumento che gli uomini usano per comunicare e che ha una sua storia, pertanto anch’esso analizzabile e interpretabile.
Il pensiero di Menna credo derivi dallo stesse domande che si pone Foucault, se non da lui stesso. Le parole e le cose (opera del 1966) è un testo cardine degli anni Settanta. Con l’idea di “archeologia del sapere” si vuole mettere in atto un’operazione archeologica di riflessione, che ci fa guardare agli episodi della storia dell’arte e della cultura non soltanto attraverso fatti e vicende, ma approfondendo e analizzando le strutture mentali che hanno determinato tali fatti e vicende, con l’idea che queste strutture siano passibili di cambiamento.”

Nel 1968 Roland Barthes proclama la “morte dell’autore” e nel 1971, con il saggio Dall’opera al testo, sottolinea come tutte le certezze moderniste riconosciute sin dall’epoca delle Avanguardie Storiche vengono messe in discussione: il linguaggio assume un ruolo diverso nell’arte e nella cultura, acquistando la sua autonomia.

“Il concetto di “morte dell’autore”, che Barthes considera valido a partire da autori come Mallarmé, non credo sia mai stato di facile interpretazione. Non parliamo di una rinuncia all’autorialità, ma di una concezione di Autore che, non più riassumibile in una individualità, è diventato la somma di tutte le individualità che l’hanno preceduto. Già alcuni artisti ci avevano introdotto a questo tipo di riflessione. Giulio Paolini, soprattutto, afferma che il singolo artista non può avere la responsabilità totale della propria opera, ma che questa responsabilità va condivisa con tutte le opere che lo hanno preceduto, privilegiando l’idea di identificare il fil rouge della Storia dell’Arte come patrimonio collettivo.
Kounellis pone la questione più dal punto di vista antropologico: in una sua intervista a Marisa Volpi afferma che quando si arriva in un posto non ha senso arrivare con un quadro già fatto e attaccarlo al muro, ma bisogna ascoltare quello che il luogo ha da dire. In questo senso si tratta di condividere la responsabilità autoriale con un contesto più ampio, pratica che corre lungo tutto il decennio, ma non sempre ben intesa perché spesso banalizzata. Al contrario di ciò che si potrebbe intendere, l’autore che rifiuta la concezione romantica di individualità artistica, in molti casi non fa altro che estendere ed espandere tracce di sé al mondo che lo circonda.”

Gli artisti da lei invitati in questo ciclo di incontri partecipano tutti ad un’epoca di grande rivoluzione culturale, ma ognuno reagisce agli stravolgimenti culturali e politici del ’68 e di tutto il decennio dei sessanta attraverso atteggiamenti diversi, non solo per quanto riguarda le tecniche.

“In realtà per noi storici dell’arte la data cruciale è il 1967, anno in cui Sargentini organizza la mostra Fuoco, Immagine, Acqua, Terra e Celant lancia la sua teoria critica sull’Arte Povera. Dal 1966 parte la cronologia dell’americana Lucy Lippard sulla Dematerializzazione dell’oggetto d’arte. Tra il 1966 e il 1967 si stigmatizza un radicale e definitivo cambiamento nei linguaggi, determinando un vero e proprio sconvolgimento sulla scena internazionale. Il decennio dei Settanta inizia quindi con una grande rivoluzione alle spalle e per molto tempo è stato trascurato con la convinzione che tutto quello che doveva succedere fosse già accaduto. Come succede a Fabrizio Del Dongo nella Certosa di Parma: il protagonista arriva per assistere alla Battaglia di Waterloo quando si era già conclusa. Metafora per dire che i Settanta non sono anni di grandi sconvolgimenti, ma è un periodo in cui una grande libertà di linguaggi viene messa in opera, testata, modulata, maneggiata e affidata alle opere, al di là delle prese di posizioni radicali e ideologiche con cui certe opere estreme erano state realizzate precedentemente.
Non c’è più una strada maestra che si segue, una tradizione a cui affidarsi, le opere sono il risultato di un coacervo di innesti diversi, frutto di una complessità che deriva dal pensiero filosofico e dalle contingenze comuni. E in questo contesto ogni autore trova una propria strada: c’è che si rifà alla tradizione per libera scelta e chi intraprende nuove vie. Kounellis e Ontani, ad esempio, sperimentano tecniche diverse tenendo però in mente il modo tradizionale di guardare attraverso il perimetro del quadro: le loro installazioni, azioni o tableau vivant, sebbene radicali nel far convergere arte e vita, conservano tuttavia un assetto frontale, suggerendo un punto di vista allo spettatore, proprio come fossero dei quadri. Abbandonano, quindi, la formalizzazione tradizionale, ma conservano un impianto atto a distanziare l’arte dalla realtà. In questa stessa direzione è maestro Giulio Paolini che, all’interno di un perimetro dato, la cornice, apre una prospettiva garantita dal punto di vista dell’autore e dello spettatore, che suggerisce un profondità infinita e dà la vertigine.
Le loro non sono opere che si pongono come modelli ideali della realtà, ma certamente questi sono artisti che si impegnano a definire un orizzonte, un senso altro a quello che la società consegna loro.”

