ma Deutsche Bank sta fallendo? (1 Viewer)

tontolina

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BNP Paribas esclude fusione con Deutsche Bank, non valuta grossi deal
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Mercato azionario53 minuti fa (24.05.2018 16:10)

PARIGI (Reuters) - Il Ceo di BNP Paribas Jean-Laurent Bonnafé ha escluso un'integrazione con Deutsche Bank (DE:DBKGn) in quanto non sta valutando grandi operazioni o fusioni.

Rispondendo alla domanda di un azionista durante l'assemblea annuale di bilancio, Bonnafé ha dichiarato che la banca guarda costantemente i suoi concorrenti per imparare ma ha smentito l'idea di una grossa integrazione.

BNP Paribas ha una capitalizzazione di borsa intorno ai 77 miliardi di euro, contro i 23 miliardi di Deutsche Bank.

"Nel prossimo futuro il gruppo non ha intenzione di portare avanti operazioni di grossa taglia, perché non è possibile", ha detto Bonnafé rispondendo alla domanda se la banca francese stia analizzando Deutsche Bank.

Già ieri un'altra grande banca europea ha sgombrato il campo da voci su una possibile grande fusione con un altro istituto: fonti vicine a Barclays (LON:BARC) infatti hanno dichiarato che il colosso britannico non sta esplorando una fusione con concorrenti dopo che il Financial Times ha scritto di una combinazione con Standard Chartered (LON:STAN).

In un'intervista a Il Sole 24 Ore, Lorenzo Bini Smaghi, confermato ieri alla presidenza di SocGen, dice che i tempi non sono ancora maturi per fusioni transfrontaliere in quanto ci sono ancora ostacoli alla concentrazione bancaria a livello europeo.



Come dire che banca krucca dovrà essere nazionalizzata dalla Merkel .... con tanti auguri... mi sa che finalmente accetteranno le obbligazioni Europee perchè la Germania ne avrà una grande necessità... eggià i crukki sanno solo fare bene i loro interessi e lo mettono nel..... agli altri
 

tontolina

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DEUTSCHE BANK E’ IN TRAPPOLA!
Scritto il 22 maggio 2018 alle 08:06 da icebergfinanza
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Nulla di nuovo per i lettori di Icebergfinanza, ma visto e considerato che la stampa mainstream italiana è tutta intenta esclusivamente ad attaccare il nuovo Governo italiano e non si accorge di quello che accade in Germania, come sempre ci pensiamo noi che da tempo evidenziamo la criticità estrema di una voragine con la banca intorno come Deustche Bank…



Quasi un segno del destino quella misteriosa candela sul grafico di Investing che porta a zero il valore di Deutsche Bank, quasi fosse il solito flash-crash di algoritmica memoria che ogni tanto scuote i mercati finanziari…

In sintesi ci sono almeno 50 miliardi di asset che non danno alcuna redditività alla banca tedesca,
non solo,
centinaia di miliardi occultati al terzo livello contabile, prodotti derivati e strutturati che in un contesto di mercato difficile o pessimo perderebbe subito il loro valore.

Dimenticavo! Nel nostro modellino Deutsche Bank e Commerzbank sono sempre nei primi posti come rischio, ovviamente non abbiamo riferimenti per le altre banche tedesche che come ben sapete sono in gran parte protette dal sistema pubblico tedesco e sottratte alla supervisione della BCE.

Manfred Weber, capogruppo del Ppe al Parlamento europeo e membro della Csu bavarese, mette in guardia Lega e Movimento 5 Stelle: “Das ist ein Spiel mit dem Feuer” (state giocando col fuoco).
Il politico tedesco va avanti: “L’Italia è pesantemente indebitata”, e avverte che “azioni irrazionali o populiste potrebbero provocare una nuova crisi dell’euro”. Fa appello, dunque, a rimanere “nei confini della ragione”. Weber riconosce tuttavia che bisogna “dare una possibilità” alla nuova coalizione di governo italiana “perché rispettiamo i risultati elettorali”.

Consiglio ai tedeschi di occuparsi seriamente dei loro problemi, ho sempre più la convinzione che la vera esplosione arriverà dalla Germania!

