Vi riporto l'articolo odierno del critico/opinionista Aldo Grasso del Corriere della Sera, un saluto ed un abbraccio
Fo64
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Ipocrisia in diretta
di Aldo Grasso
Almeno quando muore un grande campione non potremmo fare un po' di silenzio, misurare le parole, evitare di dare il peggio di noi? Almeno per rispetto, almeno per riconoscenza. D'un tratto ci troviamo di fronte a un mistero così inestricabile come la morte, forse un congedo deliberato, e non sappiamo fare di meglio che andare in tv a dire con pervicacia la nostra, a piazzare il nostro io ubriaco di protagonismo davanti al suo. Speriamo che dall'ultima Cima Coppi, Marco Pantani abbia un po' d'indulgenza nei nostri confronti, perdoni la nostra presunzione, guardi in surplace il nostro vano cavillare. No, Pantani meritava qualcosa di più di quanto abbiamo saputo riservargli, del solito affollato teatrino.
È stato tutto un trionfo di «io lo conoscevo bene», di analisi sulla sua fine, di retorica a buon mercato, di riferimenti al «male oscuro», di pietà ad uso delle telecamere. Il culmine dell’assurdo lo si è raggiunto alla Domenica sportiva quando un conduttore, lì presente nelle improprie vesti di opinionista, ha puntato il dito sui genitori in vacanza in Grecia, rei di non averlo accudito.
Che ne sappiamo noi dell’animo di un sofferente? Che ne sappiamo di cosa gli frulla in testa quando decide di staccare la spina? Che ne sappiamo dei suoi rapporti più stretti? Adesso poi non c’è trasmissione che non abbia il suo psicoanalista di pronto impiego cui chiedere le «vere» ragioni di un dramma. E quello pronto, in un secondo, a spiegare i meandri della psiche, le colpe della società, le terapie non messe in atto: ah, ci fosse stato lui vicino a Pantani! La verità è che tanta retorica, tanto spreco di immagini scosse dal vento arido del dolorismo, tante spiegazioni dimostrano ancora una volta che attingiamo a piene mani all’ipocrisia per nasconderci la realtà.
Domenica abbiamo sentito parecchi commentatori che parlavano apertamente di droga, di brutte compagnie, di perdizione. Eppure erano gli stessi che raccontando le corse del campione sono sempre stati attenti a non infrangere il muro di omertà che i mondi chiusi, come quello dello sport, spesso erigono.
Adesso tutti a dire che il doping è un problema importante, che lo sport rischia l’estinzione se non si fa piazza pulita. Al più presto. Eppure il doping nel ciclismo, a seguire le cronache in tv, sembra non sia mai esistito; a distanza di anni si celebrano ancora record ottenuti a base di emotrasfusioni come se fossero grandi conquiste dell’uomo! Lo sport non è più sport ma show business: l’attenzione degli sponsor e dei media va sollecitata continuamente, abbattendo ogni anno i limiti imposti dal fisico umano, spostando in avanti la soglia di resistenza al dolore. Questa è la suprema impostura e il ricordo di certe scene in cui la polizia francese sequestra al Tour auto piene di infernali beveroni dell’invincibilità è ancora vivo.
La conoscenza di sé si paga sempre troppo cara. Forse Pantani ha visto quello che non doveva vedere, quello che non siamo capaci di vedere, e ha attraversato l’ultimo vecchio ponte. Vengono in mente solo i versi che Fabrizio De André scrisse per il suo amico Luigi Tenco: «Ascolta la sua voce che ormai canta nel vento / Dio di misericordia vedrai, sarai contento».
17 febbraio 2004 - Corriere.it