ma Deutsche Bank sta fallendo? (1 Viewer)

tontolina

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il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante

il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando

Fa crollare l’Italia, poi se la compra. Ma chi è BlackRock?

Scritto il 24/4/15 • nella Categoria: segnalazioni

Faccio scoppiare l’Italia con la crisi dello spread, la costringo a svendere i gioielli di famiglia e quindi arrivo io, col portafogli in mano, pronto a rilevare a prezzi stracciati interi settori vitali dell’economia italiana, messa in ginocchio dalla manovra finanziaria. Secondo “Limes”, l’architetto supremo del complotto non è la Germania, ma il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bund causando la “resa” di Berlusconi e l’avvento di Monti, l’emissario del grande business straniero. La rivista di Lucio Caracciolo, riassume Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa”, ha messo a fuoco un po’ meglio le dimensioni, gli interessi e il vero potere del primo fondo d’investimenti mondiale, fattosi sotto con l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi, dopo che ormai il Pil italiano era stato letteralmente raso al suolo dai tecnocrati nostrani, in accordo con quelli di Bruxelles. Il “Moloch della finanza globale” vanta la gestione di 30.000 portafogli, per un totale di 4.650 miliardi di dollari: non ha rivali al mondo ed è una delle 4-5 “istituzioni” che ricorrono tra i maggiori azionisti delle banche americane.
Con la globalizzazione dell’economia, il valore complessivo delle attività finanziarie internazionali primarie è passato dal 50% al 350% del Pil mondiale, raggiungendo i 280.000 miliardi di dollari, di cui solo il 25% legato agli scambi di merci. E il valore dei derivati negoziati fuori dalle Borse (“over the counter”) a fine giugno 2013 aveva toccato i 693.000 miliardi di dollari, in gran parte legati al mercato delle valute: al Forex si scambiano in media 1.900 miliardi di dollari al giorno. Tutto ha avuto inizio col neoliberismo promosso da Margaret Thatcher e Ronald Reagan: deregulation e meno vincoli per le megabanche, autorizzate a “giocare” con sempre nuovi prodotti finanziari come gli “hedge fund”, i fondi a rischio speculativi e le società di investimento spesso collegate alle banche, innanzitutto anglosassoni. Il colpo di grazia porta la firma di Bill Clinton, che negli anni ‘90 rende assoluta la deregolamentazione della finanza, abolendo il Glass-Steagal Act creato da Roosevelt negli anni ‘30 per limitare la speculazione alle sole banche d’affari e tenere il credito commerciale al riparo dalla “ruolette” finanziaria di Wall Street che aveva causato la Grande Crisi del 1929.
A estendere al resto del mondo l’immediata cancellazione dei vincoli di sicurezza provvide il Wto, egemonizzato dagli Usa, su impulso delle megabanche, dell’allora segretario al Tesoro Larry Summers e del suo vice Tim Geithner, futuro ministro di Obama. Questo il clima in cui cominciò l’ascesa di BlackRock, autonoma dal 1992 e basata a New York, pronta a inserirsi in banche e aziende acquistando azioni, obbligazioni, titoli pubblici e proprietà, per un totale di oltre 4.500 miliardi, cioè pari al Pil della Francia sommato a quello della Spagna. BlackRock comincia anche a far politica: entra nel capitale delle due maggiori agenzie di rating, “Standard & Poor’s” (5,44%) e “Moody’s” (6,6%), ottenendo la possibilità di influire sulla determinazione di titoli sovrani, azioni e obbligazioni private, incidendo così su prezzo e valore delle attività acquistate o vendute. Quindi opera anche nell’analisi del rischio, vendendo “soluzioni informatiche” per la gestione di dati economici e finanziari, ed elabora dati che «incorporano anche pesanti elementi politici».
Naturalmente sfrutta appieno la crisi del 2007: due anni dopo, lo stesso Geithner consulta proprio BlackWater per valutare gli asset tossici di Bear Stearns, Aig e Morgan Stanley. Compiti che BlackRock esegue, «agendo alla stregua di una sorta di Iri privato». Nel 2009 fa anche un colpo grosso, acquistando Barclays Investment Group, col suo carico immenso di partecipazioni azionarie nelle principali multinazionali. Il colosso finanziario americano informa e «manipola i propri clienti, utilizzando tecniche e software non diversi da quelli impiegati da Google (di cui ha il 5,8%) o dalla Nsa per sondare gli umori della gente», scrive “Limes”. Si serve della piattaforma Aladdin, «con almeno 6.000 computer in 12 siti più o meno segreti, 4 dei quali di nuova concezione, ai quali si rapportano 20.000 investitori sparsi per il mondo». Il suo centro studi d’eccellenza, il “BlackRock Investment Institute”, esamina le variabili politico-strategiche: il maxi-fondo è interessato al profitto «ma anche alla stabilità, sicurezza e prosperità degli Stati Uniti». Il fondatore e leader, Larry Fink, è considerato «il più importante personaggio della finanza mondiale», eppure resta «virtualmente uno sconosciuto» a Manhattan, secondo “Vanity Fair”.