Ovviamente Fitch, l’agenzia del senno di poi in buona parte di proprietà francese, invece di fare i conti con le banche francesi e soprattutto il demenziale modello di Credit Agricole, si occupa di spread e Italia …

Ogni cosa a suo tempo sotto il cielo!
 

tontolina

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Paolo Nardovino

Okkio a DBK, altro che banche italiane...
" La Fed ha defiinito «problematiche» le condizioni delle attività americane di Deutsche Bank.
L'indiscrezione è del Wall Street Journal.
La banca tedesca già l'anno scorso fu bocciata dalla banca centrale americana ma prima d'ora non ne era stata data notizia.
Lo status «condizioni problematiche» - uno dei più bassi ad essere usati dalla Fed - ha condizionato le scelte dell'istituto di credito nel ridurre l'assunzione di rischi in aree come il trading e la concessione dei prestiti.
Questo status significa anche che le decisioni del gruppo tedesco sulle assunzioni e sui licenziamenti di top manager in Usa devono passare dalla Fed.
Stando al Wsj, anche l'esborso di una buonuscita e cambiamenti degli incarichi di lavoro del personale richiedono l'ok della Fed.
Stando alle fonti anonime citate, l'azione punitiva della Fed - che in Usa è il principale regolatore per le banche - ha pesato negativamente sulle relazioni di Deutsche Bank con altri regolatori come la Federal Deposit Insurance Corp (che in Usa garantisce i depositi bancari). "

https://www.wsj.com/.../deutsche-banks-u-s-operations...Gestire

WSJ.COM

Deutsche Bank’s U.S. Operations…
 

tontolina

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Deutsche Bank affondata dalla finanza speculativa
Il 2017 ha visto perdite nel settore dei derivati pari a 124,1 miliardi di euro, mentre il valore nozionale totale dei derivati è salito da 42,9 a 48,3 trilioni di euro!
di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi ** *già sottosegretario all'Economia **economista SCARICA IL PDF

Deutsche Bank affondata dalla finanza speculativa - ItaliaOggi.it

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Parlare della situazione finanziaria della Deutsche Bank, la prima banca tedesca, ci sembra doveroso. Non tanto per ributtare oltralpe la palla dello scandalo e della polemica pretestuosa, ma per affrontare insieme una sfida difficile che tocca tutta l'Unione europea e l'intero sistema bancario e finanziario internazionale. Dall'inizio dell'anno a oggi le azioni Db hanno perso oltre il 40% del loro valore. Certo, non per l'inaffidabilità del governo tedesco. Neanche per la decisione del management di operare una riduzione dell'organico di circa 10 mila dipendenti. E nemmeno per il recente abbassamento del rating fatto dall'americana Standard & Poor's.

La vera ragione, secondo noi, è negli effetti del fallimento provocato dalla conversione della banca da commerciale a banca d'investimento speculativo. Ciò è stato candidamente ammesso da David Folkerts-Landau, l'economista capo della Db, che, in un'intervista al quotidiano economico Handelsblatt, ha affermato che dagli anni Novanta il management ha, di fatto, trasformato la banca in una specie di hedge fund speculativo di tipo anglosassone. A tutti i costi bisognava ottenere un rendimento del 25% sul capitale, «accettando di correre grossi rischi finanziari ed etici».

Fino alla fine degli anni ottanta la Db era stata la banca più impegnata nel sostegno ai grandi progetti industriali, poi, purtroppo, come hanno fatto tante altre banche, ha favorito il rischio e la speculazione rispetto all'economia reale. Tra gli analisti indipendenti alcuni dicono che, se si collega la situazione emblematica della Db alla bolla globale del debito societario, si potrebbe essere vicini a una nuova crisi di liquidità, di enormi dimensioni.

Non è casuale il fatto che recentemente la Bce abbia richiesto che la banca faccia la simulazione di uno «scenario di crisi» per valutare i costi e gli effetti sistemici della repentina cessazione del reparto di investment banking. Quel reparto che opera in derivati e in altre operazioni finanziarie ad alto rischio sui mercati di Londra e di New York.

Indubbiamente la Db non è una «banchetta» qualsiasi e i suoi dirigenti si affannano a dimostrare che essa può contare, sulla carta, su alcuni elementi di garanzia, quali la notevole liquidità e un tasso di solidità, il cosiddetto Cet1, pari a 13,4%, ben oltre i livelli richiesti dalla Bce. Com'è noto, esso misura l'ammontare del capitale versato con le attività a rischio.
Tutto ciò è vero. Infatti, non è l'intera Db a rischio default, ma è la sua componente di banca d'affari a trascinare a fondo l'intero istituto. Da oltre tre anni essa registra consistenti perdite.

Anche la cultura popolare sa che una mela guasta non rimossa può far marcire l'intero cesto! Basta leggere il Rapporto annuale della Deutsche Bank del 2017. Fornisce due dati impressionanti: rispetto all'anno precedente, il 2017 ha visto perdite nel settore dei derivati pari a 124,1 miliardi di euro, mentre il valore nozionale totale dei derivati è salito da 42,9 a 48,3 trilioni di euro! E di questi quasi il 90% sarebbero i «famigerati derivati over the counter (otc)», quelli negoziati fuori dei mercati regolamentati.

