La crisi dell'Eurozona è un problema di debito pubblico o privato? Per chi segue il ciclo di Frenkel non ci sono più dubbi
di Vito Lops02 luglio 2013
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La crisi dell'Eurozona è un problema di debito pubblico o privato? Per chi segue il ciclo di Frenkel non ci sono più dubbi - Il Sole 24 ORE
Nel 2013 il Pil dell'Italia (e non solo) è visto ancora in decrescita.
Allo stesso tempo a giugno il
tasso di disoccupazione è balzato al 12,2%, il livello più elevato dal 1977. Fa da contraltare il buon recente dato sulla produzione manifatturiera, sintetizzata dall'indice Pmi che è cresciuto a quota 49,1. Il dato, pur in aumento, resta sotto quota 50, che è considerata la soglia minima di espansione di un Paese.
Insomma, non si può dire, dopo oltre cinque anni, di essersi messi alle spalle la crisi.
Se poi si guarda al tasso di disoccupazione di Spagna (+28%) e Grecia (+27%) con quelli giovanili che superano il 50% il quadro né nel breve né nel medio-lungo sembra incoraggiante.
In questo contesto poco confortante c'è chi comincia a mettere in dubbio le politiche sinora adottate dalle autorità per uscire dalla crisi, volte all'applicazione di misure di austerità, chiedendosi: la crisi dell'Eurozona è un problema di debito pubblico o di debito privato?
Stando alle misure fiscali che vengono chieste ai Paesi, e non importa se questi siano o meno in recessione, pare che i vertici europei credano più alla prima che alla seconda ipotesi.
Ma le contraddizioni restano, e sono profonde dato che
i numeri dimostrano che i 17 Paesi che utilizzano l'euro negli ultimi sei anni di crisi sembrano entrati in una sorta di loop.
Tra gli stessi vertici c'è chi come Vítor Constâncio, vice-presidente della Banca centrale europea, ha recentemente
dichiarato nel corso di un convegno ad Atene: «Penso che, per avere una storia più accurata riguardo le cause della crisi, dobbiamo
guardare non solo alle politiche fiscali: gli squilibri si sono originati per lo più nella crescente spesa del settore privato, finanziata dal settore bancario dei Paesi debitori e creditori. Al contrario dei livelli del debito pubblico, il livello del debito privato è aumentato nei primi sette anni dell'euro del 27%.
L'aumento è stato particolarmente pronunciato in Grecia (217%), Irlanda (101%), Spagna (75,2%), e Portogallo (49%), tutti paesi che sono stati sottoposti a grandissimo stress durante la recente crisi.
La crescita repentina del debito pubblico, d'altra parte, è iniziata solo dopo la crisi finanziaria. Nel corso di quattro anni, i livelli del debito pubblico sono aumentati di cinque volte in Irlanda e di tre in Spagna».
Si tratta di una dichiarazione molto forte. In cui il vice-presidente della Bce ribalta le cause della crisi che hanno finora guidato gran parte delle scelte istituzionali volte a risolverla.
Il debito pubblico dei Paesi della periferia - preso sotto attacco fino allo scorso luglio dai mercati finanziari e in ogni caso che oggi paga rendimenti decisamenti più alti rispetto a quelli dell'Europa del Nord -
non sarebbe stato la causa della crisi dell'Eurozona.
«Infatti, in certi Paesi il debito pubblico è decresciuto, e in qualcuno è diminuito sostanzialmente. Per esempio, tra il 1999 e il 2007, il debito pubblico spagnolo è passato dal 62,4% del Pil al 36,3% del Pil. In Irlanda, nello stesso periodo, è diminuito dal 47% al 25% del Pil. Per quanto a livelli relativamente alti, il debito pubblico è diminuito anche in Italia (dal 113% al 103,3% del Pil) ed è aumentato solo di poco in Grecia. Comunque, negli ultimi due casi, il livello era già in effetti molto superiore al 60% fissato dal Patto di stabilità e crescita.
Viceversa l'aumento del debito pubblico sarebbe una conseguenza dell'esplosione di una
bolla del debito privato, gonfiata dai crediti che le banche del Nord Europa hanno fatto alle banche del Sud e, di conseguenza, a famiglie e imprese della "periferia", forti di un grande surplus favorito anche dagli squilibri commerciali tra i Paesi dell'area euro, a sua volta accentuati da
differenti dinamiche di inflazione.
Continua Constâncio: «Da dove venivano i finanziamenti che hanno fatto esplodere il debito privato? Un aspetto particolare del processo di integrazione finanziaria europea dopo l'introduzione dell'euro è stato un deciso incremento nelle attività bancarie tra paesi.
