Le balle di Berlusconi (1 Viewer)

Catullo

Forumer storico
"Io dico sempre cose sincere, anche perché non
ho memoria e dimenticherei le bugie. Come ci si
può fidare di chi usa la menzogna come mezzo
della lotta politica? La gente deve fidarsi solo di
chi dice la verità" (Silvio Berlusconi, 2-3-94)
 

Catullo

Forumer storico
Indro Montanelli, il più grande giornalista italiano scomparso nel 2001, lo conosceva bene, avendolo avuto per 15 anni come editore. E diceva: "Silvio Berlusconi è un mentitore professionale: mente a tutti, sempre anche a se stesso, al punto da credere alle sue stesse menzogne". Una pulsione incontenibile e irrefrenabile, quella del presidente del Consiglio italiano verso la menzogna. Persino in Tribunale. Infatti, il 22 ottobre 1990, la Corte d'Appello di Venezia l'ha riconosciuto colpevole di aver mentito ai giudici sotto giuramento: "Il Berlusconi - si legge nella sentenza - deponendo avanti il Tribunale di Verona, ha dichiarato il falso, realizzando gli estremi obiettivi e soggettivi del contestato delitto": cioè la falsa testimonianza, a proposito della sua iscrizione alla loggia massonica P2. Il reato, accertato, fu dichiarato estinto grazie a una provvidenziale amnistia approvata nel 1989. Negli Stati Uniti la menzogna (specie se giurata dinanzi a un giudice) comporta l'immediato impeachment: il colpevole lascia la Casa Bianca. In Italia, entra a Palazzo Chigi. E, naturalmente, continua a mentire. Come prima e più di prima. Quello che segue è un piccolo catalogo ragionato delle bugie berlusconiane.
 

Catullo

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"La mia carriera canora (come cantante sulle navi da crociera, ndr) è cominciata con una tournée in Libano" (7-6-1989). Ma secondo Giuseppe Fiori, suo biografo non autorizzato, Berlusconi non è mai stato in Libano. "Al 'Gardenia' (un locale notturno, ndr) di Milano, come poi sarebbe avvenuto a Parigi, dopo aver cantato mi buttavo in pista per ballare con le bionde" (ibidem). Ma Berlusconi non ha mai suonato a Parigi. "Ho studiato due anni a Parigi, alla Sorbona, e per mantenermi dovevo suonare e cantare nei locali della capitale" (8-7-1989). Ma Berlusconi non ha mai studiato alla Sorbona: semmai alla Statale di Milano. "A Parigi facevo il canottaggio ed ero campione italiano studentesco con il Cus di Milano" (luglio 1989). Parigi a parte, esistono seri dubbi sui titoli sportivi conquistati dal Cavaliere in canoa.
 

Catullo

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Berlusca e la P2

"Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo comunque che è di poco anteriore allo scandalo. Non ho mai pagato una quota di iscrizione, né mi è stata richiesta" (27-9-1988, al Tribunale di Verona). Berlusconi s'iscrisse alla P2 nei primi mesi del 1978 e pagò regolarmente la quota di iscrizione di 100 mila lire. Di qui la falsa testimonianza. "Basta con questa storia della P2: l'ho già detto, ricevetti la tessera per posta e non pagai neppure la quota d'iscrizione" (10-3-94). Ma, come ha testimoniato anche Licio Gelli, gran maestro venerabile della loggia P2, "Berlusconi ha fatto la normale iniziazione alla loggia P2".
 

Catullo

Forumer storico
Giura sulla testa dei figli

Forse non sono figli suoi(diceva Benigni).
Magari di Cacciari.....


