Lo sapevate che... (1 Viewer)

Claire

ἰοίην
La prima donna laureata nel mondo fu un'Italiana?:eek:
Anche la seconda e la terza...:eek:

Ma è vero?:eek:

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Laureate di tutto il mondo unitevi: c’è la prima di voi da celebrare. Una perfetta sconosciuta che meriterebbe una fama ben maggiore. Elena Lucrezia Corner Piscopia (o Cornaro, secondo una versione più comune, ma meno corretta) si laurea in filosofia a Padova il 25 giugno 1678. Avrebbe dovuto ottenere l’alloro in teologia, ma il vescovo si oppone: una donna non potrebbe mai insegnare la dottrina di Cristo, lo ha scritto San Paolo. E quindi, dopo lunghe trattative, si ripiega sulla più neutra filosofia.

Elena Lucrezia nasce a Venezia nel 1646 da illustre famiglia patrizia. Ma suo padre, Giovanni Battista, che pur detiene la carica di Procuratore di San Marco, la seconda per importanza dopo quella di doge, l’ha combinata grossa: ha sposato una popolana originaria del Bresciano :up::up::up:(al tempo territorio della Serenissima), se non addirittura prostituta. I figli generati dalla coppia non potranno essere iscritti nel Libro d’oro, entrare in Maggior consiglio e quindi far parte del patriziato. Il padre – ricchissimo – comprerà la nobiltà per i maschi e imporrà alla figlia femmina – coltissima, ma assolutamente disinteressata al riconoscimento accademico – di laurearsi per dare lustro alla famiglia. Giovan Battista, accorto politico, sa che il record renderà celebre il nome dei Corner.

Elena vive nel palazzo di famiglia che in seguito passerà ai Loredan e oggi è uno dei due edifici sede del Municipio di Venezia. La bambina è un piccolo genio, la sua capacità di apprendere è fuori dal comune. A 22 anni conosce greco, latino, francese, inglese e spagnolo, ed è in grado di dissertare di matematica o filosofia passando indifferentemente da una lingua all’altra. La giovane donna ama davvero la cultura e non le interessano affatto le ambizioni paterne, ma non è uso, in quei tempi, contraddire il volere dei genitori; nel frattempo diventa oblata benedettina, in pratica rispetta i voti delle monache, pur continuando a vivere in famiglia. Elena si massacra tra studio e preghiera; molto probabilmente per questo il suo fisico non regge e si ammala, già prima di laurearsi. Impegnata negli studi teosofici, decide di imparare pure l’ebraico e prende lezioni dal rabbino di Venezia, Shemuel Aboaf. La fama della giovane si sparge fuori dai confini della Serenissima e dotti di tutta Europa accorrono a Venezia per sentirla.

Si iscrive allo Studio di Padova (l’università) e chiede di essere laureata in teologia. Compila la domanda per l'ammissione alla laurea e la presenta ai riformatori dello Studio di Padova – in pratica i rettori – Angelo Correr, Battista Nani e Leonardo Pesaro (i riformatori sono sempre tre patrizi veneziani). La richiesta viene da una gentildonna che ha studiato con celebri e stimati docenti dello Studio e quindi la accolgono senza difficoltà; anzi danno ordine che i docenti si apprestino alla discussione accademica. Viene addirittura stilato il verbale di conferimento della laurea in teologia.

Sembra tutto pronto, il rivoluzionario conferimento del titolo di dottore in teologia a una donna pare questione di ore. Ma si sono fatti i conti senza l’oste e in questo caso l’oste si chiama Gregorio Barbarigo, vescovo di Padova e cardinale, destinato a diventare santo (l’ha canonizzato papa Giovanni XXIII). Senza il suo consenso, nessuno – né uomo né tantomeno donna – si può laureare in teologia perché, in quanto vescovo della città, è anche cancelliere dell’ateneo. La chiesa post tridentina, per evitare che si sconfinasse di nuovo verso il protestantesimo, è rigorosissima nell'insegnamento della dottrina cattolica: i maestri devono essere solo persone capaci e ben preparate. Poiché la Chiesa è persuasa dell'inferiorità della donna rispetto all’uomo, la ritiene incapace di ragionamenti difficili, tanto più sulle verità della fede, le viene quindi vietato ogni insegnamento di grado superiore, secondo quanto scritto da San Paolo nella Prima epistola a Timoteo: «Non permetto alla donna d’insegnare, né d’usare autorità sul marito, ma stia in silenzio».