Per obiettività, comunque, non si può certo negare quanto sostengono i dirigenti attuali della Db. Secondo loro la banca è da qualche tempo oggetto di una «particolare attenzione» e anche di attacchi all'interno degli Stati Uniti, come se si volessero addebitare alla Db tutte le malefatte finanziarie perpetrate negli ultimi anni da tutte le banche «too big to fail», troppo grosse per fallire in primis dalla Goldman Sachs, dalla JP Morgan, ecc.

Nel settembre 2016 il Wall Street Journal riportò che il Dipartimento di Giustizia americano aveva iniziato un procedimento legale contro la Db per ottenere il risarcimento di ben 14 miliardi di dollari con l'accusa di aver utilizzato dubbie ipoteche durante la grande crisi. Naturalmente simili notizie dovrebbero essere mantenute nel riserbo assoluto per evitare conseguenze sui mercati e per arrivare a possibili patteggiamenti. Nel caso specifico, dopo l'intervento da parte del governo tedesco, si convenne di far pagare alla Db circa la metà della somma.

Intanto l'immagine della banca era già stata fortemente compromessa, tanto che oggi si parla di una sua uscita dal mercato americano. Del resto anche la Federal Reserve, nel 2017, ha avviato altre 4 azioni legali nei confronti della banca tedesca con multe per 200 milioni di dollari. Oggi, poi, la Fed rincara la dose e parla di «condizioni problematiche» in cui verserebbe la Db. Se le pratiche delle grandi banche internazionali continuano a essere distorsive dei mercati, certamente il rischio di un'ulteriore crisi diventa più concreto. È un problema globale che dovrebbe essere affrontato con urgenza, soprattutto dall'Europa.
 

tontolina

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FRANCOFORTE E I rischi sistemici
Deutsche Bank, i rischi negli Usa arrivano dallo stress test della Fed
Deutsche Bank, i rischi negli Usa arrivano dallo stress test della Fed

«The bank is in trouble conditions», secondo la Federal Reserve.
Ovvero: la banca è in condizioni problematiche.
Trattandosi di Deutsche Bank, colosso finanziario tedesco con attività totali per 1474 miliardi di euro, la traduzione più adatta è che la banca è “nei guai”. Guai che potrebbero diventare seri perchè finire del mirino delle autorità di Vigilanza Usa - che entro due settimane divulgheranno l’esito degli stress test sulle banche operanti in America - proprio mentre divampa la guerra economico-commerciale tra Stati Uniti e Germania, non è certo tranquillizzante per una banca come Deutsche che, in aggiunta alle proprie lacune nei controlli interni, rischia di pagare pesantemente l’ambizione di aver voluto sfidare le grandi banche americane a casa loro nel ricco ma rischioso mercato dell’investiment banking.

Per capire i rischi futuri di Deutsche Bank, e interpretare i segnali di preoccupazione che arrivano dalla Borsa e dal mercato obbligazionario, è necessario ripercorrere la sequenza di avvenimenti delle ultime settimane.
A fine gennaio, il ceo John Cryan presenta i conti del 2017 chiusi con una perdita di 512 milioni, terzo anno consecutivo di bilancio in rosso. Pesano gli oneri una tantum della riforma fiscale Usa, ma gli analisti guardano ai deludenti saldi gestionali: i ricavi scendono del 12%, il rapporto tra costi e ricavi è addirittura del 93%.
Passano poche settimane e il ceo inglese Cryan viene allontanato e sostituito dal tedesco Christian Sewing. L’iniziativa viene presa dal presidente del consiglio di sorveglianza Paul Achleitner, che era stato promotore dell’ingresso nel capitale di Deutsche del fondo sovrano del Qatar e della conglomerata cinese Hna (entrambi soggetti poco graditi alle autorità Usa).
IN TENSIONE SUI MERCATI
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I fondi Usa contestano Achleitner, anche in assemblea, e mostrano perplessità sull’efficacia del nuovo piano di rilancio del ceo Sewing che punta sul taglio di 7.000 dipendenti e sulla riduzione «graduale» delle attività di investment banking negli USA.
L’obiettivo di tagliare 23 miliardi di costi nel 2018 e 22 miliardi nel 2019 viene giudicato poco credibile dal mercato. E viene addirittura bocciato dall’agenzia di rating Usa Standard & Poor’s, che a maggio decide di tagliare il rating di Deutsche Bank.
In assenza di novità che impattino su debito e capitale della banca, il mercato si interroga sui motivi della decisione di S&P. Possibile che i dubbi su un piano industriale triennale appena presentato siano l’unico motivo del taglio del rating?
Ad alimentare il mistero attorno a Deutsche, è la sequenza di “bad news” in arrivo dagli USA. Pochi giorni prima della decisione di S&P, infatti, indiscrezioni di Wsj riferivano che Deutsche già da un anno era stata inserita dalla Fed tra le banche in «trouble conditions».