Gli anni Settanta sono stati critici per molti versi. Che senso ha rileggere un’epoca come questa alla luce della crisi culturale che stiamo vivendo in questi anni?

“Credo che parlare di “crisi” implichi un giudizio negativo che può essere dato solamente da chi conosce nel dettaglio gli avvenimenti di un’epoca, dunque non mi sento di condividere questa visione. La crisi nell’arte negli anni Settanta non esiste: a mio parere molti artisti emersi nel decennio precedente hanno dato nei Settanta il meglio di se stessi raggiungendo una maturità straordinaria. Dopo aver lavorato a una destrutturazione dell’opera d’arte, l’hanno in qualche modo reincarnata, resa punto di convergenza di istanze diverse non più separabili, spogliandola però da ogni ingombrante autorità.”

Nonostante ciò vivere il periodo post anni Sessanta fa sì che verifichi un crollo e una dispersione non solo dal punto di vista politico e ideologico, ma anche culturale. Il frazionamento dei movimenti e delle ideologie che avviene in questi anni può essere considerato indice di crisi?

“Questo fenomeno può essere considerato un male ma anche un bene: vengono meno le sintesi critiche, nonostante esistano ancora eccezioni di grande rilievo come il movimento della Transavanguardia. Il frazionamento dei comportamenti e la relativa impossibilità di riassumerli in una qualche formula, non è detto sia indice di crisi.
D’altra parte quegli anni sono indubbiamente molto difficili: la crisi politica italiana è evidente, il Paese è attraversato da cattive azioni che ancora non siamo in grado di ascrivere a qualcuno con esattezza, la rabbia giovanile e lo scontento sociale segnano una quotidianità per molti versi pesante. Non ultimo il fenomeno del terrorismo, che raggiunge l’apice del terrifico con l’epilogo drammatico dell’uccisione di Aldo Moro.
Tuttavia non sono da trascurare gli aspetti favorevoli apportati da quest’epoca. A tal proposito condivido l’analisi di Vittorio Foa e Marco Revelli, secondo cui sebbene sia stato un decennio caratterizzato da grandi disastri politici, ha introdotto delle trasformazioni positive nella vita quotidiana degli italiani: la conquista dello Statuto dei lavoratori, il divorzio… Il diritto di famiglia cambia e le donne sono finalmente equiparate agli uomini. Al di là di tutto il nostro stile di vita odierno, la regolazione sociale e il rapporto tra individui che viviamo oggi è dovuto a cambiamenti avvenuti in quegli anni.”

Torniamo alla storia dell’arte: si è da poco conclusa la mostra Addio anni ’70 al Palazzo Reale di Milano. Il curatore Francesco Bonami afferma la necessità di dire addio a questo decennio poiché ormai tramutatosi in zavorra, così ingombrante per i suoi stravolgimenti artistici e culturali, da non permetterci di guardare avanti.
È d’accordo con questa visione?