Proprio BlackRock, aggiunge “Limes” è probabilmente il vero regista della crisi italiana del 2011, o meglio della capitolazione dell’Italia di fronte agli appetiti della grande finanza. Lo spread fra i Bund tedeschi e i nostri Btp iniziò a dilatarsi non appena il “Financial Times” rese noto che nei primi sei mesi di quell’anno Deutsche Bank aveva venduto l’88% dei titoli che possedeva, per 7 miliardi di euro. «Molti videro un attacco al nostro paese ispirato da Berlino e dai poteri forti di Francoforte», ma forse – secondo “Limes” – non era così. La rivista di Caracciolo rivela che il potente istituto di credito tedesco aveva allora un azionariato diffuso, il 48% del capitale sociale era detenuto fuori dalla Repubblica Federale, e il suo azionista più importante era proprio BlackRock con il 5,1%. Peraltro, aggiunge la Bruzzone sulla “Stampa”, oggi la “Roccia Nera” detiene in Deutsche Bank una quota ancor maggiore (il 6,62%) e ne è il maggior azionista, seguito da Paramount Service Holdings, basato alle Isole Vergini Britanniche. «Si può escludere che il fondo non abbia avuto alcuna parte in una decisione tanto strategica come quella di dismettere in pochi mesi quasi tutti i titoli del debito sovrano di un paese dell’Ue?».
«Se attacco c’è stato non è detto che sia stato perpetrato dalle autorità politiche ed economiche della Germania: è un fatto che a picchiare più duramente contro i nostri titoli a partire dall’autunno 2011 siano proprio “Standard & Poor’s” e “Moody’s”». Un’ipotesi, quella di Limes, che getta nuova luce su tanta parte della narrazione di questi anni sulla Germania, l’Europa e i Piigs, a partire dalle polemiche di quell’agosto bollente, «con Merkel e Sarkozy fustigati da Giuliano Amato sul “Sole 24 Ore”», anche se Amato – ricorda la Bruzzone – in quel 2011 era fra l’altro “senior advisor” proprio di Deutsche Bank. «E chissà che senza la decisione di Deutsche Bank di vendere i titoli di Stato di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna, la tempesta finanziaria non sarebbe iniziata». Un’ipotesi realistica, secondo la Bruzzone, che apre altri interrogativi: sugli intrecci fra potere finanziario e politico, sul “potere sovrano” degli Stati (anche della potente Germania) e sulla composizione azionaria di questi onnipotenti istituti. Banche, fondi, superfondi: di chi sono? Chi decide che cosa, al di là dei luoghi comuni ripetuti delle narrative ufficiali?
La fine della Deutsche Bank come motore sano dell’economia industriale tedesca risale all’epoca del crollo dell’Urss, quando l’attenzione della finanza angloamericana si concentra sull’Europa. E avviene a seguito di misteriosi omicidi, scrive la giornalista della “Stampa”, ricordando che Alfred Herrhausen, presidente della banca e consigliere fidato del cancelliere Kohl – un uomo che aveva in mente uno sviluppo della mission tradizionale e stilò addirittura un progetto di rinascita delle industrie ex comuniste, in Germania, Polonia e Russia, andandone persino parlarne a Wall Street – venne «improvvisamente freddato fuori dalla sua villa», a fine 1989. Si disse dalla Raf, o dalla Stasi, o da altri ancora. Stessa sorte toccò al suo successore, altro economista che si era opposto alla svendita delle imprese ex comuniste elaborando piani industriali alternativi alla privatizzazione. Fu ucciso nel 1991 da un tiratore scelto.
Dopo di lui, alla sede londinese di Deutsche Bank arriva uno squadrone di ex banchieri della Merrill Lynch, compreso il capo, che diventa presidente, riorganizzando tutto in senso “moderno”. Anche lui però muore, a soli 47 anni, «in uno strano incidente del suo aereo privato». Va meglio al suo giovane braccio destro, Anshu Jain, un indiano con passaporto britannico, cresciuto professionalmente a New York, tutt’oggi presidente della banca diventata prima al mondo per quantità di derivati, spodestando Jp Morgan: la Deutsche Bank infatti è considerata fuori dalle righe “la banca più fallita del mondo”, «esposta per 55.000 miliardi, cioè 20 volte il Pil tedesco», a fronte di depositi per appena 522 miliardi. «Quanto è pericoloso il potere di mercato delle maggiori banche di investimento?». Se lo chiedeva due anni fa lo “Spiegel”, riportando un durissimo scontro fra Deutsche Bank e il ministro tedesco dell’economia, il super-massone Wolfgang Schaeuble.