Una sequenza di avvenimenti che ha destato allarme sul mercato, come dimostra l’andamento delle quotazioni di Deutsche Bank. Dall’inizio dell’anno le azioni della banca tedesca hanno perso il 40% del loro valore, realizzando la peggiore performance tra le maggiori banche europee. La capitalizzazione di mercato è scesa a 25 miliardi di euro, ed è ormai lontanissima dai due big europei: Santander (89 miliardi)e Bnp Paribas (67 miliardi). Ancora più preoccupante è il nervosismo che si registra sul mercato dei bond: i subordinati At1 sono scesi sotto i 90 centesimi. Ma soprattutto è esploso il costo per assicurare il debito di Deutsche, con i credit default swap che a inizio anno quotavano 60 e pochi giorni fa hanno superato 180 per poi attestarsi tra 150 e 160.
Speculazione in vista dell’evento degli stress test Usa? Probabilmente è così, anche se resta un alone di mistero sui reali rischi che Deutsche potrebbe correre. Il capitale primario (Cet1) del gruppo è al 13,4%, ben sopra il livello Srep indicato da Bce. E sopra ai livelli richiesti da Fed sono anche gli attuali coefficienti patrimoniali delle tre controllate Usa di Deutsche. Addirittura eccessiva - secondo gli analisti - è la liquidità, pari a circa 279 miliardi di euro, che dovrebbe mantenere il gruppo al riparo da qualunque crisi temporanea di solvibilità. Perché allora tanti timori su Deutsche?

La risposta, ancora una volta, va cercata negli USA. Recentemente la Fdic, agenzia federale che tutela i depositi, ha rivelato che gli asset delle banche problematiche negli Usa sono balzati da 13,9 miliardi di fine 2017 ai 56,4 miliardi del primo trimestre 2018. Fonti di stampa (non smentite) hanno attribuito questo salto all’ingresso nella “black list” della subsidiary Deutsche Bank Trust Company Americas (Dbtca). «Se fosse vero - scrivono gli analisti di Barclays - non saremmo sorpresi se questo evento portasse alcuni clienti a rivedere le proprie relazioni di business con Deutsche». Il ritiro dei depositi è il maggior fattore di rischio per una banca e, probabilmente, è questa una delle incognite dei prossimi stress test, più che le eventuali richieste di capitale.
Le entità di Deutsche sottoposte a stress test sono tre:
oltre a Dbtca con sede nel Delaware, che ha attività per 42 miliardi,
anche Deutsche Bank Securities Inc (108 miliardi di attività)
e Db Usa Corp (150 miliardi di asset). Quest’ultima è la holding per le attività americane di Deutsche e sarà sottoposta per la prima volta all’esercizio di stress. E’ stata costituita su imposizione delle Autorità Usa, con capitale “segregato” in America, liquidità propria e board di indipendenti. Su DB Corp il main regulator è la Fed e non l’home regulator, ovvero l’Ssm di Bce che nei fatti subirà ogni decisione americana.
 

tontolina

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Prima di dichiarare fallimento, Lehman Brothers aveva assets per 639 miliardi di dollari.
Bene, ora guardate questo grafico

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Deutsche Bank ha attualmente il triplo di quegli assets, un controvalore di 1,7 triliardi di dollari. La stessa banca ha perso l’80% del suo income netto dal livello del 2017 e da poche settimane abbiamo scoperto che è da oltre un anno sulla lista delle banche “problematiche” della Fed con la sussidiaria statunitense, di fatto la turbina del suo ramo trading. Commissariata. E sotto attacco. Non solo per una questione politica, sia chiaro. La stessa Federal Reserve criticò pubblicamente il gigante tedesco per violazione dei regolamenti e attività di reporting inaccurata nel 2014 e poi nel 2015, 2016 e l’anno scorso: Deutsche Bank, di fatto, se ne fece beffe. Pagò tutte le multe che dovette pagare e andò avanti.
Ora, però, la situazione comincia a fare davvero paura.
Un mese fa, quando il titolo di DB cominciò un vero e proprio crollo ed emerse la notizia del commissariamento da parte della Fed, Standard&Poor’s declassò il suo rating da A- a BBB+, a soli tre notches dal livello spazzatura. Il nuovo amministratore delegato del Gruppo, Christian Sewing, subito dopo il downgrade parlò allo staff e lo rassicurò riguardo la forza insita del gigante del credito tedesco e puntò tutto sulle strategie future: dopo quel discorso, però, cominciò a farsi viva la realtà, la quale bussò alla porta sotto forma di revenue in calo del 5% e calo dell’income del 79%.