"Giuro sui miei cinque figli che non so nulla di quanto mi viene contestato (le tangenti alla Guardia di Finanza, ndr). Sono vittima di una grande ingiustizia. Mi dicono che questo avviso è la risposta a quanto stiamo facendo" (23-11-94). "E' come se mi avessero mandato un avviso di garanzia accusandomi di non chiamarmi Silvio Berlusconi. Siccome sono certo di chiamarmi Silvio Berlusconi, non credo che nessun tribunale giusto al mondo possa condannarmi perché mi chiamo Silvio Berlusconi. Può esserci una condanna, ma allora non sarà un atto di giustizia, ma sovversione" (1-12-94). "Io corruttore? Sarebbe come incolpare suor Teresa di Calcutta, dopo una vita di sacrifici, se una bambina dell'istituto allungasse una mano per pigliare un quarto di mela dal fruttivendolo, non per sé, ma per darlo ad un altro" (27-10-95). "Nessuno si è reso responsabile di corruzione, il capo del gruppo non era minimamente a conoscenza di quanto gli viene addebitato. Il vero scandalo sta semmai nel fatto che la mia impresa, come quasi tutte le imprese italiane, sia stata sottoposta a pressioni concussive da parte di un corpo armato dello Stato... Siamo stati costretti a pagare da un'associazione a delinquere come la Guardia di Finanza, da elementi deviati di un corpo armato dello Stato" (16-1-96). Con buona pace dell'incolpevole prole, due dirigenti Fininvest verranno definitivamente condannati per corruzione della Guardia di Finanza, un consulente legale definitivamente per favoreggiamento, i due segretari per falsa testimonianza in primo e secondo grado, mentre Berlusconi verrà condannato dal Tribunale per corruzione, dichiarato prescritto (cioè responsabile, ma non più punibile) dalla Corte d'appello, infine assolto dalla Cassazione. Ma solo per "insufficienza probatoria". "Publitalia non ha mai emesso fatture false, e funziona come un orologio" (31-5-95). Ma i massimi dirigenti di Publitalia, dal presidente fondatore Marcello Dell'Utri in giù, hanno patteggiato condanne per decine di miliardi di false fatture e frodi fiscali. "Sono pronto a lasciare la guida del Polo, la Camera e la vita politica se verrà dimostrato un rapporto mio o della Fininvest o di una società del gruppo col signor Bettino Craxi, diverso da quello della pura amicizia!" (29- 11-95). Craxi è colui che nel 1984 impose con il suo governo al Parlamento ben due decreti ad personam, i "decreti Berlusconi", per salvare le televisioni dell'amico finite sotto inchiesta (e minacciate di sequestro dai magistrati) perché trasmettevano illegalmente su tutto il territorio nazionale. La Corte di Cassazione, confermando la prescrizione del reato di finanziamento illecito nel processo sulla società berlusconiana off-shore "All Iberian", ha ritenuto dimostrato che Berlusconi versò illegalmente a Craxi, tra il 1990 e il 1992, ben 21 miliardi estero su estero. Ma Berlusconi non ha lasciato la vita politica. "Non ho mai fatto alcun attacco alla magistratura" (10-10-95). "Se c'è una cosa che mi viene addebitata e che non risponde al vero è da parte mia un giudizio negativo nei confronti dei magistrati" (25-11-95). "Io sono un grande estimatore della magistratura e l'ho dimostrato nella mia attività di governo, durante la quale sono sempre stato vicino ai problemi dei giudici" (7-12-95). "Mi consenta ancora una volta di esprimere ammirazione verso la magistratura e i giudici" (23-1-96). Una costante dell'azione politica è l'attacco sistematico, scientifico, incessante alla magistratura di ogni ordine e grado: dai pm di Milano (ma anche di Palermo, Napoli, Torino: tutti quelli che si sono occupati di lui o di sue aziende) ai giudici per le indagini preliminari, da quelli di tribunale a quelli di appello, su su fino alle sezioni unite della Corte di Cassazione, massima istanza giurisdizionale del Paese. "Le inchieste sul mio gruppo sono iniziate soltanto dopo il mio impegno in politica. Prima non avevo mai subito nulla del genere" (17-6-2003). Ma è vero il contrario: prima nascono le inchieste sulla Fininvest di Berlusconi, poi (e forse proprio per questo) Berlusconi "scende in campo" politico. La prima indagine (poi archiviata) sul Berlusconi imprenditore, per traffico di droga, fu aperta a Milano nel lontano 1983. Nel 1989 poi, sempre a Milano, Marcello Dell'Utri finì per la prima volta sotto inchiesta per mafia (prosciolto). La tesi della persecuzione politica per via giudiziaria, già esposta dal premier in una denuncia a Brescia, è stata così smontata dal gip Carlo Bianchetti nell'archiviazione del 15 maggio 2001: "Risulta dall'esame degli atti che, contrariamente a quanto si desume dalle prospettazioni del denunciante, le iniziative giudiziarie. avevano preceduto e non seguito la decisione di "scendere in campo". [Il pool di Mani pulite ha compiuto, tra] il 27 febbraio '92 e il 20 luglio '93, ben 25 accessi presso Fininvest e Publitalia". Lo stesso Berlusconi, al momento di entrare in politica verso la fine del 1993, aveva confidato ai famosi giornalisti Enzo Biagi e Indro Montanelli (che l'hanno poi raccontato): "Se non entro in politica, fallisco e mi arrestano". "E questo potere arbitrario e di casta è stato illiberalmente esercitato nel 1994 contro un governo sgradito alla magistratura giacobina di sinistra, governo messo platealmente sotto accusa attraverso il suo leader in un procedimento iniziato a Napoli mentre presiedeva una Convenzione delle Nazioni Unite e sfociato poi, per