Scriveva il settimanale: «Un pugno di società finanziarie domina il trading di valute, risorse naturali, prodotti a interesse. Migliaiaia di investitori comprano, vendono, scommettono. Ma le transazioni sono in mano a un club di istituti globali come Deutsche Bank, Jp Morgan, Goldman Sachs. Quattro banche maneggiano la metà delle transazioni di valuta: Deutsche Bank, Citigroup, Barclays e Ubs». Un’altra ragione che dovrebbe farci prestare attenzione alla “Roccia Nera”, aggiunge “Limes”, è che ha messo radici in molte realtà imprenditoriali nel nostro paese. Per “L’Espresso”, addirittura, «si sta comprando l’Italia». Se un altro colosso americano, State Street Corporations, ha acquistato la divisione “securities” di Deutsche Bank e nel 2010 ha comprato l’attività di “banca depositaria” di Intesa SanPaolo (custodia globale, controllo di regolarità delle operazioni, calcoli, amministrazione delle quote, servizi ausiliari, gestione dei cambi e prestito di titoli), è proprio BlackRock a far la parte del leone.
A fine 2011, il super-fondo americano aveva il 5,7% di Mediaset, il 3,9% di Unicredit, il 3,5% di Enel e del Banco Popolare, il 2,7% di Fiat e Telecom Italia, il 2,5% di Eni e Generali, il 2,2% di Finmeccanica, il 2,1% di Atlantia (che controlla Autostrade) e Terna, il 2% della Banca Popolare di Milano, Fonsai, Intesa San Paolo, Mediobanca e Ubi. E oggi Molte di queste quote sono cresciute e BlackRock è ormai il primo azionista di Unicredit (col 5,2%) e il secondo azionista di Intesa SanPaolo (5%). Stessa quota in Atlantia, mentre avrebbe ill 9,4% di Telecom. «Presidi strategici, che permetteranno a BlackRock di posizionarsi al meglio in vista delle privatizzazioni prossime venture invocate da molti “per far scendere il debito”», scrive “Limes”. E’ la nuova ondata in arrivo, dopo quella del 1992-93 a prezzi di saldo. «La crisi dei Piigs a che altro serve, se no?».
Chi è BlackRock? Il web rivela, più che altro, un labirinto. Secondo “Yahoo Finanza”, il maggiore azionista (21,7%) sarebbe Pnc, antica banca di Pittsburgh, quinta per dimensioni negli Usa ma poco nota. Azionisti numero uno e due sarebbero Norges Bank, cioè la banca centrale di Norvegia, e Wellington Management Co., altro fondo di investimenti, di Boston, con 2.100 investitori istituzionali in 50 paesi e asset per 869 miliardi di dollari. Poi ci sono State Street Corporation, Fmr-Fidelity e Vanguard Group, che a loro volta sono gli unici investitori istituzionali di Pnc. Sempre loro, i “magnifici quattro”, si ritrovano con varie quote fra gli azionisti delle principali megabanche: non solo Jp Morgan, Bank of America, Citigroup e Wells Fargo, ma anche le banche d’affari come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of Ny Mellon. A ricorrere nell’azionariato di questi istituti ci sono anche altre società e banche, ma i “magnifici quattro” non mancano mai.
Oltre ai soliti BlackRock, Vanguard, in Barclays – megabanca britannica che risale al 1690 – è presente anche Qatar Holding, sussidiaria del fondo sovrano del Golfo, specializzata in investimenti strategici. La stessa holding qatariota è anche maggior azionista di Credit Suisse, seguita dall’Olayan Group dell’Arabia Saudita, che ha partecipazioni in svariate società di ogni genere, mentre nell’altra megabanca elvetica, Ubs, si ritrovano BlackRock, una sussidiaria di Jp Morgan, una banca di Singapore e la solita Banca di Norvegia. Barclays Investment Group compariva tra i grandi azionisti di BlackRock, e viceversa, ma prima della crisi del 2008: dopo, non più – almeno in apparenza. Su “Global Research”, Matthias Chang mostra come nel 2006 “octopus” Barclays fosse davvero una piovra con tentacoli ovunque: Bank of America, Wells Fargo, Wachovia, Jp Morgan, Bank of New York Mellon, Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Lehman Brothers e Bear Sterns, senza contare un lungo elenco di multinazionali di ogni genere, americane ed europee, comprese le miniere, senza dimenticare i grandi contractor della difesa.
Dopo la crisi, che ha rimescolato le carte dell’élite finanziaria, il paesaggio cambia: Barclays Global Investors viene comprata nel 2009 da BlackRock. Il maxi-fondo, che nel 2006 aveva raggiunto il trilione di dollari in asset, dal 2010 al 2014 cresce ancora (fino ai 4.600 miliardi di dollari) insieme a Vanguard, presente in Deutsche Bank. Seguite i soldi, raccomanda il detective. Chi c’è dietro? «Attraverso il crescente indebitamento degli Stati – scrive la Bruzzone – megabanche e superfondi collegati, già azionisti di multinazionali, stanno entrando nel capitale di controllo di un numero crescente di banche, imprese strategiche, porti, aeroporti, centrali e reti energetiche. Solo per bilanciare l’espansione dei cinesi?». E’ un processo che va avanti da anni, «accelerato molto dalla “crisi” del 2007-8 e dalle politiche controproducenti come l’austerità, che sempre più si rivela una scelta politica». Tutto ciò è «evidentissimo nei paesi del Sud Europa, Grecia in testa, ma presente anche altrove e negli stessi Stati Uniti». Lo dicono blogger come Matt Taibbi ed economisti come Michael Hudson. Titolo del film: più che Germania contro Grecia, è la guerra delle banche verso il lavoro. Guerra che continua, dopo Thatcher e Reagan, nel mondo definitivamente globalizzato dai signori della finanza.




