LE COSE PIU' BELLE DELLA VITA O SONO IMMORALI O ILLEGALI OPPURE FANNO INGRASSARE (1 Viewer)

Val

Torniamo alla LIRA
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Libero quotidiano, il noto quotidiano molto attivo nella ricerca di notizie anche particolari,
è stato colpito dalla censura di twitter che ha superato l’oceano per l’ennesima volta e si è scarcata anche in Italia.


La censura non è ancora completa.

L’account è stato, per ora , solo “Limitato”, cioè non c’è una chiusura completa, solo limitato.

Si tratta del primo segnale, dopo di che si passa alla cancellazione vera e proprio.

Con la limitazione viene chiesto agli utenti se veramente vogliono vedere l’account, che non è proposto nella normale timeline.


LiberoQuotidiano è un giornale molto seguito, regolare, dove lavorano giornalisti iscritti all’ordine,

che è formalmente e ufficialmente Iscritto ai registri riservati alla stampa.



Su di loro vigila la Magistratura , con leggi buone o cattive, ma che sono l’espressione della democrazia e che hanno seguito un iter costituzionale.

Chi è Twitter per porsi al di sopra della Legge e della Costituzione?




Intanto le azioni Twitter perdono il 6%. solo oggi, dopo una settimana sicuramente nn buona….





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Per quel che vale il mio gesto. CANCELLATO
 

Val

Torniamo alla LIRA
Man mano che i giorni passano dall’uscita del vaccino Pfizer e ora anche di quello Moderna,
si approfondiscono sempre di più le notizie sulla loro efficacia e sui possibili effetti collaterali che potrebbero avere.


Una vera e propria bomba è stata lanciata proprio ieri dal British Medical Journal.

Secondo l’autorevole rivista, l’efficacia reale dei vaccini che sono ora in circolazione non sarebbe del 95% bensì molto al di sotto, tra il 19% e il 29%.


La notizia apparsa sul giornale è stata riportata dal professor Peter Doshi,
associato presso l’Università of Maryland e che si occupa di ricerca sui servizi sanitari farmaceutici.

Con in mano i dati dei due vaccini Doshi ha potuto rilevare evidente differenze che modificano sostanzialmente
quello fino ad ora detto anche da tutta la comunità scientifica.

Già settimane fa il British Medical Journal insieme a Lancet, avevano fortemente criticato i vaccini anti Covid:

"Manca una trasparenza sui dati.
Non è chiaro se funzionino o meno e non sono stati arruolati sufficienti anziani,
persone immunodepresse e bambini per capirne gli effetti su un periodo medio lungo".

L’articolo era sempre a firma di Peter Doshi, il professore definito da New York Times come una delle voci più influenti nella ricerca medica.

"Ho sollevato domande sui risultati delle sperimentazioni sui vaccini Covid-19 di Pfizer e Moderna.
Tutto ciò che era di dominio pubblico erano i protocolli di studio e alcuni comunicati stampa", aveva dichiarato il professore.

Oggi si viene a conoscenza, di oltre 400 pagine di dati, presentate alla Food and Drug Administration (Fda) prima dell’autorizzazione d’emergenza.

E proprio dall'analisi di questi nuovi dati, secondo Doshi,

“sarebbe stata in qualche modo compromessa l’efficacia dei vaccini
perché questi sono stati fatti in parte su pazienti “sospetti covid” e su covid asintomatici non confermati”

Questo lo avrebbe portato a valutare un’efficacia molto inferiore a quella detta fino ad ora:
“molto al di sotto della soglia di efficacia del 50% per l'autorizzazione fissata dalle autorità di regolamentazione”.

Se fossero stati presentati e analizzati questi dati quindi, non ci sarebbe stata l’autorizzazione da parte delle autorità competenti.