assoluta mancanza di fondatezza, in una clamorosa assoluzione molti anni dopo" (29-1-2003). Berlusconi si ostina a ripetere che, nel 1994, il suo governo fu rovesciato dall'invio di un "avviso di garanzia" per le mazzette Fininvest alla Guardia di Finanza, a Napoli, mentre lui presiedeva un convegno sulla criminalità organizzata. Si trattava in realtà di un "invito a comparire" (una convocazione per un interrogatorio), dovuto per legge, che non fu affatto notificato a Napoli, ma a Roma. E fu preannunciato al telefono all'interessato la sera prima (21 novembre '94) dai carabinieri. Fu dunque Berlusconi, pur sapendo di essere sospettato di corruzione, a decidere ugualmente di presiedere il convegno anche l'indomani (giorno 22), esponendo il buon nome dell'Italia al ludibrio internazionale. Ai magistrati milanesi, secondo un'informativa dei carabinieri, risultava che lui, la sera stessa del 21, sarebbe rientrato a Roma abbandonando il convegno napoletano inaugurato la mattina. Perciò inviarono i militari per la consegna a Roma, non a Napoli. Quanto alle ragioni della caduta del governo, quell'atto non ebbe alcuna conseguenza. L'hanno stabilito i magistrati di Brescia, ai quali Berlusconi aveva presentato un esposto contro i magistrati milanesi per "attentato agli organi costituzionali" (cioè al suo primo governo). Nell'ordinanza del giudice Carlo Bianchetti che il 15 maggio 2001 archivia l'inchiesta e assolve il pool di Milano, si legge: "Alla causazione del cosiddetto "ribaltone" è stata sostanzialmente estranea la vicenda dell'invito a presentarsi, dal momento che, secondo la testimonianza dell'allora ministro Maroni, la decisione della Lega Nord di "sfiduciare" il governo Berlusconi (decisione che era stata determinante nella caduta dell'Esecutivo) era stata formalizzata il 6 novembre 1994, e perciò due settimane prima; trovava comunque le sue radici in un insanabile contrasto tra la Lega Nord e gli altri partiti del Polo delle Libertà risalente a fine agosto '94, allorché l'on. Bossi era venuto a sapere dell'intenzione del capo del governo di "andare alle elezioni anticipate in autunno". "Nel processo Sme non ci sono né indizi né prove contro di me, c'è solo il teorema della signora Stefania Ariosto, una mitomane che ha fatto dei pettegolezzi. Per la Sme mi aspetterei non un processo, ma una medaglia d'oro al valore civile per avere salvato l'Italia da una svendita di un bene pubblico per 500 miliardi quando ne valeva 2500". La teste Stefania Ariosto non parla dell'affare Sme: si limita a raccontare ciò che ha visto e sentito a proposito di Previti e della corruzione di alcuni giudici romani. In realtà, nel processo Sme, gli imputati sono sotto accusa per alcuni bonifici bancari. Il primo riguarda l'industriale Pietro Barilla (deceduto nel '93): il 2 maggio e il 26 luglio 1988 da un conto estero di Barilla partono due accrediti (1 miliardo e 800 milioni di lire) destinati all'avvocato Attilio Pacifico, braccio destro dell'avvocato berlusconiano Cesare Previti. Pacifico versa, secondo l'accusa, 200 milioni in contanti al giudice Filippo Verde, e tramite bonifico 850 a milioni a Previti e 100 al giudice Renato Squillante. Il secondo bonifico chiama invece direttamente in causa la Fininvest. Il 6 marzo 1991, dal conto svizzero "Ferrido", aperto dal capo della tesoreria Fininvest Giuseppino Scabini, vengono accreditati 434.404 dollari sul conto "Mercier" di Previti, da dove, un'ora dopo, vengono girati sul conto "Rowena" del giudice Squillante. Secondo l'accusa, il conto Ferrido (della galassia All Iberian) era alimentato con fondi personali e familiari di Berlusconi. Di qui l'accusa, per tutti, di corruzione giudiziaria. Per la Sme (la finanziaria alimentare dell'Iri), Berlusconi non sventò alcuna svendita: la quota dell'azienda in vendita da parte dell'Iri era stata valutata 500 miliardi da due esperti dell'università milanese Bocconi, e dunque Carlo De Benedetti, unico offerente nel 1985, aveva offerto quella cifra. Poi Berlusconi, su ordine di Craxi, si intromise nell'affare, rilanciando per un 10% appena: il minimo indispensabile per entrare in partita. Dunque offrì 550 miliardi, poco più di De Benedetti, poco meno di un quinto rispetto al valore che oggi egli pretende di attribuire alla Sme del 1985. "La magistratura politicizzata, nel 1992-'93, ha cancellato cinque partiti dalla vita pubblica, risparmiando i comunisti per portarli al potere". A parte il fatto che, a Milano, il pool Mani Pulite arrestò e inquisì quasi l'intero vertice del Pci-Pds, esattamente come quelli dei partiti moderati, va detto che le prime elezioni dopo Tangentopoli non le vinsero le sinistre. Le vinse Berlusconi, occupando lo spazio lasciato libero dal pentapartito che si era sciolto per mancanza di voti dopo lo scandalo. Il 24 gennaio 1994, al momento della sua discesa in campo, il Cavaliere elogiò il pool di Milano per avere scoperchiato lo scandalo di Tangentopoli: "La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi [...]