L'esposizione delle banche dei Paesi del centro verso i paesi della periferia è più che quintuplicata tra l'introduzione dell'euro e l'inizio della crisi finanziaria».
A conti fatti, quindi,
Constâncio sembra dar indirettamente ragione all'economista argentino Roberto Frenkel che ha analizzato quanto accaduto in Argentina fino al 2001, quando in preda a una forte crisi fu costretta a sganciarsi dall'unione valutaria con il dollaro.
Questo economista - la cui teoria è stata portata in Italia dal lavoro dell'economista Alberto Bagnai - spiega in sette passi quello che accade ai Paesi più deboli quando àncorano la loro valuta a una valuta più forte, in concomitanza di uno scenario di liberalizzazione del mercato dei capitali e di mancanza di compensazione degli squilibri. Pertanto, la grande domanda del momento, che divide europeisti ed euroscettici è: nell'area euro sta accadendo la stessa cosa?
Vediamo quali sono le sette fasi del
ciclo di Frenkel
stabilito l'aspetto finanziario dell'Euro che è entrato in crisi per ilo ciclo studiato da Frenkel
ora passiamo alla questione democratica che calpesta ogni costituzione ... in particolare la Nostra.
Per entrare in Europa abbiamo VIOLATO LA COSTITUZIONE. Ecco perché la Corte Costituzionale tace
Per entrare in Europa abbiamo VIOLATO LA COSTITUZIONE. Ecco perché la Corte Costituzionale tace | Byoblu.com

di
Paolo Becchi
In alcuni recenti interventi (
ndr: “
Uscire dall’Europa si può” e “
Euro, lasciate ogni speranza o voi che entrate“), mi sono chiesto se uscire dall’Euro e dall’Europa fosse davvero impossibile. Uscire è possibile, ne ho concluso. Ma, rispondendo a quest’ultima domanda, un’altra ne è immediatamente seguita: ed entrarne?
Come siamo entrati in Europa e, soprattutto, era possibile entrarvi nel modo in cui lo abbiamo fatto?
L’adattamento dell’ordinamento italiano al diritto dell’Unione europea è avvenuto senza mai modificare formalmente la nostra Costituzione. Diversamente, le
sempre più penetranti cessioni di sovranità sono avvenute attraverso una lettura “forzata” dell’art. 11 della Costituzione, avallata dalla Corte Costituzionale. L’
art. 11 Cost., in realtà, si limita a dichiarare che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». L’adattamento ai trattati avviene, in concreto, attraverso l’ “
ordine di esecuzione“, il quale solitamente è contenuto nella
legge di autorizzazione alla ratifica: i trattati, pertanto, entrano nell’ordinamento italiano assumendo il rango della fonte che ha dato loro esecuzione ossia la
legge ordinaria. Così è avvenuto con il T
rattato di Lisbona, ultimo passo, nel processo di integrazione europea, al quale è stata data esecuzione con legge ordinaria (L. 2 agosto 2008, n. 130). Nel nostro Paese, pertanto, i trattati internazionali – ivi compresi quelli relativi all’Unione Europea – dovrebbero avere semplice rango di legge e, come tali, non potrebbero mai essere in contrasto con la Costituzione. In altri Stati europei le cose stanno diversamente.
In Francia, ad esempio, è previsto espressamente che «les traités ou accords régulièrement ratifiés ou approuvés ont, dès leur publication, une autorité supérieure à celle des lois» (art. 55). In Germania, invece, la ratifica del Trattato di Lisbona è avvenuta attraverso l’adozione di due leggi costituzionali, le quali sono state, peraltro, sottoposte al controllo della Corte Costituzionale tedesca in quanto ritenute in contrasto con la Costituzione. L’art. 23 della Costituzione tedesca prevede esplicitamente la partecipazione della Repubblica federale tedesca «allo sviluppo dell´Unione europea», ferma la presenza di una serie di “controlimiti” all’applicazione del diritto comunitario, il cui fondamento è, in particolare, il
principio democratico, il quale deve sempre essere rispettato.
Rispetto ai meccanismi previsti da Paesi quali Francia e Germania, l’Italia aveva, evidentemente, due problemi fondamentali: da un lato, l’assenza di una espressa previsione costituzionale avente ad oggetto i rapporti con l’Unione europea; dall’altro, la natura di legge ordinaria con cui si è sempre proceduto a dare applicazione ed esecuzione ai trattati internazionali. Che l’art. 11 Cost.
non fosse sufficiente a garantire una “copertura” al diritto comunitario, lo stesso legislatore ne è stato consapevole, tanto da modificare, con una legge costituzionale (L. n. 3/2001), l’
art. 117 Cost., dedicato ai rapporti tra Stato e Regioni, disponendo che «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Si tratta, in realtà, di
una disposizione che non risolve e non garantisce un fondamento costituzionale ai trattati, tanto che, ancora oggi, la Corte Costituzionale continua ad argomentare
il principio del “primato” del diritto comunitario sul diritto interno sulla base dell’art. 11 Cost. (cfr. Corte Cost. n. 248/2007).