Faccio scoppiare l’Italia con la crisi dello spread, la costringo a svendere i gioielli di famiglia e quindi arrivo io, col portafogli in mano, pronto a rilevare a prezzi stracciati interi settori vitali dell’economia italiana, messa in ginocchio dalla manovra finanziaria.

Secondo “Limes”, l’architetto supremo del complotto non è la Germania, ma il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bund causando la “resa” di Berlusconi e l’avvento di Monti, l’emissario del grande business straniero.


La rivista di Lucio Caracciolo, riassume Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa”, ha messo a fuoco un po’ meglio le dimensioni, gli interessi e il vero potere del primo fondo d’investimenti mondiale, fattosi sotto con l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi, dopo che ormai il Pil italiano era stato letteralmente raso al suolo dai tecnocrati nostrani, in accordo con quelli di Bruxelles.


Il “Moloch della finanza globale” vanta la gestione di 30.000 portafogli, per un totale di 4.650 miliardi di dollari: non ha rivali al mondo ed è una delle 4-5 “istituzioni” che ricorrono tra i maggiori azionisti delle banche americane.
Con la globalizzazione dell’economia, il valore complessivo delle attività finanziarie internazionali primarie è passato dal 50% al 350% del Pil mondiale, raggiungendo i 280.000 miliardi di dollari, di cui solo il 25% legato agli scambi di merci. E il valore dei derivati negoziati fuori dalle Borse (“over the counter”) a fine giugno 2013 aveva toccato i 693.000 miliardi di dollari, in gran parte legati al mercato delle valute: al Forex si scambiano in


Fa crollare l?Italia, poi se la compra. Ma chi è BlackRock? | LIBRE
 

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il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando

Fa crollare l’Italia, poi se la compra. Ma chi è BlackRock?

Scritto il 24/4/15 • nella Categoria: segnalazioni


Fa crollare l?Italia, poi se la compra. Ma chi è BlackRock? | LIBRE

La fine della Deutsche Bank come motore sano dell’economia industriale tedesca risale all’epoca del crollo dell’Urss, quando l’attenzione della finanza angloamericana si concentra sull’Europa. E avviene a seguito di misteriosi omicidi, scrive la giornalista della “Stampa”, ricordando che Alfred Herrhausen, presidente della banca e consigliere fidato del cancelliere Kohl – un uomo che aveva in mente uno sviluppo della mission tradizionale e stilò addirittura un progetto di rinascita delle industrie ex comuniste, in Germania, Polonia e Russia, andandone persino parlarne a Wall Street – venne «improvvisamente freddato fuori dalla sua villa», a fine 1989. Si disse dalla Raf, o dalla Stasi, o da altri ancora. Stessa sorte toccò al suo successore, altro economista che si era opposto alla svendita delle imprese ex comuniste elaborando piani industriali alternativi alla privatizzazione. Fu ucciso nel 1991 da un tiratore scelto.
Dopo di lui, alla sede londinese di Deutsche Bank arriva uno squadrone di ex banchieri della Merrill Lynch, compreso il capo, che diventa presidente, riorganizzando tutto in senso “moderno”. Anche lui però muore, a soli 47 anni, «in uno strano incidente del suo aereo privato». Va meglio al suo giovane braccio destro, Anshu Jain, un indiano con passaporto britannico, cresciuto professionalmente a New York, tutt’oggi presidente della banca diventata prima al mondo per quantità di derivati, spodestando Jp Morgan: la Deutsche Bank infatti è considerata fuori dalle righe “la banca più fallita del mondo”, «esposta per 55.000 miliardi, cioè 20 volte il Pil tedesco», a fronte di depositi per appena 522 miliardi.
 

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In primo piano
Ecco il gigante malato che non ti aspetti: Deutsche Bank ha perso metà del valore mentre il Dax raddoppiava
di Fabio Pavesi
Ecco il gigante malato che non ti aspetti: Deutsche Bank ha perso metà del valore mentre il Dax raddoppiava - Il Sole 24 Ore

Deutsche Bank viene valorizzata dalla Borsa poco più del 50% del suo capitale, una valutazione più consona a una piccola Popolare italiana che a un colosso dell'investment banking. Detta così può apparire una boutade, tanto appare inverosimile, ma è invece la cruda realtà.

Il mercato evidentemente tende a non fidarsi più di tanto della prima banca continentale d'Europa, spesso protagonista, e non da ieri, di inchieste, di scandali legati alla manipolazione del mercato (leggi Libor) e di risarcimenti legali per miliardi e che ha visto negli ultimi anni almeno due ribaltoni al vertice. Prima l'uscita di Josef Ackermann, ora un nuovo passaggio di consegne al vertice.
Segno che più di qualcosa non funziona nei delicati ingranaggi dell'emblema del sistema bancario tedesco. La stasi (o meglio la debaclè)di Borsa è lì a testimoniarlo. Negli ultimi 5 anni, mentre il Dax tedesco correva raddoppiando, Deutsche ha lasciato sul campo quasi metà del suo valore. E anche il confronto con l'indice bancario europeo è impietoso, dato che è in progresso del 13%, per non parlare dello Stoxx600 salito del 57%. Una divergenza significativa che non è mai stata colmata dalla fine della crisi Lehman.
Il gigante è in crisi profonda sui mercati e non te l'aspetti dalla prima banca tedesca, anche perchè l'attività delle banche d'affari hanno beneficiato dei forti andamenti positivi degli asset finanziari dal cui trading Deutsche incassa lauti ricavi.

Quali spine punzecchiano il colosso di Francoforte?
Senz'altro una redditività in forte contrazione negli ultimi anni.

Dal picco degli utili netti di oltre 4 miliardi nel 2011 (secondo i dati di Capital Iq), si è scesi a un paio di centinaia di milioni l'anno dopo per poi risalire a 665 milioni nel 2012 e a 1,66 miliardi a fine del 2014. In progressione certo, ma con una contrazione di quasi il 60% della profittabilità. Non sono stati i ricavi a flettere, anzi hanno veleggiato in tutti gli ultimi anni sopra i 30 miliardi.