Da dove derivava l’ottimismo di Sewing? Obbligo aziendale? Carica motivazionale, seppur degna di miglior causa, stando ai dati reali? I quali per il 2017 soltanto parlano di perdite per 497 milioni di euro a fronte di stime per 290 milioni, stando alle proiezioni degli analisti di Reuters. Insomma, se Deutsche Bank vorrà sopravvivere, dovrà dar vita a un cambio radicale, un vero morphing. E, prima di tutto, dovrà prendere atto dell’esistenza stessa di un problema, pubblicamente negato da tutti, dirigenza e governo tedesco. E il motivo è chiaro sta nei numeri molto grandi dell’istituto tedesco, i cui assets al 31 marzo equivalevano al 45% del Pil tedesco circa.

Ma, paradossalmente, il futuro che sta di fronte a DB è più simile a quello di Fannie Mae e Freddie Mac che a quello di Lehman Brothers, con l’aggravante però che DB è più strategica e sistemica per la Germania di quanto le due agenzie non fossero per Washington al momento della loro crisi. Non a caso, è tornata a circolare l’ipotesi di fusione di Deutsche Bank con Commerzbank, quasi l’unione di due malati desse miracolosamente vita a un soggetto sano.

La realtà è una sola. Angela Merkel, al netto della sfida politica del leader bavarese, Horst Seehofer, sulla questione migranti, ha di fronte a sé la sfida maggiore della sua lunga permanenza al potere: evitare il fallimento di DB, le cui conseguenze sarebbero catastrofiche non solo per la Germania, ma per l’intero impianto economico e finanziario globale, il colpo di grazia. Qualcuno vuole forse che non solo la nuova crisi parta dall’Europa, ma, addirittura, dal suo cuore pulsante, da uno dei suoi simboli? Non lo escludo affatto. Perché se un giorno scopriremo chi si è mosso al ribasso su DB, quali attori hanno speculato sulle sue disgrazie, frutto di una gestione quasi criminale dell’investment banking, oggi occorre capire cosa fare, occorre un piano A. Ma anche un piano B, fuori mercato. E fuori dall’Europa. Emergenziale, insomma.


Ed ecco che, di colpo, quanto per mesi era apparso un eccesso di scarsa fiducia, ora assume un contorno diverso: guardate questo grafico.

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Ci mostra il piano di rimpatrio delle riserve auree della Bundesbank dai caveau di stoccaggio di New York, Londra e Parigi entro il 2020. Bene, quel piano ha subìto un’accelerazione tale da aver già compiuto l’intero iter, con tre anni di anticipo. Berlino ha già rimpatriato 583 tonnellate d’oro, equivalenti a circa 31 miliardi di dollari. E attenzione, perché parliamo di una parte delle 3.376,3 tonnellate d’oro di cui si compongono le riserve auree totali della Banca centrale tedesca, circa 117 miliardi di euro di valore. Sembra una cifra enorme, ma calcolate gli assets di DB e, soprattutto, i 900 e passa miliardi di esposizione della stessa Bundesbank verso Target2, il “conto corrente” comune dell’eurozona, la gran parte dei quali dovuti a esposizione verso creditori come Italia e Spagna.
Ora guardate questo altro grafico.

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Ci mostra le principali riserve auree nel mondo: quelle tedesche sono le seconde, dopo quelle Usa. Poi Fmi e Italia, con la Francia quasi appaiata.
Quell’oro è stato riportato in Germania per quale motivo, quindi, stante tutta quella fretta?
Perché in Germania è da tempo che sanno come stanno le cose, la crisi dei migranti è stata solo il motivo accelerante di un qualcosa che i tedeschi sapevano e studiavano da tempo: la frantumazione dell’eurozona e, soprattutto, il nodo gordiano dell’esposizione della Bundesbank a Target2, un qualcosa che in caso di insolvibilità degli Stati debitori, al netto di una loro uscita dall’euro o di un collasso stesso dell’unione valutaria, avrebbe gravato direttamente sui conti pubblici di Berlino. E poi c’è DB, una grana troppo sistemica da lasciar risolvere al mitologico “mercato”.

Quell’oro, quindi, ha una duplice valenza: rassicurare sia crediti sovrani che privati da eventuali scossoni sistemici e di governance, sia della Bundesbank e dei suoi squilibri in seno a Target2, sia di DB in caso di ristrutturazione radicale per evitare un fallimento disordinato e la liquidazione di assets a prezzo di saldo.

La Germania è già ampiamente un passo avanti, mentre là fuori la gente è inconsapevole e pensa che l’Europa sia a rischio per qualche migliaio di ricollocamenti o respingimenti alle frontiere.