. L'autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal peso del debito pubblico e del finanziamento illegale dei partiti, lascia il paese impreparato e incerto...". E il 6 febbraio rincarò la dose: "Basta con i ladri di Stato, noi siamo per una politica nuova, diversa, pulita. Siamo l'Italia che lavora contro l'Italia che ruba". Subito dopo tentò di avere nel suo governo i due simboli del pool di Mani Pulite: Antonio Di Pietro al ministero dell'Interno e Piercamillo Davigo alla Giustizia. I due, però, rifiutarono. Ma evidentemente, all'epoca, Berlusconi non li considerava "toghe rosse". "I magistrati milanesi abusavano della carcerazione preventiva per estorcere confessioni agli indagati" (30-9-2002). Anche questo cavallo di battaglia della polemica berlusconiana anti-giudici è smentita dai fatti e, soprattutto, dalla relazione consegnata al governo dai quattro ispettori ministeriali inviati contro il pool di Milano nell'ottobre 1994 dal guardasigilli Alfredo Biondi (Forza Italia, primo governo Berlusconi). Relazione resa nota il 15 maggio '95: "Nessun rilievo può essere mosso ai magistrati milanesi, i quali non paiono aver esorbitato dai limiti imposti dalla legge nell'esercizio dei loro poteri [...]. Non si è riscontrata un'apprezzabile e significativa casistica di annullamenti delle decisioni che hanno dato luogo a quelle detenzioni [...]. I provvedimenti custodiali sono stati spesso suffragati [...] dall'ulteriore e decisiva prova della confessione dell'indagato. Né è risultato che tali confessioni siano state in seguito ritrattate perché rese sotto la minaccia dell'ulteriore protrarsi della detenzione [...]. Non è possibile ascrivere quelle confessioni alle "condizioni fisiche e psicologiche disumane" nelle quali si sarebbero venuti a trovare molti indagati, alcuni dei quali suicidatisi, condizioni cui fa riferimento l'on. Sgarbi: non è stata mai segnalata l'applicazione di regimi detentivi differenziati e inaspriti rispetto alla generalità dei casi". "I magistrati del pool di Milano avevano come obbiettivo quello di favorire la presa di potere da parte delle sinistre" (9-5-2003). A parte le considerazioni già esposte, è interessante leggere la risposta data il 23 ottobre 1996 dal ministro dell'Interno britannico Simon Brown al Parlamento britannico, per spiegare il diniego opposto al ricorso degli avvocati di Berlusconi, i quali parlavano di inchieste e reati "politici" per opporsi alla consegna dei documenti sui conti esteri della galassia All Iberian: "Se ben capisco l'argomentazione dei richiedenti [la Fininvest], essi sostengono che l'azione giudiziaria in corso in Italia per donazioni illecite di 10 miliardi al signor Craxi è politica, e che le accuse di falso contabile [...] sarebbero reato connesso. Le donazioni politiche illegali sono un reato politico? Non sono d'accordo. A me sembra piuttosto un reato contro la legge ordinaria promulgata per garantire un corretto ordinamento del processo democratico in Italia - reato in nulla diverso, diciamo, dal votare due volte alle elezioni [...]. Il reato in questione è stato commesso per influenzare la politica del governo: non si pagano clandestinamente grosse somme di denaro a un partito politico senza uno scopo [...]. Non accetto in nessun modo che il desiderio della magistratura italiana di smascherare e punire la corruzione nella vita pubblica e politica, e il conflitto che ciò ha creato tra i giudici e i politici in quel paese, operi in modo tale da trasformare i reati in questione in reati politici. È un uso scorretto del linguaggio definire la campagna dei magistrati come improntata a "fini politici", o le loro azioni nei confronti del signor Berlusconi come persecuzione politica. Al contrario, tutto ciò che ho letto su questo caso suggerisce che la magistratura stia dimostrando una giusta indipendenza politica dall'esecutivo ed equanimità nel trattare in modo eguale i politici di tutti i partiti [...]. [Il reato] non è intrinsecamente politico, né lo diviene nel caso che l'autore del reato speri di cambiare la politica del governo comprando influenza politica, e neanche se il potere giudiziario, perseguendo lui, spera di ripulire la politica. Nessuno degli argomenti dei richiedenti riesce a persuadermi in nulla che i reati in questione siano politici. Non riesco proprio a vedere i pagatori corrotti della politica come i "Garibaldi di oggi", o cercatori di libertà, o "prigionieri politici". "I magistrati milanesi abusavano della carcerazione preventiva per estorcere confessioni agli indagati" (30-9-2002). Anche questo cavallo di battaglia della polemica berlusconiana anti-giudici è smentita dai fatti e, soprattutto, dalla relazione consegnata al governo dai quattro ispettori ministeriali inviati contro il pool di Milano nell'ottobre 1994 dal guardasigilli Alfredo Biondi (Forza Italia, primo governo Berlusconi). Relazione resa nota il 15 maggio '95: "Nessun rilievo può essere mosso ai magistrati milanesi, i quali non paiono aver esorbitato dai limiti imposti dalla legge nell'esercizio dei loro poteri [...]. Non si è riscontrata un'apprezzabile e significativa casistica di annullamenti delle decisioni che hanno dato luogo a quelle detenzioni [...]. I provvedimenti custodiali sono stati spesso suffragati [...] dall'ulteriore e decisiva prova della confessione dell'indagato. Né è risultato che tali confessioni siano state in seguito ritrattate perché rese sotto la minaccia dell'ulteriore protrarsi della detenzione [...]. Non è possibile ascrivere quelle confessioni alle "condizioni fisiche e psicologiche disumane" nelle quali si sarebbero venuti a trovare molti indagati, alcuni dei quali suicidatisi, condizioni cui fa riferimento l'on. Sgarbi: non è stata mai segnalata l'applicazione di regimi detentivi differenziati e inaspriti rispetto alla generalità dei casi".
 