Il colpo basso arriva dai pesantissimi oneri dei contenziosi legali in cui la banca è incappata come le cronache hanno più volte raccontato. L'insieme dei risarcimenti dal 2011 spesati a bilancio ammonta a 7,8 miliardi con il picco del 2013 che ha visto sborsare ben 3 miliardi, oltre la metà del valore degli utili operativi. E così la profittabilità è andata declinando portando la banca tedesca a registrare un Roe (rendimento sul patrimonio) poco sotto il 3%, valori non certo da rutilante banca d'affari, dato che a quei livelli la remunerazione del capitale è inadeguata rispetto a investimenti alternativi. In secondo luogo a comprimere la profittabilità ha anche contribuito l'immissione di capitale resasi necessaria in questi anni per una banca che aveva patrimonio troppo scarso rispetto al poderoso attivo di bilancio. Un attivo che è anche dimagrito scendendo da 2mila miliardi a 1.700 miliardi, ma che vede tuttora a presidio un patrimonio sì rimpolpato ma che vale 68 miliardi con una leva finanziaria ancora assai tirata al 4%. Per una banca che ha rischio di credito su soli 400 milioni su un bilancio di 1.700 miliardi e che fa del trading finanziario la sua fonte di guadagni (e perdite) il tema del capitale continua a essere centrale. E così la Borsa è stata finora lontana dalla regina delle banche tedesche. E non sarà un caso ma l'altro ieri S&P ha portato il rating a BBB+.
 

tontolina

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Deutsche Bank potrebbe essere la nuova Lehman Brothers

Deutsche Bank potrebbe essere la nuova Lehman Brothers

Malgrado due rafforzamenti di capitale in un mese è stata bocciata agli stress test. Poi le dimissioni dei due Ceo e l'avvicinarsi del default della Grecia.
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I due amministratori delegati di Deutsche Bank hanno rassegnato le loro dimissioni la settimana scorsa. Qualcosa bolle in pentola.



NEW YORK (WSI) - Deutsche Bank potrebbe essere la nuova Lehman Brothers. A scriverlo è un reputato blog di economia Usa, che parla dei problemi di liquidità preoccupanti del primo istituto di credito tedesco. Malgrado due rafforzamenti di capitale nel giro di un mese la banca è stata bocciata agli stress test di marzo.

"Anche se fosse vero lo scopriremo solo all'ultimo, come è avvenuto nel caso della banca d'affari americana", dice il blog gestito da due ex dipendenti di Wall Street "pentiti".

Quanto sta accadendo da due anni in seno all'istituto ha dell'incredibile e le misure intraprese negli ultimi tempi non sono certo quelle che prenderebbe un istituto in salute.

Ricapitolando, tutto è iniziato nell'aprile di un anno fa, quando la prima banca di Germania ha varato un aumento di capitale Tier 1 da 1,5 miliardi di euro.

Un mese dopo Deutsche Bank non aveva però ancora finito il programma di rafforzamento di liquidità e ha spiazzato la comunità e i media finanziari con l'annuncio di un'emissione di 8 miliardi di euro di titoli azionari a uno sconto di anche il 30%.

Perché due azioni di rafforzamento di capitale nello spazio così ristretto di tempo? L'istituto sta attraversando da più di un anno problemi di scarsa reddivvità, diviso com'è tra le attività commerciali retail domestiche e le attività internazionali di investimento tipiche di una grande banca internazionale.

L'assetto e strategia dell'istituto spiega anche il perché della gestione bicefala del gruppo, diviso tra due Ceo, che hanno peraltro pochi giorni fa rassegnato le dimissioni.

La corsa al nuovo capitale l'anno scorso e gli ultimi eventi nascondono sicuramente qualcosa di marcio che non ci è dato sapere. A marzo la banca non ha passato gli stress test e ha ricevuto pressioni per aumentare ancora i livelli di capitale.

La banca ha dovuto anche pagare una multa salata alle autorità britanniche e statunitense in seguito a un caso di manipolazione del LIBOR. L'istituto ha dovuto sborsare 2,1 miliardi di dollari al Dipartimento di Giustizia Usa, somma che allo stesso tempo è relativamente bassa se confrontata con i guadagni intascati grazie alla distorsione artificiale dei mercati.

In maggio a uno dei due amministraotri delegati, Anshu Jain, sono stati dati maggiori poteri dal CdA in quella che a molti è sembrata una misura di emergenza in stato di crisi. Di solito in momenti di difficoltà il potere delle autorità viene aumentato.

Il 5 giugno la Grecia non ha pagato la prima tranche del prestito che doveva all'Fmi nel mese in corso. Il rischio di default ora è reale. Ciò ha e avrà implicazioni potenzialmente esplosive sui conti e il futuro di Deutsche Bank.

Nei due giorni successivi i due amministratori delegati hanno rassegnalo le timissioni. Jain se ne andrà alla fine del mese, Jürgen Fitschen a maggio del 2016, in occaione della prossima assemblea generale della banca.

Il tutto mentre S&P ha tagliato il giudizio sul credito di Deutsche Bank a BBB+, appena tre tacche sopra il livello di "junk", spazzatura. Per ironia della sorte, BBB+ era anche il grado più basso che abbia mai avuto Lehman prima del crac, che si è verificato tre mesi dopo l'ultimo downgrade delle agenzie di rating.