Inizia così un lunghissimo braccio di ferro che deve salvare la capra dell’onore dello Studio di Padova (che aveva detto sì alla laurea) e della famiglia Corner e i cavoli della volontà cardinalizia. Alla fine si arriva a un faticoso compromesso: niente laurea in teologia, ma in filosofia. Elena, che ora ha 32 anni, va finalmente a Padova soltanto tre giorni prima della cerimonia. L’avvenimento è epocale e l’aula del Collegio, dove normalmente avvengono le lauree, è gremita all’inverosimile, tanto che si decide di spostare la dissertazione nella vicina cattedrale. La folla che si è radunata è immensa, fonti contemporanee parlano di 30 mila persone.

Elena Lucrezia Corner Piscopia diventa una gloria per la sua famiglia, per l’università di Padova, per la Serenissima repubblica di Venezia. Sostiene pubbliche discussioni, diviene membro di accademie, tutti la vogliono vedere. Addirittura Luigi XIV fa fermare a Padova sulla via di Roma il cardinale César d'Estrées perché verifichi se quanto si dice della donna corrisponda a verità. Questi, accompagnato da due dottori della Sorbona, conversa con lei, le fa commentare testi in greco ed ebraico, parla in francese, spagnolo e latino; alla fine Elena dà anche un saggio musicale. Interviene pure su temi politici, per esempio lodando la rottura dell'assedio turco di Vienna, nel settembre 1683. In ogni caso non insegnerà mai: non è uso che un patrizio veneto lavori (a meno che non sia povero, ma non è proprio il caso dei Corner) e lei non desidera farlo, visto che si è laureata solo per accontentare il padre.

La durissima vita di studio e penitenze ha però minato la sua salute. È lo stesso padre a sottolinearlo, in alcune lettere che ci sono giunte. Ben presto le condizioni diventano critiche e Elena Lucrezia muore trentottenne, il 26 luglio 1684. Il padre Giovanni Battista vuole che la memoria della figlia (e della famiglia) sia celebrata nei secoli e chiede di erigere un monumento sepolcrale. Ma i benedettini di Santa Giustina, dove l’oblata viene sepolta a terra, secondo il suo desiderio, lo impediscono e allora il procuratore si rivolge ai padri conventuali del Santo che accordano il permesso di costruire un cenotafio in onore della defunta. La volontà del procuratore però non solo non sfida i secoli, ma neanche i decenni. Passeranno soltanto 38 anni e il cenotafio sarà demolito: il figlio di Giovanni Battista, nonché ultimo rampollo dei Corner Piscopia, cederà alle pressioni dei frati che vogliono eliminare il monumento perché limita la vista dell’altar maggiore; la cosa cadrà a fagiolo perché, sperperato il patrimonio familiare, il patrizio ha bisogno di soldi e in tal modo può vendersi le statue della sorella.

Il monumento con le statue della fede, carità purezza e morte, di Cronos, Aristotele, Platone Democrito e Seneca viene smantellato nel 1727. Rimane solo quella di Elena Lucrezia che sarà recuperata sessant’anni più tardi da un’altra illustre donna veneziana, Caterina Dolfin Tron, che la regalerà all’ateneo patavino. La statua viene collocata ai piedi dello scalone del Bo’, dove si trova tuttora, riparata da una teca di plexiglas tutta scagazzata dai piccioni.

Quasi per una specie di contrappasso Elena Lucrezia, tanto famosa e celebrata in vita, diviene negletta dopo la morte. In pochi anni la si dimentica quasi del tutto. La sua tomba viene identificata nel 1895 dalla badessa benedettina di Roma, lady Mathilde Pynsent. La salma è completamente polverizzata, ma si riconosce l’abito benedettino. La Pynsent l’anno successivo scrive una biografia che pubblica anonima. Forse è questo libro che ispira una vetrata neogotica del Vassar College, a Poughkeepsie, NY, dove Elena è raffigurata mentre discute con i suoi esaminatori.