Nei rapporti con l’Unione Europea, è l’art. 11 Cost. che esclude che la norma comunitaria possa limitarsi a valere quale “legge ordinaria” nel nostro ordinamento. A partire, infatti, dalla
sentenza Granital del 1984, la teoria “dualistica” ha consentito di sostenere che
le norme comunitarie sono estranee al sistema italiano delle fonti ed assumono forza giuridica ad esse attribuita nell’ordinamento di origine (l’ordinamento italiano e quello europeo sarebbero «autonomi e distinti, ancorchè coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato»: le norme comunitarie restano pertanto tali anche quando fanno ingresso nel nostro Paese, e prevalgono sulle norme interne sulla base del principio di “competenza”).
Nella sua interpretazione ormai consolidata, la Corte Costituzionale continua a sostenere che «con l’adesione ai Trattati comunitari, l’Italia è entrata a far parte di un “ordinamento” più ampio, di natura sopranazionale,
cedendo parte della sua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi».
Ma quale parte della sua sovranità? La Costituzione italiana si riferisce alla “sovranità” sia all’art. 1 – stabilendo che essa
appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione – che all’art. 11, il quale, come visto, consente le limitazioni di sovranità necessarie a garantire il funzionamento di un ordinamento internazionale che assicuri
pace e giustizia nel mondo. Appare evidente come l’art. 1 e l’art. 11 si riferiscano, in realtà, ai due differenti aspetti propri della “sovranità”, nel suo concetto classico: l’art. 1 alla
sovranità interna, ossia al rapporto tra lo Stato e quanti risiedono sul proprio territorio; l’art. 11 alla
sovranità esterna, ossia ai rapporti dello Stato con gli altri Stati o organizzazioni internazionali. Varrebbe peraltro la pena di ricordare come, in sede di Commissione per la Costituente, si scelse di omettere, nella formulazione dell’art. 11, ogni esplicito riferimento all’unità europea, come invece aveva chiesto l’onorevole Lussu.
Le limitazioni di sovranità dovevano riferirsi unicamente allo Stato nei suoi rapporti internazionali (ONU). L’art. 11 Cost., pertanto, non può essere interpretato nel senso voluto dalla Corte Costituzionale, ossia come “copertura” di rango costituzionale alle sempre più profonde cessioni di aspetti tipici della sovranità interna in favore dell’Unione Europea.
L’art. 11 non limita la sovranità del popolo, ma solo quella dello Stato in rapporto agli altri Stati.
È questa linea di separazione fondamentale tra sovranità interna ed esterna che deve fondare il rapporto con l’Unione Europea, e non certo la teoria dei “controlimiti” fatta propria dalla Corte Costituzionale, secondo la quale le norme comunitarie incontrerebbero, nella loro applicazione interna, il «solo limite dell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione». Limiti all’ingresso delle norme internazionali e comunitarie sarebbero pertanto costituiti unicamente dai «valori fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano e dai diritti inviolabili dell’uomo». Si tratta di
una teoria debole, che non tiene conto del fatto che la sovranità interna non riguarda soltanto i “princìpi” dell’ordinamento, ma le potestà fondamentali che caratterizzano lo Stato nei suoi rapporti con i suoi cittadini e con il territorio: legislazione, amministrazione della giustizia, moneta, politiche economiche e sociali.
L’art. 11 Cost. non consentiva la rinunzia, la cessione di queste “porzioni” di sovranità – realizzate peraltro attraverso semplici leggi ordinarie al contempo sottratte ad ogni possibilità di controllo di costituzionalità.
In Germania, il
Meccanismo europeo di stabilità (MES) verrà vagliato dalla Corte Costituzionale, che dovrà giudicarne la compatibilità con la Costituzione.
In Italia, è stato invece immediatamente ratificato ed eseguito, senza nessuna discussione: non ci sarà su di essi nessun controllo di costituzionalità. La teoria “dualistica” è stato un artificio giuridico, un grande “racconto” che non aveva alcuna base nella nostra Costituzione e che è servito a giustificare e legittimare l’automatico adattamento dell’Italia alle sempre più invasive disposizioni dell’Unione Europea. Uscire dall’Europa è possibile. Entrarne, nel modo in cui è avvenuto, è stato invece
costituzionalmente illegittimo.
LEGGI ANCHE: ”Dov’è la Corte Costituzionale? Perché tace?” di E. Galli Della Loggia