“Rispondo in una maniera banale: ogni cosa e forma del passato ha il diritto di essere interrogata.
Personalmente non mi sentirei di liquidare questo passato come zavorra, come non lo farei con nessun’altra epoca.
Ovviamente esistono passati più attuali e meno attuali. Io ritengo che gli anni Settanta siano un passato attuale, che valga ancora la pena interrogare, per capire chi siamo oggi. Anche perché molte domande sono rimaste senza risposta, non solamente per quanto riguarda gli avvenimenti storici e politici. Credo che certi sviluppi dell’arte odierna trovino le loro radici proprio in quel decennio. Senza dubbio si è trattato di un decennio molto politicizzato, ma non penso che quello sia l’unico modo di leggere l’arte di quegli anni. Lo considero al contrario un aspetto marginale. Gli artisti del periodo avevano spesso una forte adesione politica, ma in realtà il discorso dell’arte si è dimostrato del tutto autonomo. Coloro che lo hanno tradotto con più immediatezza in azioni politiche sono artisti molto interessanti per l’epoca, ma forse meno per la storia dell’arte.
Bonami fa una mostra molto tagliata sugli aspetti politici: a me ha stupito per esempio l’assenza di Paolini, artista fondamentale per l’esegesi di quegli anni e ben presente sulla scena milanese. Credo ci sia stata l’intenzione di guardare a quegli anni attraverso un punto di vista che, secondo me, non esaurisce la visione di un decennio così importante.”

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Eventi e mostre - Galleria nazionale d'arte moderna

Michele Zaza - Il confine del mio corpo è il confine del mio mondo

6 dicembre 2014 - 15 febbraio, 2015 - Mostra
a cura di Angelandreina Rorro

La mostra Michele Zaza. Il confine del mio corpo è il confine del mio mondo,per cui sono stati selezionati 24 lavori, vuole dare conto dell'intero percorso dell'artista, dalle immagini delle performance del 1970 (Simulazione d'incendio) alle molte opere fotografiche, passando per alcuni dipinti, arrivando ai progetti (in mostra sono esposti 15 cartoni degli anni 90) e alle installazioni degli ultimi anni. Sono presenti alcune opere inedite e il primo video del 1985, mai proiettato in Italia.


Michele Zaza (Molfetta, 1948) si è diplomato in scultura con Marino Marini all'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano nel 1971, ma è difficile definire i confini della sua arte che è pittura, scultura video e fotografia. Negli anni della formazione accademicaZaza entra in contatto con l'ambiente artistico milanese interessandosi agli sviluppi dell'arte cinetica e minimal.

Comincia a utilizzare la fotografia già nel 1970 per registrare le azioni provocatorie messe in atto nel suo paese e la sua prima personale nel 1972 alla Galleria Il Diaframma di Milano, Cristologia, è fatta di immagini fotografiche. Il suo lavoro però non si limita allo scatto o all'inquadratura: parte dall'idea, alla quale segue spesso un progetto, poi la costruzione di un set e infine l'esecuzione della foto che, sin dall'inizio, era scattata dall'artista, da un familiare o da un amico fotografo. Questo ruolo era ed è tutt'ora interscambiabile.

Nel 1973, nella personalealla Galleria Marilena Bonomo di Bari, nell'opera Dissidenza ignota, i genitori per la prima volta diventano soggetti delle sue immagini e lui stesso è presente come attore o regista. Nei lavori successivi trovano posto gli altri affetti quotidiani, come sua moglie o sua figlia, ma si vedono anche alcuni oggetti (la pistola, la televisione, le lampadine) o dei materiali in forma di piccole sculture (il pane, l'ovatta, la carta) che diventano - tutti - elementi significativi di un linguaggio scelto e codificato con rigore per trasfigurare la quotidianità.

La ricerca di Zaza parte dall'idea che "l'arte non offre possibilità alternative alla condizione umana, ma è al contrario la risultante di questa condizione". Quindi i corpi immobili e ieratici, in piedi, capovolti o seduti diventano il materiale plastico attraverso cui percepire e rendere esistente il mondo.