E noi, con quale esercito andiamo a combattere questa battaglia?
Ma, soprattutto, con quali generali? Se non avete visto Margin call, fatelo.
Al più presto: il suo finale amaro potrebbe dirvi molto del futuro che attende chi sopravviverà.
SPY FINANZA/ La Germania riporta a casa l'oro per evitare un'altra Lehman Brothers
 

tontolina

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DUNQUE
SE HO BEN CAPITO
TOCCHERà ANCHE ALL'ITALIA SALVARE DEUTSCHE BANK

nonostante la bocciatura da parte della FED sugli stress test quantitativi, stamattina Deutsche Bank vantasse un +3,5% al DAX, tallonata da Commerzbank con il 2,8%, essendo le due banche ormai costrette a un matrimonio di convenienza (o, meglio, di sopravvivenza): l’aver imposto l’utilizzo dell’ESM per finanziare il Fondo di risoluzione bancaria in sede di Consiglio UE aveva spazzato via la negatività delle notizie che giungevano dagli USA. Ma ecco che, a stretto giro di posta, appaiono queste altre tre cannonate:


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ora, per quanto DB sia notoriamente un hedge fund e non una banca commerciale, non vi pare che – messe in fila – le notizie negative al suo riguardo comincino a diventare un po’ troppe, anche solo a livello di coincidenza temporale? Anche perché, al netto delle cifre da piscina delle monete d’oro di Zio Paperone, il rischio potenziale reale sul portafoglio derivati – non il nozionale – è di circa 22 miliardi di euro, a fronte di liquidità per 279 miliardi. Comunque sia, la preoccupazione c’è.
E palpabile, altrimenti non si sarebbe intervenuti sull’ESM in questo modo da ladri di galline, prima che il vertice iniziasse e, soprattutto, nel silenzio pressoché totale della stampa. Servono cortine fumogene, perché siamo davvero davanti a un rischio finanziario enorme.

A confermarlo, attorno all’ora di pranzo, la Reuters, a detta della quale la BCE starebbe pensando di dar vita a una sua versione di Operation Twist per garantire la compressione dei rendimenti obbligazionari anche dopo la fine del QE, come fatto dalla FED nel 1961 e poi, soprattutto, nel 2011. Cosa significa? Facendola molto breve e semplificando, rimpiazzare i bond a breve scadenza in maturazione con altri a lunga scadenza, in modo da allungare la durata del portafoglio di detenzione obbligazionaria, ad oggi per un controvalore di 2,6 triliardi di euro. Di fatto, un’operazione chiave per mantenere basso il costo di finanziamento nell’eurozona anche dopo il 1 gennaio 2019. Stranamente, la voce è uscita proprio ieri, ovvero in contemporanea con il vertice UE, la cui determinazione sulla destinazione d’uso dei fondi ESM per la risoluzione bancaria è passata bellamente sotto silenzio e con Eurostat che confermava ciò che si è aspettato per trimestri: il tasso di inflazione nell’eurozona è arrivato al mitologico 2%, ovvero l’obiettivo prefissatosi dalla BCE per il proprio programma di stimolo monetario.
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La BCE pronta a Operation Twist, Trump minaccia di uscire dal WTO, Germania nel mirino: è il Matrix - Rischio Calcolato
 

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A Bruxelles si parla del nulla ma esiste un’agenda parallela: perché sui mercati già scavano trincee
Di Mauro Bottarelli , il 28 giugno 2018 220 Comment

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Cosa decideranno al Consiglio UE in corso a Bruxelles? Francamente, non me ne frega un cazzo. Sarà la solita pagliacciata e, alla fine, se si vorrà evitare ondate sgradite (a tutti) di migrazioni, toccherà pagare. I libici, la Turchia, il Niger. Salcazzo chi altro ma è l’unica via. Perché se anche l’Italia terrà duro con la linea dei porti chiusi, se Tripoli o Tobruk non fanno qualcosa, ci ritroveremo con il Mediterraneo ridotto a una zuppa di bagnarole cariche di persone. E al primo incidente, al primo ferito, al primo morto, addio linea dura. E’ inutile che ci prendiamo per il culo, sappiamo tutti che è così. Quindi decidano un po’ il cazzo che vogliono. Tanto, le uniche due cose davvero importanti su cui si è presa una decisione, le si è sapute prima ancora che tutti i leader arrivassero nella capitale belga. Ovvero, Budget europeo uscito dal programma del Consiglio e utilizzo dell’ESM per finanziare il fondo di risoluzione bancario.