Catullo

Forumer storico
Quanlcuno si commuove se questo mentitore di professione chiama un suo lacchè per piangere in diretta?
 

velavola

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Essere almeno senza paraocchi....

Luca Ricolfi - Corsera Magazine - 27-04-2006
Prima ha scritto Perché siamo antipatici in cui diceva che la sinistra è supponente e ha il complesso di superiorità. Poi, Tempo scaduto in cui sosteneva che Berlusconi aveva realizzato più della metà delle cose che aveva promesso. Luca Ricolfi, insegnante di Analisi dei dati all’università di Torino, è un intellettuale di sinistra. Ma con i suoi saggi ha gettato nello sconforto l’Unione e s’è fatto lisciare il pelo dalla destra.
E adesso che la sinistra ha vinto come la mettiamo?
«In Perché siamo antipatici davo per scontato che la sinistra avrebbe vinto. Semmai dicevo che non se lo meritava. E che il consenso era legato alla figura del nemico Berlusconi».
È la seconda volta che Prodi sconfigge Berlusconi.
«Non c’è un’Italia che guarda a sinistra. C’è un’Italia in cui l’ostilità per Berlusconi è maggiore dell’ostilità per Prodi».
L’errore più grave della sinistra?
«Credere che l’importante fosse rimuovere l’avversario e che solo dopo si sarebbe deciso che politiche fare. Nel marzo del 2005 D’Alema diceva: “Il giorno dopo le regionali dovremo individuare i punti di attacco necessari per il cambiamento del Paese”. Fassino, il 16 marzo 2005, riferendosi alle politiche, diceva: “Se dovessimo vincere, la prima cosa che farà Prodi sarà di chiamare a raccolta le grandi organizzazioni sociali per decidere insieme le dieci cose più importanti da fare». Questa è la sinistra: dateci il voto, poi vi diremo che cosa ne faremo».
Avevano scritto un ponderoso programma.
«Io l’ho letto. 281 pagine nelle quali erano riprodotti gli schemi mentali tipici della sinistra. Più involuti, più astratti e meno comprensibili di quelli del 1996 e del 2001. Ho confrontato i programmi: anche lessicalmente c’era una regressione linguistica. E c’erano cose false».
Per esempio?
«Che in questi anni è molto aumentata la precarietà e quindi, noti il passaggio hegeliano, doveva essere aumentata anche l’insicurezza nei luoghi di lavoro».
Non è vero?
«Gli incidenti mortali sul lavoro, durante il centro destra, sono crollati. Durante il centro sinistra erano aumentati».
Lei è di sinistra, no?
«Incontrovertibilmente di sinistra».
Allora diciamo che è terzista.
«Ogni tanto mi danno del terzista. Se significa imparzialità di giudizio anche nei confronti del proprio schieramento, allora lo sono».
Se io non sapessi che lei è di sinistra, potrei confonderla con qualche liberale.
«Tipo quelli che io chiamo “i rifugiati”? Gente di destra che sta a sinistra finché la destra non sarà di nuovo praticabile. Come, Giovanni Sartori, Marco Travaglio, Valerio Zanone. La madre di tutti i rifugiati era Montanelli».
Se scomparisse l’anomalia Berlusconi lei si sposterebbe a destra?
«Ottima domanda. Non so che cosa succederebbe in assenza di Berlusconi. Io appartengo a quell’insieme di persone che culturalmente stanno da una parte, ma poi pragmaticamente potrebbero decidere che a volte è meglio votare lo schieramento opposto».
Come si riconosce un uomo di destra da uno di sinistra?
«Una persona di sinistra sostiene che il gioco del mercato è truccato, che non tutti partiamo con le stesse possibilità. Ma a questo punto la sinistra si biforca».
Chi da una parte e chi dall’altra?
«Lasciando fuori i massimalisti, c’è una sinistra socialdemocratica che ha un’idea di correzione a posteriori di tutte le disuguaglianze e quindi punta su una redistribuzione del reddito. È quello che fa la sinistra italiana attuale».
E l’altro tipo di sinistra?
«È quella che ha un’idea meritocratica delle pari opportunità. Cioè pensa che le disuguaglianze prodotte dal mercato bisogna correggerle prima, permettendo a tutte le persone di competere ad armi pari».
Facciamo un esempio.
«La scuola. Se io fossi il ministro dell’Istruzione quadruplicherei le tasse universitarie e destinerei gli introiti alla creazione di 200 mila borse di studio da destinare ai capaci e meritevoli. Borse ricchissime, mille euro al mese. Questa è una sinistra liberaldemocratica. La mia sinistra».
I suoi libri avrebbero potuto fare il gioco della destra.
«Dovere di uno studioso è dire quello che scopre».
Lei che cosa ha scoperto?
«Che la stragrande maggioranza delle mie convinzioni di sinistra erano luoghi comuni. Non è vero quasi niente di quello che pensavo fosse successo negli ultimi dieci anni».
Tipo?
«La sinistra crede che la nostra sia una società in cui aumenta la precarietà, cresce la disuguaglianza, la gente si sta impoverendo. Ne ero convinto. Non è vero. Io scrivo senza badare alle conseguenze. Bisogna tenere distinti i ruoli dello studioso e del politico. E poi non dobbiamo sopravvalutare la nostra influenza».
Cioè lei non ha aiutato la destra...
«Bobbio disse che l’intellettuale svolge una funzione più positiva quando critica la propria parte politica. Se io fossi di destra farei quello che Marcello Veneziani non sta facendo, una critica come Dio comanda alla destra. Non c’è un intellettuale di destra che la faccia. Sacconi? Brunetta? Cazzola? Hanno scritto cose sensate, ma sempre a sostegno del governo Berlusconi».
Scalfari è stato durissimo con lei.
«Noi siamo amici di famiglia. Mia nonna era amica di Giulio De Benedetti, il suocero di Scalfari. Io sono amico d’infanzia di Enrica e di Donata, le figlie di Scalfari. Le nostre famiglie sono legate da tre generazioni».
Nonostante ciò Scalfari ha fatto una recensione sull’Espresso nella quale tentava di toglierle la pelle.
«A mio parere senza aver effettivamente letto il libro».
Mi sembra esagerato.
«Allora senza averlo letto per intero».
E lei gli ha risposto.
«Lui è intervenuto ancora. Ha avuto lui l’ultima parola».
Vi siete mai parlati?
«Mi capita di vederlo una volta ogni sette, otto anni. Anche se la mia prima cattedra l’abbiamo festeggiata a casa sua».