Fonte: Not Quant
 

tontolina

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L'altro lato del rigore: la Consob tedesca fa saltare il board di Deutsche Bank

Di Federico Simonelli 17 luglio 2015, ore 11:16

L'altro lato del rigore: la Consob tedesca fa saltare il board di Deutsche Bank - Citywire




Il rigore tedesco ha un’altro lato della medaglia: quando le autorità di controllo parlano, saltano i board delle banche.
È quello che sembra essere successo con le dimissioni di Anshu Jain, il chief executive del colosso bancario tedesco Deutsche Bank, avvenute a giugno. A scriverlo oggi è il Wall Street Journal, che è entrato in possesso di una lettera, inviata l’11 maggio dalla Bafin, la Consob tedesca, al board dell’istituto.
Nella lettera viene pesantemente criticata la condotta di una mezza dozzina di membri del board di DB, Jain compreso, specie in relazione allo scandalo della manipolazione del Libor, per cui la banca ha pagato recentemente una multa da 725 milioni di euro.
La missiva, che data un mese prima dell’annuncio di dimissioni di Jain e del co-amministratore Jürgen Fitschen (che però nella lettera non viene citato) sembra quindi aver giocato un ruolo nella sostituzione del vertice della banca, contrariamente a quanto era stato sostenuto da DB fino ad oggi.
Al centro delle critiche della Bafin ci sono quattro membri del board della banca, oltre a due senior executives, accusati di negligenza nei controlli.
Tra di loro anche Michele Faissola, numero uno di Deutsche Asset & Wealth Management, accusato, secondo il WSJ, di nascondere informazioni alle autorità e di “mantenere testardamente lo status quo” sulle procedure legate al Libor.
DB ha fatto sapere che tutti i manager tirati in ballo hanno riposto a Bafin negando in maniera decisa di aver tenuto comportamenti scorretti.
Il titolo di Deutsche Bank, a metà giornata, viaggiava di poco sotto la parità alla Borsa di Francoforte.
 

tontolina

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Il commissario della SEC è furioso con Deutsche Bank: "Dieci anni di bugie, imbrogli e furti”
Zerohedge riprende le dichiarazioni del commissario della SEC, che condanna le ripetute...
vocidallestero.it
ECCO LE RAGIONI IN BASE ALLE QUALI SOSTENGO L' OPPORTUNITA' DELLO “SHORT SELLING” SU DEUTSCHE BANK IN CASO DI EVENTI SISTEMICI, SIMIL GRECIA PT.1


http://traglisqualidiwallstreet.blogspot.it/2015/07/ecco-le-ragioni-in-base-alle-quali.html

Cari amici, qualcuno di voi mi ha chiesto come mai avessi indicato -non quale suggerimento operativo, bensì quale chiacchierata tra amici volta ad illustrare i miei pensieri- proprio Deutsche Bank, tra i colossi finanziari particolarmente sensibili -in un settore che lo è per definizione, ovvero quello dell'intermediazione bancaria- ad eventi legati al debito -nel caso di specie sovrano- come quello greco. Vorrei premettere, che si tratta di idee strettamente personali non integranti alcun invito ad operare in un senso piuttosto che in un altro.


Partiamo dalle notizie più recenti, pubblicamente disponibili on-line, per poi realizzare un viaggio a ritroso che proseguirà in posts futuri.
Nell' Aprile del 2014 Deutsche Bank si è trovata nella necessità di aumentare di 1,5 miliardi € il Tier 1, al fine di rafforzare la struttura del proprio capitale.

Nel maggio 2014, al fine di reperire ulteriore liquidità, ha deciso di vendere azioni aventi un valore di 8 miliardi di euro, scontante sino al 30%.

Nel Marzo del 2015, ha fallito gli stress tests, ricevendo un warning sulla necessità di rafforzare la struttura del proprio capitale.

Nell'Aprile del 2015, il Consiglio di Amministrazione ha trasferito molti poteri al CEO Anshu Jain.

Nell'Aprile del 2015, ha patteggiato con le autorità Inglesi ed USA per lo scandalo LIBOR (Clicca qui), impegnandosi a versare 2,1 miliardi di dollari al Dipartimento di Giustizia Americano e 226,8 milioni di sterline alla FCA.

Tra il 5 ed il 7 Giugno 2015 la Grecia non rimborsa il FMI, Anshu Jain annuncia le proprie dimissioni per fine Giugno e Jürghen Fitschen per Maggio 2016.

Il 9 Giugno 2015 S&P effettua il downgrade, portando il rating della Deutsche a BBB+, livello più basso di quello assegnato alla Lehman nei 3 mesi precedenti il crollo.

Il settore reatil non garantisce alla banca grandi profitti, ragion per cui per mantenere una redditività elevata tende ad assumere livelli di rischio superiori di quelli propri di molti competitors.

E' -verosimilmente- too big to save, avendo -ad esempio- un esposizione su derivati (al 31/12/2014) pari a € 52 trilioni, laddove il PIL dell'Eurozona si aggira sui € 9,6 trilioni e quello tedesco sui € 2,74 trilioni. Al 31/12/2013, l'esposizione totale era invece pari a 54,6 trilioni circa

Per effetto del “netting”, questi trilioni, si riducono -sempre con riguardo al 31/12/2014- dapprima ad un Positive Market Value di 634 miliardi di euro circa e ad un Negative Market Value di 615 miliardi di euro circa e poi ad un Net Market Value di 19 miliardi, in diminuzione dai 25, 4 miliardi del fatti segnare al 31/12/2013.


A questo punto, qualcuno potrebbe pensare: la situazione non è proprio malvagia, anche perché la banca dal 2013 ha avviato un processo di deleveraging, i suoi derivati presentano un valore di mercato positivo e non negativo e se dall'esposizione totale di 52 trilioni si “nettano” le coperture, l'esposizione totale è molto molto più bassa perché, come si suol dire, il lordo non è il netto.