Quindi, tradotto: le cose importanti le decideranno i soliti direttori privati e gli accordi di potere bilaterali e, soprattutto, sta arrivando un’ondata di merda destinata a sommergerci peggio che nel 2008. Quindi, meglio parare il culo alle banche. Ovviamente, non a tutte. Ormai è corsa contro il tempo e, come vi dicevo, qui rischiamo doppio in vista della fine del QE, ammesso e non concesso che mai avvenga, almeno nei termini prospettati da Mario Draghi a Riga.
Primo, le banche – come certificato dalla BRI – sono stracariche di merda nei bilanci, assortimento che va dai titoli di Stato a rischio a un vaghissimo utilizzo del leverage che potrebbe risultare fatale, il tutto a fronte di una riattivazione del meccanismo di credito verso l’economia reale praticamente a zero. E questi due grafici,
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ci mostrano che la dinamica è destinata a peggiorare, proprio facendo riferimento al comparto corporate europeo e alla fine di quella pacchia chiamata CSPP, ovvero l’ampliamento della platea di bond eligibili all’acquisto da parte della BCE anche al ramo aziendale, di fatto un bypassaggio del finanziamento per via tradizionale, ovvero bancario. Qual è il problema?
Il solito, cioè che dal dito si è passati al braccio e poi alle gambe.
Ed ecco che hanno emesso cani e porci a badilate, tanto che oggi ci ritroviamo con circa 800 miliardi di bond con rating BBB non finanziari a fronte di un mercato dell’alto rendimento europeo con un controvalore di 285 miliardi. Due volte e mezzo, una ratio che non si vedeva dal 2008. Bell’annata, se ricordate.
E perché tutto questo?

Semplice, con la BCE che ha reso i costi delle emissioni obbligazionarie alla portata di tutti, ecco che proprio tutti si sono messi a emettere come pazzi, unendosi alla grande festa del mark-to-salcazzo. Il problema, ora, è un po’ più che potenziale e ipotetico: perché in tempi di mercato europeo dell’high yield che comincia a contrarsi, ci troviamo con un esercito di potenziali “fallen angels”, ovvero bond sulla soglia dell’alto rendimento, che potrebbero causare un grosso mal di stomaco da congestione al mercato, sufficiente a procurare un bel blocco intestinale. Il tutto, senza più gli acquisti onnivori e senza rating della BCE. Capito perché, al netto dei guai borsistici di giganti come Deutsche Bank o del portafoglio titoli di Stato delle banche francesi, si è ben pensato di utilizzare l’ESM come backstop per il sistema bancario?

Ma non pensiate che sia solo questione europea. Anzi. Questi grafici
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ci mostrano come, udite udite, nel loro ultimo studio addirittura quei rincoglioniti senza redenzione dell’FMI si siano resi conto che a livello globale c’è un vaghissimo problema legato al debito ad alto rendimento, addirittura arrivando a conclusioni da candidatura al Nobel per l’economia come questa: “Più alto il livello del debito ad alto rendimento, più alto il rischio finanziario”. Non so voi ma io sono commosso: di fronte a tanta geniale arguzia, a tanta capacità di leggere con anticipo le dinamiche, non si può che levarsi il cappello. Per chiedere l’elemosina, perché a occhio e croce il rischio è di finire così. Ovviamente, sul medio termine. Forse anche sul lungo, perché non scordiamoci mai l’arma segreta delle Banche centrali: calciare in avanti il barattolo, sperando in un miracolo. O una guerra, ipotesi più probabile. E, soprattutto, ottenibile a tavolino. Nel frattempo, godiamoci il capolavoro degli antesignani di ogni mark-to-salcazzo globale, eccolo:
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a furia di acquistare ETF, infatti, la Bank of Japan oggi è uno dei primi dieci azionisti di oltre il 40% delle aziende giapponesi quotate, per l’esattezza di 1.446 su 3.735, stando a dati Nikkei al 31 marzo. E non basta, perché come vedete, la stessa istituzione monetaria di Tokyo detiene anche il 42% di tutti i bond sovrani del Giappone! In un mondo così, chi ha bisogno di un bravo trader? Basta non andare contrarian alla Banca centrale e il miracolo centralista-statalista dei mercati sempre in rialzo per legge diviene realtà, la “price discovery” è una pratica del passato come la caccia con arco e frecce! Unicorni per tutti, non c’è rischio di farsi male!