Ma c’è di più:

"Anche dopo aver tolto i casi verificatisi entro 7 giorni dalla vaccinazione
(409 sul vaccino Pfizer vs 287 sul placebo), che dovrebbe includere
la maggior parte dei sintomi dovuti alla reattogenicità del vaccino (l’efficacia ndr) a breve termine,
questa rimane bassa e arriva 29%
L’unico dato attendibile per capire la reale capacità di questi vaccini, sono i casi di ospedalizzazione, i pazienti in terapia intensiva e i decessi".


Ovvio che partendo da queste riflessioni ci sarebbe bisogno di accertamenti più approfonditi.

“ll rapporto di 92 pagine di Pfizer, ad esempio non menziona i 3410 casi di 'sospetto Covid-19',
né la loro pubblicazione sul New England Journal of Medicine e neanche dei rapporti sul vaccino di Moderna.

L'unica fonte che sembra averlo segnalato è la revisione della Food and Drug Administration, del vaccino della Pfizer.

C'è bisogno per capire la reale efficacia dei dati grezzi, ma nessuna azienda sembra averli condivisi.

Pfizer afferma che sta rendendo i dati disponibili su richiesta ma questi sono comunque soggetti a revisione,
e Moderna afferma che i suoi dati potrebbero essere disponibili, sempre su richiesta, una volta completato lo studio”.



Dati alla mano si parla della fine del 2022 visto che il controllo necessità di due anni.

Stesso discorso per il vaccino Oxford/AstraZeneca che pubblicherà i suoi dati a conclusione dello studio.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Ma veniamo ai dati reali di questa "pandemia" ??????

Lombardia : 1 caso positivo ogni 6000 abitanti.


Il dato peggiore - ieri - è della provincia di Como : 1 caso positivo ogni 1800 abitanti

Il dato migliore è della provincia di Bergamo : 1 caso positivo ogni 33.000 abitanti

Lecco : 1 caso positivo ogni 16.000 abitanti

Ripeto POSITIVI, non malati.


Quanto ci stanno prendendo per il kulo ?
 

Val

Torniamo alla LIRA
Quante volte abbiamo sentito dire in TV che il problema dell’Italia è la produttività?

Moltissime volte, dal politico o dall’economista mainstream di turno.


Una narrazione molto superficiale come se, all’improvviso,
un’ondata di prigrizia avesse colpito il Paese e gli italiani, di colpo, si sono trasformati da formiche a cicale.


Battute a parte, come stanno realmente le cose?
Guardiamo alcune misure di produttività degli ultimi 40-50-60 anni per capire che cosa è successo.

PRODUTTIVITÀ DEL LAVORO

Con la “produttività del lavoro” si intende il rapporto fra il valore aggiunto e le ore lavorate (vedi definizione ISTAT).


Per costruire la serie, prendiamo i dati da AMECO – il database della commissione europea –
a partire dal primo anno disponibile per estrambi i dati, cioè il 1970.






Come potete vedere in trent’anni di “liretta” la produttività è più che raddoppiata,
passando dai 16,3€ del 1970 ai 34,8€ del 2001.

La variazione è quella reale, dal momento che i dati sono espressi ai prezzi del 2015.


Dall’introduzione dell’euro ad oggi, la produttività è cresciuta in maniera davvero esigua,
passando dai 34,6€ del 2002 ai 35,5€ del 2019.

L’intera serie storica riguarda tutte le attività economiche.


Per verificare il semplicissimo calcolo ecco i codici da inserire su AMECO:
per il “valore aggiunto ai prezzi del 2015” inserire “OVGE“, mentre quello sul “totale ore lavorate” inserire “NLHT“.


Guardiamo ora il grafico del valore aggiunto per occupato, il codice ameco per avere il totale degli occupati è “NETD“.





In questo caso dentro l’euro non si è fatto alcun progresso,
nel 2019 il valore aggiunto per occupato era rimasto ai livelli del 1996 in termini reali, cioè intorno i 61.000€ ai prezzi del 2015.


Tornando a parlare del valore aggiunto per ora lavorata, c
oncludiamo l’argomento con un grafico pubblicato dall’ISTAT nel 2010, un po’ vecchiotto ma ancora interessante.