Ma è il volto il luogo delle rivelazione assoluta. Frontale, di profilo, dipinto di bianco nero o blu catalizza l'attenzione dello spettatore nelle installazioni più recenti dell'artista che si arricchiscono del rapporto con la scultura e con lo spazio.

Tutto il lavoro di Zaza ha una radice antropologica e una suggestione metafisica e si distingue tra le ricerche degli ultimi 50 anni per la sua singolare coerenza.

Tra le numerose mostre collettive Zaza ha partecipato alla Biennale dei giovani di Parigi nel 1975, alla Biennale di san Paolo e Documenta di Kassel nel 1977 e alla Biennale di Venezia nel 1980 con una sala personale.

Ha lavorato con gallerie italiane e straniere da Luciano Inga Pin a Milano, Ugo Ferranti a Roma, Lucio Amelio a Napoli, Marilena Bonomo a Bari a Yvon Lambert a Parigi, Annamarie Verna a Zurigo, Leo Castelli a New York, e più recentemente con Persano a Torino e Bianconi a Milano.

Dopo il 2000 ha esposto il suo lavoro al Museo Laboratorio d'Arte Contemporanea di Roma e al MAMCO Musée d'Art Moderne et Contemporain di Ginevra.

Le sue opere sono conservate presso varie collezioni pubbliche, tra cui: Fondation Emanuel Hoffmann, Öffentliche Kunstsammlung (Basilea); Hamburger Bahnhof-Museum für Gegenwart (Berlino); Walker Art Center (Minneapolis); Centre Georges Pompidou Musée national d'art moderne (Parigi); Musée d'art moderne de la Ville de Paris (Parigi); Staatsgalerie (Stoccarda); Museum of contemporary art (Téhéran); Kunsthaus (Zurigo).






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Cris70

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Zaza scultore??

Maestro Zaza è un Artista dell'intelletto senza una particolare tecnica realizzativa.
Per fare un esempio, penso funzioni il parallelo con Giulio Paolini e Kounellis o tanti altri definiti Artisti concettuali.

Ha spaziato dalla performance (il primo lavoro noto del '70 Simulazione di incendio) passando subito alla foto,
passando negli anni '80 alla pittura ed alla scultura, sempre utilizzando i progetti su carta (a volte con collage fotografici) per dare un immagine al suo immaginato.

Proprio riguardo le sue opere su carta (meno note al grande pubblico),
la personale alla GNAM dimostra quanto le stesse siano importanti nel suo processo creativo e finalmente siano state valorizzate in quanto tali.

E' evidente che ha trovato la sintesi del suo lavoro nella fotografia,
ma sempre e solo utilizzando la stessa come il mezzo espressivo più appropriato alla sua poetica,
semplicemente perché la foto è il mezzo che meglio di tutti gli altri esprime la "circolarità" del suo tempo e delle sue visioni mentali.

Per capirci meglio le sue installazioni fotografiche permettono al fruitore di vedere l'inizio e la fine del suo immaginato,
senza dover ricordare e/o dimenticare il fotogramma precedente come invece accadrebbe con un video.

Questa ritengo sia una delle peculiarità e dell'unicità del suo lavoro che tanto mi attraggono.
Potrei stare ore a guardare un suo lavoro e rifletterci su, sempre iniziando dalla prima e scorrendo fino all'ultima per poi ricominciare.

Tornando alla questione del rapporto tra Michele Zaza e la scultura.
Leggendo la sua biografia, recita che è stato allievo a Brera di Marino Marini nel suo corso di scultura,
e valutato che negli ultimi anni sono sempre più presenti degli archetipi scultorei nelle sue installazioni a partire da Celeste Progetto dei primi anni '90,
posso solo concludere che se oggi il mercato non le ha ancora valorizzate è solo un bene per tutti noi suoi collezionisti.
 

Cris70

... a prescindere
Miche Zaza ... scrittore

Senza Paesaggio - di Michele Zaza
Libro d'artista con 15 tavole in bianco e nero.
Testi di Zaza in italiano e inglese
Samanedizioni, 1981
Prima edizione di 1000 esemplari

Senza Paesaggio.JPG
 

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