Benedetto Croce ne dà indirettamente un giudizio sprezzante: «Scarsissimo o nullo è il valore di tutta cotesta letteratura ascetica e rimeria spirituale», mentre soltanto nel 1969, in vista del tricentenario, l’Università di Padova decide di muoversi per appurare se il primato – a quel tempo presunto – di Elena Lucrezia Corner Piscopia sia effettivo o meno. La verifica risulta positiva.
L'Italia non vanta solo la prima laureata della storia, ma tutti e tre i gradini del podio. La seconda donna del mondo a laurearsi è Laura Bassi Verati, nel 1732, a Bologna; si laurea in storia naturale e medicina e diventa la prima donna docente universitaria. La terza è una rodigina, Cristina Roccati che il 5 maggio 1751 si laurea in filosofia e fisica sempre all'Università di Bologna. Visto che ci siamo ricordiamo anche la quarta, italiana pure lei: Maria Pellegrina Amoretti, laureata a Pavia in giurisprudenza, il 25 giugno 1777 (la quinta è una spagnola).


Elena Lucrezia Corner Piscopia dovrebbe essere una gloria nazionale, la prima donna laureata del mondo dovrebbe essere nel Pantheon degli italiani illustri, motivo di vanto per tutta la nazione. Dovrebbe. E invece, oltre alla già ricordata e poco visibile statua a Padova, c’è solo una targa infissa nel Municipio di Venezia. Strade? Tre: una nella periferia di Padova, le altre Barzanò e a Cesa (centri non proprio di prima grandezza, in provincia di Lecco e Salerno). Scuole? Una, elementare, a Cittadella (Pd). Aule universitarie? Zero. Francobolli? Zero. L'Italia non ha spazio per ricordare la prima laureata della storia.
 

Ignatius

sfumature di grigio
Bel post: in particolare, io sono tra quelli che auspicano il recupero dell'aggettivo "negletto/a", che fra l'altro è un "falso falso e quindi vero amico" (neglected si usa, cribbio!).
 

Claire

ἰοίην
Un'altra donna ingiustamente negletta (chissà perché e figure femminili di rilievo vengono omesse dai libri di testo delle scuole...)