Con Enrica ne avete parlato?
«Ha detto: “Ma lo sai com’è papà, lui è un passionale”».
E così è entrato nel cono d’ombra.
«Non sono mai stato sotto i riflettori di Eugenio».
Eppure sembra quasi la lacerazione di un’amicizia…
«Può darsi che lui abbia vissuto la rottura di qualcosa. Ma non c’è mai stato un rapporto intellettuale organico fra noi La sua reazione è di carattere affettivo. Avrà pensato: “Luca l’ha fatta grossa. Proprio lui che è dei nostri”. Non si aspettava che io facessi una cosa così profondamente errata, controproducente, inopportuna».
Altre reazioni?
«Una bella crisi di rigetto da parte di alcuni colleghi all’università. Si sono chiusi in un imbarazzato silenzio. Non mi contestavano una sola analisi. Mi contestavano l’opportunità: “Ma non potevi scriverlo in altro momento?”».
Glielo chiedo anche io.
«Il momento giusto non arriva mai. La sento da 40 anni questa litania del passaggio drammatico della storia nazionale».
Da destra invece commenti entusiasti.
«Alla destra faceva comodo una parte delle mie affermazioni. Ma facevano scomodo tutte le altre».
Per Ferrara lei ormai è un idolo.
«Lei sa come è andata la storia? Il Giornale aveva fatto un falso scrivendo: “Mantenute quattro promesse su cinque”. Io invece avevo detto “Non mantenute quattro su cinque”. Io avevo smentito. Il Foglio, in un articolo di Christian Rocca, mi accusò di vigliaccheria, sospettando che ritrattassi in stile staliniano. Sono seguite lettere e un invito a Otto e mezzo. Credo che Ferrara abbia capito che non sto facendo aggiotaggio politico, che non mi interessa aiutare loro né gli altri».
Altri attacchi sui giornali?
«Corrado Stajano sull’Unità. Sull’Unità ha scritto un articolo anche Cotroneo. Ma non ho capito che cosa volesse dire. Non saprei neanche dire se fosse critico o elogiativo».
Parliamo di questo benedetto contratto con gli italiani. Berlusconi lo aveva onorato o no?
«No. E non doveva presentarsi alle elezioni se era un uomo d’onore. Aveva mantenuto completamente solo una promessa su cinque, quella delle pensioni. I n media le promesse di Berlusconi erano state mantenute solo al 60%».
Come si spiega allora l’ostilità della sinistra?
«La sinistra ha passato tutta la legislatura a raccontare balle, a dire che Berlusconi non ha fatto un tubo. Se se ne esce uno a dire che ha fatto più del 50% di quanto aveva promesso, questo sconvolge le menti. Oltretutto io sostenevo che il contratto era realizzabile davvero. La sinistra ha sempre pensato che fosse fin dall’inizio una patacca demagogica».
Parliamo dell’antipatia della sinistra.
«L’antipatia è un cocktail di due cose: il senso di superiorità morale e il linguaggio oscuro».
Bertinotti ha un linguaggio complesso ma è simpatico.
«Qualche volta fa dei ragionamenti astratti, hegelo-marxisti. Però io capisco più Bertinotti di Prodi».
Parlano più chiaro quelli di destra?
«Berlusconi, come anche i leghisti, è chiaro. La sua comunicazione è ancorata al senso comune e quindi etichettata ingiustamente come populista. È un misto di linguaggio chiaro e di rispetto dell’elettorato altrui (ultimamente macchiato dal “coglioni”)».
Chi sono i simpatici a sinistra?
«Le tre B: Bertinotti, Bindi e Bersani. Sono simpatici a prescindere da quello che dicono».
Il grande antipatico?
«Lei chi direbbe?».
Quello che dicono tutti: D’Alema.
«D’Alema è sprezzante e saccente. Ma il vero antipatico è chi parla sopra l’altro. Schifani e Angius, per esempio. Dicono cose false e non pertinenti pur di zittire l’avversario».
Quindi D’Alema?
«D’Alema non ha questo difetto. Lui ti lascia finire di parlare e poi t’ammazza. Però ha fatto un disastro con la bicamerale e merita le critiche dei girotondi».
Se lei dovesse fare un governo dei simpatici ?
«Bindi, Bertinotti, Bersani, La Russa, Stefania Prestigiacomo, Alessandra Mussolini…».
Meglio fascista che frocio?
«Stiamo parlando di simpatia non di correttezza…».
Manca il premier…
«Luciana Litizzetto. È il massimo da tutti i punti di vista».
Lei ha detto: «Ci sono persone colte, intelligenti, educate che all’argomento Berlusconi perdono il lume della ragione». Ma non ha detto di chi è la colpa.
«Dovrei dire che la colpa è di Berlusconi. Ma perdere il controllo perché riteniamo insopportabile Berlusconi, vuol dire aiutarlo. Dopo dodici anni di berlusconismo e di anti-berlusconismo siamo tutti più immaturi, infantili, incapaci di ragionare, faziosi, indisponibili ad ascoltare».
Ci sono quelli che dicono: prima di tornare a discutere serenamente bisogna eliminare l’anomalia Berlusconi.
«C’è una sottovalutazione della forza della ragione. La gente accetta Berlusconi o meno indipendentemente da ciò che quattro gatti possono dire sulla sinistra. Che i quattro gatti debbano tacere perché sospettati di fare il gioco del nemico è una proiezione del delirio di onnipotenza degli intellettuali».
Lei conosce Berlusconi?
«Il mio massimo avvicinamento a Berlusconi è il seguente: io vado sempre a fare il bagno con la mia barchetta tra Paraggi e Santa Margherita Ligure. Sotto il castello che Berlusconi ha preso in affitto per dieci anni».
Gioco della torre. Cofferati o Bertinotti?
«Butto Bertinotti. Mi sembra immerso nell’Ottocento».
Bondi o Baget Bozzo?
«In Baget Bozzo colgo a volte barlumi di intelligenza. Su 100 cose che dice Bondi non ne ho sentita una intelligente».
Annunziata o Travaglio?
«Li adoro entrambi. Ma l’Annunziata, tra coloro che hanno la chance di stanare i politici, è l’unica che lo fa».
Pera o Ferrara?
«Non capisco il percorso intellettuale di Pera».
Anche Ferrara ne ha fatta di strada.
«Ferrara ha cambiato idea, come Pera. I motivi di Ferrara mi sono chiari. Quelli di Pera oscuri».
Fassino, D’Alema, Veltroni e Rutelli...
«Aveva ragione Moretti. Con questi dirigenti non si va da nessuna parte. Questa classe dirigente deve mollare».
Berlusconi o Prodi?
«Prodi e Berlusconi hanno fatto, fanno e faranno gravi danni al Paese. Mi auguro che si rivoti presto e un’altra classe dirigente si presenti alla guida di questo disgraziato Paese».
 