FONTE: ISTAT – Misure di produttività 1980-2009 (pag 2)

In questo caso si usa il “numero indice” con il 2000 preso come anno di riferimento.

Nel primo anno disponibile – cioè il 1981 – l’indice era di poco inferiore a “70” punti mentre nel 2000 era pari a “100“.


Anche con questo grafico appare evidente che, prima della moneta unica,
l’Italia non avesse particolari problemi di produttività, se non quando avevamo bloccato il cambio della lira,
con l’ingresso nella banda stretta all’inizio del 1990 e il ritorno nello SME a fine 1996.


Vale la pena analizziare un altro indicatore, visto che è molto chiaccherato.

TOTAL FACTOR PRODUCTIVITY

In contrapposizione ai dati appena analizzati, esiste una tesi secondo cui il declino italiano sarebbe cominciato molto prima dell’euro,
la prova è in un’indicatore chiamato “total factor productivity” (in italiano “produttività totale dei fattori”).


Ecco una delle tante discussioni su Twitter, dove il pacatissimo Boldrin cala il suo asso nella manica.


Mentitore vigliacco.

La seconda frase e' priva di senso, buffone anonimo.

Come tutti i vigliacchi anonimi con bandierine insozzate menti.

Almeno Mori ci ha messo la faccia, tu sei solo vigliacco.
— Michele Boldrin (@micheleboldrin) May 6, 2020




Che cosa dovrebbe misurare il TFP?
In teoria i progressi riconducibili al progresso tecnologico.

Secondo Boldrin, l’Italia da almeno 40 anni non investe in nuove tecnologie e questo fatto starebbe l’orgine degli attuali guai.


L’argomentazione di difesa, finora, è stata principalmente quella di puntare il dito sulla bassa affidabilità dell’indicatore
facendo notare che si tratta di un semplice “scarto” per gli errori di misura.


Dite a quel ciarlatano che ha postato il grafico della total factor productivity, un indice residuale che assomma gli errori di stima di tutti gli altri ed è stato giustamente definito “la misura della nostra ignoranza”.
— Gilberto Trombetta (@Gitro77) December 10, 2019




Ovviamente tale obiezione non è stata certo accolta e quel grafico viene puntualmente riproposto.

Il TFP è davvero la “pistola fumante” che mette in discussione i dati che abbiamo visto prima?

Prendiamo per buona l’affidabilità dell’indicatore, cioè che per davvero il TFP misura i benefici del progresso tecnologico.


Prima di ogni considerazione sui dati, qual è la fonte del grafico della discordia?





C’è scritto in basso “University of Groningen“: la prima osservazione è che NON si tratta di una fonte ufficiale
(come invece lo sono AMECO e ISTAT) e quindi NON può essere preso per oro colato.


Per valutarne l’attendibilità, basta semplicemente fare un confronto fra il TFP dell’università olandese
con quello calcolato dalle varie fonti ufficiali, per vedere se i dati corrispondono.


Tornando nel database AMECO, fra i numerosi indicatori disponibili c’è il total factor productiviy (codice ZVGDF), ecco la serie dal 1960 al 2019.





Come vedete è completamente diversa da quella dell’università di Groningen:
quella di AMECO mostra alti e bassi ma nel complesso la produttività totale dei fattori (PTF) è passata dagli “89” punti del 1980 ai “106,5” del 2001.


Invece quella olandese rimane praticamente “piatta” (sotto il grafico con l’anno di riferimento spostato al 2015),
nel 1980 era di 113,9 punti mentre nel 2001 di 113,5.





Vediamo ora quella dell’ISTAT, sempre da quel documento del 2010 che mostra l’andamento della produttività totale dei fattori dal 1981 al 2009.