“Io stimo più il trovar un vero benché di cosa leggiera che ’l disputar lungamente delle massime questioni senza conseguir verità nissuna”». Milla Baldo Ceolin doveva sentirsi in perfetta consonanza con queste parole di Galileo Galilei, tanto da utilizzarle come esordio della sua affascinante rassegna sulla storia della scoperta di nuove particelle elementari attraverso la tecnica delle emulsioni nucleari (1).
Nel corso degli anni Cinquanta Milla si era lanciata in questa avventura scientifica guidata nella scelta delle questioni su cui indagare da un criterio che amava spesso sottolineare: «Era una fisica molto divertente». Uno spirito di leggerezza, unito a una straordinaria determinazione, ha contribuito allo sviluppo del suo stile di ricerca modellato dalla curiosità per gli esperimenti più insoliti, più che indirizzato all’esplorazione sistematica, pur necessaria per la costruzione di un solido quadro d’insieme.
Così lei stessa ha raccontato alcuni aspetti della sua infanzia e prima giovinezza (2): «Sono nata a Legnago, paese sull’Adige il 12 agosto del 1924. Mia nonna, la mamma di mia madre, era stata una femminista. Aveva mandato a scuola tutte le figlie, che indossavano i pantaloni, fumavano, erano abituate ad essere libere, e in un paese di montagna erano considerate un po’ originali. Quando sono nata io, per molto tempo sono stata l’unica femmina in una famiglia piena di maschi – anche da parte di mio padre – e così sono cresciuta come i maschi e dovevo essere come i miei fratelli. Non c’era differenza. Avevamo i calzettoni tutti uguali, le maglie a righe, si faceva tutto insieme, facevamo a botte e dovevo difendermi. Non è mai stato messo in discussione che sarei andata all’università, anche se a Legnago, dove ho fatto il liceo, non era una scelta diffusa... A casa nessuno disse nulla: Io voglio fare fisica...Va bene, fai quello che vuoi».
All’Università di Padova Milla seguì le lezioni di fisica generale di Antonio Rostagni, direttore dell’Istituto, succeduto a Bruno Rossi dopo la cacciata di quest’ultimo in seguito alle leggi antisemite del 1938. La fisica teorica era insegnata da Nicolò Dallaporta, ma furono le lezioni di fisica superiore di Giampietro Puppi ad affascinarla profondamente. Massimilla, si laureò nel gennaio 1952, in un’epoca in cui l’Istituto di Fisica di Padova stava faticosamente partecipando al processo di ricostruzione e alla riconquista per l’Italia di un ruolo internazionale. Proprio l’anno precedente i centri di ricerca di Padova, Roma, Torino e Milano avevano costituito l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), ma erano ancora gli anni del sacrificio: «Nel 1951, quando mi sono laureata, non c’erano posti; così veniva dato il posto a uno e poi i soldi venivano divisi tra quattro. Rostagni decideva quanto e a chi. Mi chiama, mi guarda e dice: “Lei è vestita abbastanza bene...”. Poi viene [Michelangelo] Merlin: “Se lei non si offende le darei diecimila lire al mese così si paga il biglietto del treno”».
A quell’epoca i raggi cosmici rappresentavano ancora un prezioso strumento per l’indagine dell’universo subnucleare e avevano mantenuto viva in Italia una tradizione di ricerca durante gli anni difficili della guerra e del primo dopoguerra, consentendo anche di allevare le nuove generazioni. Sono gli anni dei lanci delle emulsioni nucleari con palloni sonda, culminati nel 1954 con il lancio del G-Stack, un gigantesco pacco di emulsioni fotografiche frutto di una collaborazione tra vari laboratori europei. Con l’avanzare degli anni Cinquanta i risultati ottenuti attraverso lo studio dei raggi cosmici iniziarono a perdere terreno rispetto alle possibilità offerte dai nuovi potenti acceleratori di particelle e tuttavia continuarono a dare risultati fondamentali nello studio delle cosiddette “particelle strane” così chiamate perché sembravano essere prodotte con modalità tipiche dell’interazione nucleare forte, ma decadevano con vite medie molto lunghe, tipiche dell’interazione debole. Alla conferenza internazionale tenuta a Pisa nel 1955 i fisici dei raggi cosmici presentarono i risultati ottenuti con il G-Stack celebrando il loro trionfo finale. Alla stessa conferenza i fisici che lavoravano al Bevatrone di Berkeley arrivarono con i loro primi risultati ottenuti esponendo pacchi di emulsioni ai fasci del loro acceleratore. Le tracce lasciate dalle particelle prodotte artificialmente potevano essere analizzate conoscendo una serie di parametri fisici che nel caso dei raggi cosmici risultavano del tutto imprevedibili a priori. La preparazione dei fasci e la possibilità di ripetere gli esperimenti nelle condizioni desiderate fornirono la prova definitiva che quelle che apparivano essere particelle di natura diversa non erano altro che i differenti modi di decadimento di una unica particella, proprio come aveva sostenuto Bruno Rossi nel corso dello storico convegno di Bagnère de Bigorre nel 1953. Milla Baldo Ceolin ne era rimasta molto impressionata: «Rossi torreggiava su tutti gli altri». Quest’ultimo aveva appena pubblicato High-Energy Particles, che in quegli anni rappresentava una bibbia per chi si occupava di raggi cosmici e particelle elementari: «Studiavo il Rossi, che mi ha fatto compagnia come libro di studio... Poi avevo anche l’aiuto di Carlo, discutevamo di fisica insieme... Lui la fisica la sapeva e aveva molto gusto nell’impararla e così avevo un modo di trovare qualcuno con cui discutere di queste cose» (3).
Sono anni in cui la fisica si sviluppa sempre più attraverso collaborazioni internazionali che preparano la via ai grandi gruppi che a partire dalla fine degli anni Cinquanta caratterizzeranno le ricerche in grandi laboratori come il CERN di Ginevra, il Fermilab e altri centri di ricerca negli Stati Uniti. Milla Baldo Ceolin cresce scientificamente in questo periodo di passaggio, anche attraverso lo stimolante scambio con personaggi come il fisico americano William F. “Jack” Fry, «pieno di fantasia», con cui progettò una serie di esperimenti per lo studio dei mesoni K carichi e neutri, che rappresentarono un contributo fondamentale per la comprensione della natura quantistica di queste particelle e dei meccanismi con cui decadono.