velavola

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Luca Ricolfi
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Il "Contratto con gli italiani" alla prova dei fatti

Fu incauto Silvio Berlusconi a firmare il «Contratto con gli italiani»? Era meglio seguire il consiglio di Andreotti, e firmare un contratto meno impegnativo? E soprattutto: quando firmava il contratto nello studio di Vespa, il futuro vincitore delle elezioni sapeva di non poter mantenere le promesse?
So bene qual è la risposta della maggior parte degli osservatori di sinistra, Scalfari in testa. Berlusconi è un demagogo, e come tutti i demagoghi racconta al popolo quel che il popolo desidera sentirsi raccontare. Nel 2001 sapeva perfettamente di non poter mantenere le promesse che faceva, ma le fece lo stesso perché vendere sogni è il mestiere che gli riesce meglio.

È giusta questa ricostruzione della storia del «Contratto con gli italiani»?
Secondo la maggior parte degli esponenti del centro-destra no, perché il governo Berlusconi si trovò di fronte una serie di ostacoli imprevisti, imprevedibili, e del tutto indipendenti dalla propria volontà: l’11 settembre, le guerre in Afghanistan e in Iraq, i grandi collassi finanziari (bond argentini, Cirio, Parmalat), la crisi dell’economia mondiale, il «buco di bilancio» lasciato in eredità dal centro-sinistra. Senza questi eventi negativi il contratto sarebbe stato onorato senza problemi. Dunque Berlusconi non è un venditore di fumo, e tenuto conto delle difficoltà in cui si è trovato ha fatto fin troppo. Dopotutto il governo prevedeva un tasso di crescita del 3,1% all’anno, mentre il tasso medio di crescita dell’economia durante la XIV legislatura è rimasto abbondantemente al di sotto dell’1%. Con un tasso di crescita che è risultato piuttosto vicino a zero, non si poteva pretendere che il governo onorasse il contratto al 100%, e nemmeno all’80% (4 promesse su 5).
In realtà c’è qualcosa che non va anche nel ragionamento dei difensori del premier. Innanzitutto perché nessun governo può assumere che la legislatura si svolga senza ostacoli, difficoltà e imprevisti. Alcuni ostacoli sono prevedibili, come le divisioni interne della maggioranza, o le resistenze che gli interessi costituiti inevitabilmente frappongono alle riforme che potrebbero lederli. Altri sono imprevedibili nel dettaglio e nella tempistica, ma vanno messi in conto ugualmente (come fa il buon capofamiglia con la voce «spese impreviste»: non sai quali saranno, ma sai che ogni anno ce ne sono). Altri ancora dipendono dal comportamento del governo stesso: è il caso dell’avventura irachena, o delle scelte di politica economica, che secondo diversi economisti potevano essere più efficaci.
C’è poi un’altra pecca nell’argomentazione dei difensori del premier. Nella primavera del 2001 alcuni dati negativi del quadro macroeconomico erano conosciuti: Berlusconi non poteva non sapere che l’economia mondiale era in frenata, né tanto meno ignorare il «buco di bilancio», che proprio i suoi consiglieri economici avevano denunciato prima della famosa puntata di «Porta a porta». E infine va detto che, proprio sulla base dei dati allora noti, una previsione di sviluppo dell’economia italiana a un tasso medio del 3,1% era alquanto irrealistica, e quindi il suo mancato realizzarsi non può certo essere annoverato fra gli eventi straordinari che avrebbero impedito di onorare il contratto.

In breve, chi dice che il contratto non poteva comunque essere rispettato sembra ignorare le avversità che il premier ha incontrato sulla propria strada, ma chi dice che il premier ha fatto fin troppo mette nel mazzo delle avversità anche eventi prevedibili, o non straordinari, o dipendenti dal premier stesso. Per stabilire la «sincerità», o meglio il realismo, della promessa di Berlusconi quel che dobbiamo tentare è un altro esercizio. Dobbiamo chiederci che cosa era realisticamente prevedibile nel 2001, e che cosa no. E se le cose davvero imprevedibili occorse durante la legislatura sono sufficienti a render conto del fallimento di Berlusconi.

La mia opinione personale è che due siano gli imprevisti genuini della XIV legislatura.
Il primo è l’entità dell’extra-deficit, o «buco di bilancio», dei conti pubblici nel 2001. Ai tempi della firma del contratto Renato Brunetta lo aveva stimato in circa 12 miliardi di euro, ossia più o meno un punto di Pil. Alla fine del lungo processo di revisione dei conti pubblici avvenuto nei primi anni della legislatura il suo ammontare è risultato più che doppio: 2,4 punti di Pil secondo le ultime stime Eurostat. In cifre, questo vuol dire che alle casse dello Stato sono mancati quasi 30 miliardi di euro, di cui circa 15 assolutamente imprevisti (e imprevedibili). Una cifra che, se allocata fin dall’inizio sul piano delle grandi opere, oggi lo renderebbe sostanzialmente «in orario». È il caso di ricordare, in proposito, che la nostra stima del grado finale di realizzazione della promessa sulle grandi opere è del 68,4% a fronte di stanziamenti effettivi dell’ordine di 25 miliardi di euro. Non è irragionevole pensare che con una dotazione aggiuntiva di 10 o 15 miliardi di euro non sarebbe stato affatto impossibile completare il restante 31,6% (naturalmente qui e nel seguito non stiamo discutendo dell’opportunità politica ed economica del piano, ma solo della sua fattibilità).
Ma c’è un secondo imprevisto genuino, che ha ostacolato gravemente l’azione di governo nell’attuale legislatura: la stagnazione dell’economia. È vero che una previsione di sviluppo dell’economia italiana al ritmo del 4% formulata nel 2001 era già allora decisamente implausibile, anche immaginando una rapida uscita dell’economia mondiale dalla crisi del 2000-1. Altrettanto vero, però, è che nessun economista era allora in grado di prevedere che l’intera zona euro sarebbe entrata in un lungo periodo di quasi stagnazione, che avrebbe portato il tasso medio di crescita dei paesi dell’unione monetaria molto al di sotto di quello sperimentato nella seconda metà degli anni ’90. Nella primavera del 2001 una previsione ragionevole e prudente poteva indicare, dopo l’uscita dalla congiuntura negativa, un tasso di crescita della zona euro analogo a quello del periodo precedente, magari accompagnato da una perdurante incapacità dell’Italia di colmare il ritardo rispetto alla media degli altri paesi dell’unione monetaria. In concreto questo significa un tasso di crescita prossimo al 2%, o all’1,5% se vogliamo indulgere al pessimismo. Immaginando un Pil perfettamente fermo fra il 2001 e il 2002, e un tasso medio di crescita appena decoroso (1,5%) nei quattro anni successivi, non era certo avventato ipotizzare un Pil di fine legislatura prossimo a 106, fatto 100 il livello del 2001. Poiché il Pil di fine legislatura è previsto a un livello compreso fra 102 e 102,5, possiamo concludere che mancano almeno 3 punti di Pil.
Che cosa sarebbe successo, e che cosa si sarebbe potuto fare, con 3 punti di Pil in più? Non mi pare molto azzardato rispondere che l’occupazione sarebbe cresciuta un pochino di più, e che almeno uno dei 3 punti di Pil «guadagnati» avrebbe potuto essere destinato al completamento della riforma delle aliquote (un’operazione che, come abbiamo visto nel capitolo sulla promessa fiscale, richiede più o meno un punto di Pil). In poche parole, se oggi il Pil fosse a livello 106 anziché a livello 103, anche la promessa occupazionale e la promessa fiscale risulterebbero onorate più o meno al 100%. Dunque Berlusconi potrebbe plausibilmente affermare di aver mantenuto 4 promesse su 5, ossia tutte eccetto quella sulla riduzione dei reati.
Lungi dal pensare che Berlusconi non sapesse quel che stava promettendo, o barasse pur di essere eletto, tendo a credere che il premier fosse praticamente certo di farcela con tutte e quattro le promesse «economiche», e avesse messo seriamente in conto il rischio di un fallimento solo sulla seconda promessa – quella di una «forte riduzione del numero di reati» – proprio perché essa è l’unica delle cinque su cui ben poco può l’azione di qualsiasi governo, almeno nel breve periodo e con una situazione di partenza come quella italiana (tribunali ingolfati, carceri sovraffollate).