E, in effetti, ad oggi nessuno è così stronzo da andare a vedere il bluff di un player che da solo muove mezzo mercato, il problema si porrà quando le promesse di tapering – sia della FED che della BCE – dovranno diventare realtà, ovvero quando Mario Draghi sarà costretto a passare dagli annunci ai fatti e, soprattutto, quando la Banca centrale USA smetterà di poter contare sull’impulso creditizio cinese e comincerà a fare i conti con la realtà. Già, perché al netto di metà delle Borse emergenti in “bear market” e l’altra metà in correzione, la rogna maggiore arriva proprio dalla Cina, quantomeno come segnale. Primo, questo,

ovvero il fatto che in un Paese dove non filtra nemmeno una scoreggia se il governo non vuole, casualmente salta fuori un documento riservato che dice chiaro e tondo come stiano per partire cazzi finanziari della magnitudo di uno tsunami, ovviamente legati all’indebitamento da schema Ponzi che caratterizza il paradiso del capitalismo centralizzato (anche se, avanti di questo passo, il Giappone è destinato a spodestare Pechino senza pietà dal gradino più alto del podio). Bruttissimo segno.
Secondo, il fatto che il governo cinese sarebbe intenzionato ad arrivare addirittura a un bando sulle vendite di bond denominati in dollari con durata inferiore a un anno.
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Il perché è presto detto ed è legato al comparto più strategico ma anche sistemico e delicato dello schema Ponzi cinese, quello immobiliare. Grazie al dollaro relativamente debole e stabile degli scorsi anni, infatti, i costruttori cinesi si sono indebitati come cani malati in dollari, peccato che oggi il rafforzamento della divisa USA determinato dalla politica della FED e il contemporaneo indebolimento dello yuan anche per l’attività di svalutazione della Banca centrale cinese (PBOC) stanno facendo lievitare il carico debitorio di quei soggetti verso livelli insostenibili, ovvero innescando il rischio di una catena di default. Tanto più che, come mostra questo grafico,
Dollar_bond.jpg

i costruttori cinesi hanno venduto qualcosa come oltre 10 miliardi di dollari di notes con maturazione inferiore a un anno. Di fatto, se passerà la draconiana riforma governativa, moltissimi soggetti del comparto vedranno sparire la principale fonte di rifinanziamento e si ritroveranno impossibilitati al roll-over: come impatterà tutto questo sul mercato azionario (6,8 trilioni di market cap), con Shanghai già a -22,8% da inizio anno? Pechino sta “stimolando” un deleverage tale da permetterle di lanciare il suo QE ufficiale, quello alluvionale sulla cui prospettiva stanno sperando tutte le altre Banche centrali? Di fatto, è questo il miracolo che si attende, mentre si calcia avanti il barattolo, in Europa come negli USA come in Giappone? Se è così, auguroni. In compenso, vedrete che supereremo il Trattato di Dublino. Ne sono certo.

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Banche in Germania in crisi ma nessuno ne parla
Alessandra Caparello
Banche in Germania in crisi ma nessuno ne parla | Wall Street Italia
In Germania il ministero delle Finanze ha convinto “i regolatori tedeschi a una certa benevola distrazione mentre le banche assumevano rischi sempre più scriteriati”. Così scrive sul Corriere Economia Federico Fubini che fa riferimento alla ricerca in corso di pubblicazione di un economista tedesco esperto di banche, tale Martin Hellwig, 69 anni, la cui ricerca si intitola “La Germania e la crisi finanziaria 2007-2017.

“Le conclusioni non sono uno scoop solo perché Hellwig non ha disseppellito chissà quali documenti segreti, ha solo messo in ordine informazioni esistenti”, scrive Fubini.
In particolare secondo le stime dell’economista tedesco, riportate dal giornalista italiano, dopo interventi pubblici per oltre 250 miliardi di euro per finanziare dei salvataggi, il costo totale delle crisi bancarie per il contribuente tedesco è di oltre 70 miliardi di euro.

Cifra che, fa notare Hellwig, sarebbe più alta se non fossero arrivati i salvataggi indiretti con denaro di altri governi.
Quali sono gli altri governi? Quelli dei paesi in crisi, Grecia (2010), Irlanda (2010) e Spagna (2012) i cui pacchetti di salvataggio Ue hanno indirettamente aiutato le banche tedesche nel complesso esposte su quei 3 Paesi per centinaia di miliardi di euro.

“Senza l’aiuto pubblico indiretto in queste situazioni, le perdite delle banche – e probabilmente anche l’esigenza di un aiuto diretto da parte dei contribuenti tedeschi – sarebbe stato anche maggiore di quanto sia stato nella realtà”.

Così scrive il CorSera. In Germania le crisi bancarie non sono mancate: basta ricordare oltre a Deutsche Bank anche i dissesti di banche pubbliche regionali WestLB, Hsh Nordbank, SachsenLB, Landesbank Baden-Wuttermberg, Hypo Real Estate o di Commerzbank e Dresdner Bank. Ma perché non è mai stata fatta un’indagine?
La risposta la dà Fubini sulla base dello studio dell’economista tedesco:
“Al governo servivano (e servono) nel Bundesrat i voti dei politici regionali,legati alle banche del loro territorio”.
 

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