La sua esperienza si estese allo studio con nuovi rivelatori come le camere a bolle presso gli acceleratori presenti nei grandi laboratori internazionali come Berkeley, il CERN e l’ITEP di Mosca. Con una strategia molto mirata, nel 1958 la Baldo Ceolin espose delle emulsioni al fascio del Bevatrone di Berkeley scoprendo insieme con Derek Prowse l’iperone anti-Lambda, il primo rappresentante della famiglia delle antiparticelle strane (4). In quegli anni l’ordine emerso dal caos nei primi anni Cinquanta stava organizzandosi in solide strutture che avrebbero contribuito al processo di costruzione di una teoria unificata delle particelle elementari e delle loro interazioni.
Nonostante la stima di cui godeva in Istituto per la sua serietà e per l’ottimo livello del suo lavoro di ricerca, Milla si scontrava con i pregiudizi dell’epoca, in un mondo ancora fortemente dominato da personalità maschili: «Una volta, 5 o 6 anni dopo la laurea, Rostagni mi chiama e mi dice: “Sa, c’è un posto di assistente e toccherebbe a lei, ma lei è sposata, ha una figlia, è contenta... Lo diamo a Luciano Guerriero...”. Anche Guerriero era sposato e aveva due figli! Dallaporta mi ha ripetuto lo stesso discorso; non ho avuto il posto di assistente. Ma non è che abbia sofferto molto, forse perché fin da ragazza non avevo lo spirito competitivo. Io mi divertivo a fare ciò che mi piaceva, mi sentivo libera, ma mi sentivo sempre la seconda in famiglia; oramai ero sposata... poi è vero, avevo anche una figlia, Maria. Poco dopo tutti quelli più o meno miei coetanei vanno a fare la libera docenza... Rostagni mi chiama e dice: nella commissione di teorica c’è Dallaporta, nella comissione di Fisica generale ci sono io, penso che lei possa andare a fare Fisica superiore, tanto lei se la cava; e quindi io sono andata a fare Fisica superiore. La commissione era fatta da Persico, Occhialini e Lovera. Io stavo facendo i K e avevo avuto poco prima un po’ di battibecco con Occhialini, che era venuto una volta a Padova e arrivato davanti al mio studio disse: “Cerco Rostagni”. Io gli risposi: “Guardi, non c’e”. “E Dallaporta?”. “Non c’è”. “E Fry?” – Fry era il nostro coordinatore – “Non c’è”. E mi guarda... Finché alla fine io gli dico:“Forse lei voleva sapere qualcosa sui K?”. Comincia a farmi domande e io gli rispondo... Abbiamo cominciato alle nove di mattina e il suo treno per Milano partiva alle sei e mezzo della sera... “Mi accompagni...”. Lui aveva un rotolo di carta sotto il braccio, io ero in camice; siamo usciti... Continuava a dirmi: “Ma allora... perché ... perché... perché?”. Finché, prima di salire sul treno, ha preso nota del mio punto di vista su questo rotolo di carta. Poi mi arriva una telefonata da Milano... È Occhialini che dice: “Ieri aveva ragione lei...”. Ringrazio e dico: “Grazie Connie”, chiamandolo con il nome della moglie, Connie Dilworth! Così quando alla libera docenza mi sono trovata Occhialini mi sono detta: “Oddio, l’ho chiamato Connie, gli ho dato torto su tutto... mi odierà...”. Alla fine lo incontro in corridoio e gli chiedo “Come è andata?” E lui mi dice: “Ma lei perché non fa il concorso a cattedra?” Torno a Padova pensando: “Effettivamente potrei anche farlo...”. Scrivo a Rostagni e a Dallaporta che erano in vacanza, ma nessuno ha risposto. Dallaporta dopo mi disse: “Come si permette... ci sono anche gli altri...”. Mentre Rostagni disse: “Va bene, mi informerò”. Poi l’ho fatto, c’era Dallaporta in commissione, ma l’ho perso. C’erano tre concorsi quell’anno, il primo è andato male, poi c’era un altro concorso in cui c’erano in commissione Amaldi e Deaglio e l’abbiamo vinto io e la Garelli di Torino. Ma Rostagni, visto che non ero passata nel primo concorso, era così convinto che intanto aveva fatto bandire un concorso anche a Padova! Lui si batteva per una donna…tutta Padova sapeva che era stato bandito un concorso per me, ma io lo avevo già vinto, così il posto lo ebbe Marcello Cresti».
Nel 1963 Milla Baldo Ceolin divenne quindi professore ordinario, la prima donna in assoluto a ricoprire una cattedra nell’Università di Padova. Dal 1965 al 1968 diresse la sezione di Padova dell’INFN e negli anni Settanta diresse l’Istituto di fisica succedendo ad Antonio Rostagni, di cui era sempre stata valida collaboratrice negli anni della ricostruzione e nel successivo processo di sviluppo ed espansione della fisica padovana.
Fin dalla fine degli anni Cinquanta la Baldo Ceolin fu catturata da un interesse crescente per i neutrini. Lo sviluppo di nuove tecniche di rivelazione iniziava a rendere possibile una fisica del neutrino su larga scala, sia per le indagini sull’uni-verso subnucleare, sia per le indagini astrofisiche. Milla fu la prima a proporre al CERN un esperimento sulle oscillazioni dei neutrini. Questo tipo di processo l’aveva affascinata fin quando si occupava della fisica dei K. Il mutamento di identità dei neutrini da una specie all’altra è un fenomeno previsto fin dagli anni Cinquanta dal fisico Bruno Pontecorvo, che Milla ebbe modo di frequentare insieme a suo marito Carlo Ceolin. Una serie di esperimenti ha stabilito definitivamente alla fine degli anni Novanta la realtà di questo fenomeno il quale implica che il neutrino abbia una massa, seppure molto piccola. Questo aspetto non è previsto dalla teoria del Modello standard e quindi il neutrino è ancora oggi una particella chiave per l’esplorazione di una nuova fisica e per la comprensione delle insolite proprietà di oggetti celesti come le pulsar e i buchi neri. A partire dal 1988 Milla ha organizzato una serie di workshop dal titolo Neutrino Telescopes, un altro modo di guardare il cielo. Con la complicità del fascino inesauribile della città di Venezia, Milla ha saputo imprimere la sua eleganza e il suo stile su questi incontri indimenticabili, che hanno avuto un enorme ruolo nel dibattito scientifico internazionale attirando nella cornice degli storici palazzi veneziani gli esperti mondiali della fisica di un settore affascinante che oggi appare tra i più promettenti per l’esplorazione di aspetti ancora profondamente misteriosi del nostro universo.