Ecco, io su questo punto -in generale e non solo nel caso di specie- dissento. E dissento alla luce di quel poco che ho appreso in relazione al caso
subprime. L'idea-assioma di fondo è che il principio del netting bilaterale funzioni sempre, a prescindere dal mercato e che il rischio di controparte dovrebbe essere ignorato, laddove i derivati siano usati a copertura, essendo le banche sempre in grado di far fronte alle rispettive esposizioni. Nel caso del bail-out di AIG noi abbiamo potuto osservare, l'esatto opposto. Il problema, a mio modestissimo avviso, dovrebbe essere ricercato proprio nella risposta alla seguente domanda:
che cosa succede quando la catena del netting multilaterale si rompe?
Che dimensioni assume l' esposizione quando una o più controparti finiscono gambe all'aria?

In altri termini: se in questi trilioni di derivati presenti nel bilancio della banca dovessero esserci CDS o vendite di protezione o derivati variamente legati ad eventi di default (anche sovrano) come io presumo, in un contesto in cui tutti comprano da tutti, è sufficiente dire che l'esposizione mostrata in bilancio è minore laddove considerassimo l'acquisto di protezione a copertura?
Detta diversamente: in un mercato in cui tutti comprano da tutti, può dirsi l'acquisto in copertura così incrollabilmente affidabile tanto da poter affermare che l'esposizione lorda è una cosa (trilioni) e quella al netto della copertura è un'altra (qualche decina di miliardi di euro)?
Come ha dimostrato il caso AIG, quando la catena del netting bilaterale si rompe in conseguenza di eventi di default inerenti entità pubbliche e/o private, l'unica forma di salvezza è il bail-out eseguito ad opera dello stato con annessa nazionalizzazione degli istituti finanziari. In teoria, se una banca detenesse 50 miliardi di euro di titoli di stato italiani e vendesse, nel contempo, protezione sugli stessi per altri 50 miliardi di euro ai propri clienti, acquistando a sua volta 90 miliardi di protezione da altre banche, la sua esposizione netta sull'Italia, sarebbe pari a soli 10 miliardi. Questo è esattamente la stessa identica modalità con cui le banche hanno cercato di proteggersi nel corso della crisi subprime related (clicca qui). Gli istituti aventi una grossa esposizione (quella cosiddetta lorda) sui subprime e derivati sintetici, acquistarono CDS (o meglio protezione) (clicca qui e qui) da AIG (e non solo); quei CDS venivano poi sottratti dall'esposizione lorda sui subprime e derivati sintetici connessi, restituendo come risultato un'esposizione netta molto contenuta. Nel momento in cui il prezzo dei subprime iniziò a crollare, AIG si vide costretta a trasferire sempre più collaterali alle controparti dei CDS venduti qualche mese prima, sino a quando le casse rimasero vuote, con relativo intervento del governo USA. Tutte quelle istituzioni che avevano comprato CDS (ma il discorso può estendersi ai derivati in senso lato ove usati in copertura)appresero con i loro occhi come le coperture possano volatilizzarsi in pochi giorni, causando decine di miliardi di dollari di perdite.


Un ipotetico default della Grecia, di per sé, avrebbe innescato pochi rischi trattandosi di valori debitori non solo relativamente molto contenuti, ma altresì neutralizzati dal fatto che la quasi totalità dei titoli del debito pubblico giace nei portafogli di istituzioni non private. Il rischio vero viene da altri stati periferici: Italia e Spagna su tutti. Qui, un intervento diretto della BCE sarebbe vietato dai Trattati, potendo agire -in certi limiti- solo sul secondario, sul modello QE -OMT, con la conseguenza che le banche, per proteggersi sarebbero indotte ad acquistare -dagli istituti di credito di rilevanza sistemica- derivati sulle stesse controparti dei derivati presenti sui loro bilanci, proprio come successe -ancora una volta- nell'ambito della crisi subprime.
Ad esempio Goldman, che aveva acquistato CDS da AIG per tutelarsi dal rischio subprime, acquistò CDS sulla stessa AIG, per tutelarsi dal rischio di un suo fallimento. Da chi li aveva comprati? Li aveva comprati anche da Lehman e Citigroup, rispettivamente fallita ed oggeto di bail-out pubblico durante la crisi. Col fallimento di AIG (poi salvata dallo stato) tutta la catena del netting bilaterale saltò per aria, ragion per cui dovettero intervenire gli stati onde evitare che i trilioni di esposizioni in derivati, valessero – in termini di perdite- per il loro essere “lordi” e non “netti”.
E chi ha la più elevata esposizione lorda in derivati? Deutsche Bank.