FONTE: ISTAT – Misure di produttività 1980-2009 (pag 3)

Nel 1981 la produttività totale dei fattori era pari a “80” punti mentre nel 2000 era “100
(che coincide con l’anno di riferimento per questa serie), nemmeno qui nessuna stagnazione nei vent’anni prima dell’euro.


Sotto il grafico olandese con l’anno di riferimento spostato al 2000, dove il TFP – nello stesso arco temporale – oscilla fra 95 e 100.





Come vedete, anche cambiando l’anno di riferimento l’andamento dell’indicatore rimane sempre lo stesso.
Il punto è che il dato olandese è completamente fuorviante rispetto ad ISTAT e AMECO, ergo non può certo considerarsi valido.


Alla fine della fiera non basta “guardare i dati”, bisogna anche verificare l’attendibilità della fonte.


E tutto questo a prescindere se si reputa il TFP “la misura della nostra ignoranza” oppure il miglior indicatore macroeconomico esistente.


Sta di fatto che, con i dati corretti, anche il TFP è l’ennesimo indicatore che va “a farsi benedire”
nella seconda metà degli anni 90 per poi definitivamente soccombere con l’eurone.


PASSATO, PRESENTE E FUTURO DELLA PRODUTTIVITÀ

Nel suo ultimo rapporto annuale, la Banca d’Italia ha dedicato un paragrafo a varie forme di produttività.

Prendiamo la relazione sul 2019, dove a pagina 60 si trova la seguente tavola.




FONTE: Banca d’Italia – relazione annuale 2019 (pag 60)

Come vedete dal 1986 al 1995 la crescita media annua del PIL fu del 2,1%
quella della produttività del lavoro del 2,0% e quella della PTF dell’1,3%.


La fonte dei dati è ovviamente l’ISTAT, nel caso qualcuno avesse ancora dei dubbi su chi fa i conti in questo Paese.


Per quanto riguarda le proiezioni fino al 2032, a pagina 61 c’è il commento della tavola.


« Assumendo che le ore per addetto ritornino sui livelli del 2019 e che il tasso di disoccupazione scenda gradualmente
su valori di poco inferiori al 9 per cento, nel decennio 2023-2032 il monte ore lavorate
apporterebbe un contributo apprezzabile alla crescita del PIL italiano, nell’ordine di 0,7 punti percentuali in media all’anno (tavola).


In questo quadro, per riportare nel decennio considerato il tasso medio di espansione del PIL
all’1,5 per cento registrato nei dieci anni precedenti la crisi finanziaria globale,
la produttività del lavoro dovrebbe aumentare di circa lo 0,8 per cento all’anno tra il 2023 e il 2032.


Tale risultato sarebbe conseguibile con un incremento medio annuo della produttività totale dei fattori (PTF) dello 0,7 per cento circa,
unito a una ripresa dell’accumulazione che, innalzando l’intensità del capitale, riportasse il rapporto tra investimenti e PIL
sui livelli del decennio 1996-2007 (attorno al 21 per cento nella media del periodo).


L’incremento della PTF prospettato si colloca in una posizione intermedia
tra la dinamica molto positiva osservata in media negli anni 1986-1995
e quella, assai più modesta, dei dieci anni successivi (tavola).
(…) »


Infine nelle conclusioni del governatore, sempre nella stessa pubblicazione,
c’è anche un grafico che illustra PIL e produttività del lavoro proiettate fino al 2035.




FONTE: Banca d’Italia – considerazioni finali del governatore (pag 37)


Adesso non ci dovrebbe essere più alcun dubbio

da quando la produttività è diventata un problema in Italia,

o meglio la consenguenza di un “probl€ma“.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Per i cittadini italiani potrebbe arrivare l’ennesima, brutta sorpresa sul fronte prelievi al bancomat.

Banche e associazioni dei consumatori, infatti, sono ora insieme in fila davanti all’Antitrust.

Cosa è successo?

È stata avviata un’istruttoria per esaminare la proposta presentata da Bancomat Spa
che andrà a mutare radicalmente le modalità di remunerazione del servizio di prelievo di contante
presso gli sportelli automatici (Atm) delle varie banche.