NOTE
(1) BALDO CEOLIN M., «The discret charm of the nuclear emulsion era», Annual Review of Nuclear and Particle Science, 52, 2002, pp. 1-21.
(2) Il 10 novembre 2006, nel corso di uno dei miei incontri con Milla Baldo Ceolin, che avvenivano regolarmente durante i suoi soggiorni romani in occasione delle riunioni a cui partecipava come membro dell’Accademia dei Lincei, ho registrato alcuni suoi ricordi. Da questo racconto autobiografico, della durata record di ben tre ore, ho estratto i frammenti qui riportati.
(3) Suo marito, Carlo Ceolin con cui si era fidanzata verso la fine degli anni Quaranta, si era indirizzato verso la fisica teorica.
(4) Questo lavoro è considerato un contributo chiave nella storia della fisica delle particelle, si veda per esempio: web.ihep.su/dbserv/compas/contents.html.
Luisa Bonolis svolge ricerche sulla storia della fisica italiana del Novecento.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero Sapere di Febbraio 2012 con il titolo “La signora dei neutrini”. Ecco come abbonarsi alla rivista.
 

Claire

ἰοίην
Lei era bresciana
:)

Laura Cereta
(ma io la conosco come Laura CeretO)

Laura Cereta (1469–1499) was a Renaissance humanist and feminist. Most of her writing was in the form of letters to other intellectuals.

Cereta was born in 1469 in Brescia. She was the eldest of six children. Her father, Silvestro Cereto was an attorney and a king's magistrate. Her family was a very prominent Italian family. Laura Cereta was sent to a convent at the age of seven to be educated. She learned religious principles and to read and write. During this time she was a very sickly child and suffered from insomnia which became the topics of her first letters. She was then brought home by her father to take care of her younger siblings at the age of nine. She might have suffered from insomnia keeping her awake and finishing chores while the other members of the family were sleeping. She learned Latin and Greek from her father.

She was married at the age of fifteen to Pietro Serina, who died of fever after only eighteen months of marriage. She was left childless and never remarried. Two years later she began a seven-year career of teaching moral philosophy at the University of Prada, but no public records exist verifying this. After the death of her husband she concentrated on scholarly pursuits, publishing a volume of her letters in 1488, called Epistolae familiares. She was highly criticized for publishing her own work. Her father died six months after she published her letters, and she no longer felt inspired to write because of her father's death and the large amount of criticism from both men and women of her time. Cereta died unexpectedly in 1499 at the age of 30. No writings from her last years of life survived.

In her letters, Cereta defended women's right to education and fought the oppression of married women. Her letters laid the groundwork for Feminism of the Enlightenment. Cereta's letters also discussed war, death, fate, chance, and malice. Her letter to Bibolo Semproni has one of the few medieval references to the 1st century BC woman poet, Cornificia. Unlike most women of her time, Cereta was able to partake in letter writing because she had social contacts to participate.
 

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