Pubblicato da FRANCESCO MARIA PELLEGRINI a 20:18
 

tontolina

Forumer storico
ECCO LE RAGIONI IN BASE ALLE QUALI SOSTENGO L' OPPORTUNITÀ DELLO “SHORT SELLING” SU DEUTSCHE BANK IN CASO DI EVENTI SISTEMICI, SIMIL GRECIA PT.2 COME DEUTSCHE BANK EVITO' IL BAILOUT GOVERNATIVO.


http://traglisqualidiwallstreet.blogspot.it/2015/07/ecco-le-ragioni-in-base-alle-quali_17.html

Come dicevo nella prima parte, i derivati non sono mai a rischio zero. Infatti, nel 2012 il Financial Times pubblicò una notizia nella quale si paventava che DB avesse nascosto 12 miliardi di dollari di perdite maturate nel corso della crisi subprime related, al fine di evitare di incorrere in un bail-out governativo.
A cantarsela furono 3 dipendenti -poi divenuti ex dipendenti- deputati ad interfacciarsi con le autorità di controllo. Più nello specifico, il FT asseriva -secondo quanto dichiarato dai quegli impiegati- che l'attività di occultamento fosse stata portata avanti per il tramite di una erronea sopravvalutazione di una gigantesca posizione detenuta in complesse strutture di derivati, note col nome di Leveraged Super Senior Trades. I tre dipendenti -secondo quanto scritto all'epoca dal noto giornale finanziario- affermarono che se il valore dei derivati -aventi un nozionale pari a 120 miliardi di dollari canadesi- fosse stato iscritto in bilancio correttamente, il capitale della banca sarebbe sceso a livelli molto pericolosi nel corso della crisi finanziaria.
Invece, sempre secondo i dipendenti, i traders dell' istituto decisero di non riportare il valore mark-to-market della perdita, col consenso degli organi esecutivi.

Piccola nota di colore: quando i dipendenti della DB avanzarono alla SEC -nel 2012- le loro perplessità sulla gestione dei derivati in portafoglio, trovarono quale responsabile delle indagini un certo Robert Khuzami (il quale dichiarò l'esistenza del conflitto di interessi), precedentemente responsabile della compliance presso DB.
A parte questo,
Eric Ben-Artzi
risk manager presso la banca, venne licenziato tre giorni dopo aver depositato un documento legale presso la SEC sull'argomento;
Matthew Simpson -senior trader presso la DB- lasciò la banca (con un accordo transattivo di $900.000) dopo aver esposto i propri dubbi sulla correttezza del processo valutativo di alcune posizioni in derivati;
il terzo canterino invece è rimasto anonimo.
A questo punto, qualche lettore potrebbe chiedersi: perché ci racconti questa storia del 2012? Per due motivi, strettamente connessi:

nonostante la DB respinse le accuse, un mese e mezzo fa circa, la SEC ha sanzionato proprio quelle condotte;

molto probabilmente o comunque, secondo la versione dotata di maggior credito anche presso gli esperti della materia, quelli giochi di prestigio contabile consentirono alla DB di evitare il salvataggio governativo.

Di seguito, andrò ad esporre brevemente alcuni elementi chiave della vicenda che esamineremo, in maniera approfondita, nei prossimi posts.

Il tema, come detto, riguarda la sopravvalutazione di alcun trades, noti come Leveraged Super Senior (LSS), avvenuta durante la crisi finanziaria ed alla base di una rappresentazione documentale delle effettive condizioni finanziarie non corretta, con riguardo al bilancio finale del 2008 nonché alle comunicazioni societarie del primo trimestre del 2009. I trades LSS in questione, avevano un valore nozionale di 120 miliardi di dollari canadesi o se si preferisce di 98 miliardi di dollari USA, riflettendo la protezione creditizia che DB acquistò da controparti canadesi.
Inizialmente le compravendite avvenivano a leva 11, il che significava che le controparti canadesi fornivano-complessivamente collaterale pari a circa il 9% dei trades o approssimativamente ad 8,5 miliardi di dollari.
A seguito di una ristrutturazione operativa conclusasi nel primo 2009, la leva sui trades fu parzialmente ridotta con corrispondente incremento di collaterale, portato ad un totale di 16,6 miliardi di dollari, in aggiunta ad un margine, finanziato da DB per circa 2 miliardi di dollari.
Il fatto che i trades fossero a leva, creò il rischio che il valore nozionale complessivo dell'operazione condotta da DB, eccedesse il valore del collaterale e dunque esponesse DB al “Gap Risk”.
Come protection buyer, i LSS trades della BD aumentarono di valore al deteriorarsi dei mercati nel corso della crisi finanziaria.
Tuttavia, all'aumentare del valore dei trades, cresceva anche il Gap Risk patito dalla DB sugli LSS. L'istituto tedesco utilizzò una varietà di metodi nel tentativo di misurare il valore del Gap Risk nel corso di quel periodo. Dall' inizio del 2008, le mutevoli metodologie di misurazione del Gap Risk, produssero quale unico risultato quello diridurre costantemente il valore che la Deutsche gli assegnava.
Ancor di più, dall' Ottobre 2008 in poi, DB non tentò più di aggiustare il valore del Gap Risk patito negli LSS trades, attribuendogli -direttamente- un valore pari a zero dollari. Da qui, la possibilità di affermare -senza timore di essere smentito- che in quella circostanza, i deficitari controlli interni, contribuirono a far sì che DB mancasse di valutare correttamente il Gap Risk, con conseguente erronea rappresentazione documentale delle proprie condizioni finanziarie.

Vi ricordo che DB ha un'esposizione nozionale su derivati pari ad oltre 52 trilioni di euro.
Pubblicato da FRANCESCO MARIA PELLEGRINI a 20:07
 

tontolina

Forumer storico
da https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10207567451171014&set=pcb.959949287381854&type=1&permPage=1

Se c'è un titolo che anche per analisi fondamentale darei per spacciato, è Deutsche Bank, ma come al solito ci limitiamo ai grafici: a oggi non ha nessuna candela di inversione, ma la doppia resistenza a 32,50 va per forza monitorata

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