Se la proposta dovesse andare a buon fine, chi ci rimetterà sarà il cittadino.

Ma anche la piccola banca.


Come spiega Il Sole 24 Ore, “l’attuale modello è fondato sulla commissione interbancaria di circa 0,50 euro
che per ogni singolo prelievo la “banca issuer” (emittente carta) riconosce alla “banca acquirer” (proprietaria Atm) per l’utilizzo dell’impianto.

A sua volta la banca emittente, a ristoro dei propri costi, può applicare o meno
una commissione al cliente per ogni prelievo in base alle proprie strategie commerciali.

Sono diverse le banche, in primis quelle online, che garantiscono ai loro clienti la gratuità dei cosiddetti prelievi in circolarità,
ovvero presso gli Atm di altre realtà bancarie.

Se passerà l’esame dell’Antitrust il nuovo modello di remunerazione del servizio di prelievo,
non sarà più prevista la commissione interbancaria
e ogni banca proprietaria dell’Atm deciderà in via autonoma il costo che i clienti delle altre banche dovranno sostenere per ogni prelievo“.


Una commissione che sarà stabilita unilateralmente da ogni banca
e sarà resa nota al titolare della carta sul display dell’Atm solo al momento del prelievo
.

“In molti casi – spiega Il Sole -, per esempio nei duemila comuni dove è presente un solo sportello bancario, non ci sarà possibilità di scelta.

Secondo quanto risulta a Il Sole 24 Ore sono diversi i soggetti, soprattutto alcune delle stesse banche
che figurano tra i 125 soci di Bancomat Spa, che hanno chiesto all’Antitrust di poter esprimere il loro dissenso.

Il rivoluzionario progetto viene portato avanti soprattutto dalle grandi banche azioniste di Bancomat Spa.


“A non essere d’accordo, ancor prima dei consumatori, sono soprattutto le banche online
e le medio-piccole realtà bancarie con pochi sportelli Atm sul territorio.

Innanzitutto perché ritengono che si tratta di un tentativo delle grandi banche
per trasferire parte dei costi sostenuti per i numerosi servizi aggiunti per i propri clienti
(versamenti, movimentazioni e così via) a carico di consumatori non clienti.

La stessa riduzione degli Atm è poi guidata esclusivamente dal calo più che proporzionale degli sportelli,
essendo la quasi totalità degli Atm collocata all’interno di una filiale bancaria".


Conclude l’articolo: “Un meccanismo che va a depotenziare la concorrenza delle banche online,
delle neonate realtà fintech e dei piccoli istituti che avranno meno possibilità di continuare ad assicurare ai clienti prelievi gratuiti,
sobbarcandosi l’attuale commissione interbancaria di 0,49 euro, perché sarà molto più oneroso.

Con tutti i rischi di perdere i clienti a favore delle grandi banche (riducendo la concorrenza)
che sono proprietarie dei più importanti parchi Atm
e potranno così offrire la gratuità del servizio con più facilità a chi diventerà loro cliente.

La battaglia tra banche davanti all’Antitrust è aperta”.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Che il cashback sarebbe stato un fallimento lo si era capito sin dai primi minuti.

Il progetto in sé,
il modo in cui è stato pompato,
lo squilibrio tra domanda e offerta,
le rivolte dei commercianti stessi.

Una stortura insomma.

E a conti fatti, alla fine di questa ennesima esperienza “trionfale” del governo Conte,
ecco a tirare le somme, con nessun consumatore che ha raggiunto le famose 150 euro di rimborso
e altri che, addirittura, ora rischiano di non vedere nemmeno un centesimo di rimborso.

Una truffa di Stato, quindi.

Molti consumatori, in queste ore, nel controllare sull’app IO il bilancio dei rimborsi in arrivo
scoprono che alcune transazioni non sono addirittura state conteggiate.


Come spiega molto bene Alessandro Longo su Repubblica,
“significa perdere il rimborso del 10 per cento su quel pagamento.
È capitato anche a utenti esperti di digitale, che hanno riportato i problemi su diversi siti, social network e a Repubblica.
Se ne lamenta anche l’associazione dei consumatori Consumerismo, in una nota di denuncia:
‘Raffica di segnalazioni in tutta Italia da parte di consumatori che sono stati esclusi dall’Extra Cashback di Natale
a causa di transazioni che, inspiegabilmente, non sono state registrate dall’App IO’, si legge.
La beffa è grave in particolare per chi, a causa del problema, non è riuscito a raggiungere la quota minima di dieci transazioni
e che quindi ha perso del tutto le decine di euro di cashback a cui avrebbe diritto”.


È il caso di Mila Fiordalisi, direttrice della rivista specializzata in digitale Corcom.
A quanto riferisce PagoPa Spa, la società pubblica che gestisce l’operazione cashback,
sta indagando sui casi – fa sapere a Repubblica – ma ipotizza già una prima spiegazione:

“Le cause del problema sono molteplici. Prima di tutto, alcuni utenti
sono certo incappati in note eccezioni del cashback, già riportate sui giornali.
Ad esempio hanno pagato con il cellulare, tramite Google Pay, Samsung Pay, Apple Pay o altri sistemi,
che però non sono ancora supportati. Lo saranno nei prossimi giorni, con la nuova versione di App Io.
Oppure hanno fatto pagamenti con contactless e il Pos ha utilizzato, in automatico,
un secondo circuito associato alla carta (tipicamente Maestro) e non ancora registrato al cashback”.


Gli utenti esperti sanno però di queste eccezioni, ma alcuni di loro hanno subito comunque la perdita del rimborso.

Il problema più grave è che agli utenti non è dato di sapere se stanno usando un esercente abilitato.

Inoltre, la grande distribuzione tende a usare acquirer diversi e li cambia a seconda del giorno o dello strumento di pagamento.

“Ecco perché alcuni pagamenti, nello stesso negozio, sono stati riconosciuti con certe carte e con altre no”.

Tutto da rifare.

O meglio: da archiviare.

E spendere i soldi in cosa più utili, tipo creare lavoro.

E non monopattini, cashback e banchi a rotelle.
 

vetro

valgo zero ma non sono scemo
Vedi l'allegato 587891

Libero quotidiano, il noto quotidiano molto attivo nella ricerca di notizie anche particolari,
è stato colpito dalla censura di twitter che ha superato l’oceano per l’ennesima volta e si è scarcata anche in Italia.


La censura non è ancora completa.

L’account è stato, per ora , solo “Limitato”, cioè non c’è una chiusura completa, solo limitato.

Si tratta del primo segnale, dopo di che si passa alla cancellazione vera e proprio.

Con la limitazione viene chiesto agli utenti se veramente vogliono vedere l’account, che non è proposto nella normale timeline.


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Su di loro vigila la Magistratura , con leggi buone o cattive, ma che sono l’espressione della democrazia e che hanno seguito un iter costituzionale.

Chi è Twitter per porsi al di sopra della Legge e della Costituzione?



Intanto le azioni Twitter perdono il 6%. solo oggi, dopo una settimana sicuramente nn buona….





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Per quel che vale il mio gesto. CANCELLATO

a me su facebook è consentito postare ovunque meno che................sulla pagina ufficiale del movimento 5 merde (nonostante sette reclami),,,,,non so come fanno i cricri a limitare gli utenti che non gli aggradano i post,fatto sta che riescono a zittire chi osa scrivere come stanno le cose, che è già difficile a causa di migliaia di navigator (tenuti per le palle dentro stanze trenta alla volta) che stanno da bravi basher a spammare pro m5s e provocare chi contraddice questi adepti deficenti ignorantissimi ...........il che la dice lunga sui social che della democrazia se ne fottono e pensano solo al profitto
 

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