La mia conclusione, dunque, è molto semplice. La sinistra ha pienamente ragione quando afferma che Berlusconi non ha onorato il contratto, ma sbaglia quando dice che il contratto era impossibile da rispettare, e sbaglia ancora di più quando si rifiuta di riconoscere quel che comunque è stato fatto (oltre il 60% delle promesse iniziali, secondo le nostre stime). Gli elettori delusi da Berlusconi, a loro volta, hanno tutto il diritto di chiedergli di rispettare almeno la «sesta promessa», quella di non ricandidarsi alle prossime elezioni, anche se bisogna riconoscere che anch’essi, come la sinistra, sottovalutano ampiamente il grado di mantenimento delle promesse. E Berlusconi?

A Berlusconi credo si possano rivolgere una domanda e un rimprovero. La domanda è stata formulata e ripetuta più volte soprattutto in ambienti confindustriali, ma è condivisa anche da una parte del mondo sindacale e dell’opposizione. Essa chiede in sostanza: siamo sicuri che le priorità indicate nel contratto fossero davvero le priorità degli italiani? E soprattutto siamo sicuri che quelle del contratto fossero le priorità del paese?
La Confindustria, in buona sostanza, pensa che le poche risorse disponibili sarebbero state meglio spese puntando a una consistente riduzione del costo del lavoro, in modo da far ripartire l’export e l’occupazione. A questa critica in qualche modo interessata molti osservatori indipendenti ne aggiungono un’altra, assai più severa: pochissimo è stato fatto in questi anni per rilanciare le liberalizzazioni, abolire gli ordini professionali, far decollare la riforma delle pensioni, promuovere il merito, ridurre gli sprechi nella pubblica amministrazione. Insomma il primo vero e duraturo governo di destra della storia repubblicana non ha fatto parecchie delle «cose di destra» che da esso era lecito attendersi, e che in quel momento sarebbero state utili al paese. Mentre ha fatto alcune «cose di sinistra» forse anch’esse utili al paese ma che ci saremmo aspettati da un altro tipo di governo: aumento delle pensioni, primo modulo della riforma fiscale, rafforzamento della spesa sociale, sanatoria per gli immigrati, deprecarizzazione del mercato del lavoro.
Sicché oggi l’elettore immune dalle ideologie si trova di fronte a un paradosso del tutto inedito: volendosi attenere all’esperienza delle ultime due legislature, dovrebbe votare a sinistra se desidera ritornare ad alcune politiche di destra e votare a destra se desidera conservare alcune politiche di sinistra.

La conseguenza principale del mix di politiche degli ultimi anni, fatto di modeste riduzioni fiscali e un po’ di politica sociale, è stata un considerevole peggioramento dei nostri conti pubblici, che fino al 2004 ha riguardato solo l’avanzo primario, mentre a partire dal 2005 ha pesantemente intaccato anche l’indebitamento netto, ossia il parametro fondamentale al fine del rispetto degli accordi di Maastricht. È verosimile che il primo atto del vincitore delle prossime elezioni politiche, chiunque esso sia, debba essere una pesante correzione dei conti pubblici.
Ma questi sono interrogativi che presuppongono una specifica visione del futuro del paese, una visione che punta sul rispetto delle regole, la promozione del merito, il contenimento dei privilegi corporativi, il primato dello sviluppo. Se cambia la visione, cambiano gli interrogativi, e cambia presumibilmente anche il giudizio sui meriti e demeriti di questi anni di governo. Quel che non cambia, tuttavia, è il rimprovero che ci sentiamo di rivolgere a Berlusconi, e che pensiamo non possa non essere sottoscritto da chiunque abbia un’idea alta e non partigiana della politica.
Se non siamo accecati dall’odio, a Berlusconi e al suo «contratto » possiamo tranquillamente riconoscere di non aver promesso l’impossibile, e comunque di aver reso più concrete, più chiare e quindi più verificabili le promesse dei politici. Ma con altrettanta nettezza a Berlusconi dobbiamo dire che questa esigenza di chiarezza, di trasparenza, e in definitiva di verità è stata alla fine da lui stesso largamente tradita. Non già perché il contratto non fosse chiaro, ma perché in almeno due punti fondamentali – le «altre tasse» e il debito occulto delle grandi opere – il contratto era incompleto, nel senso che non specificava gli «effetti collaterali » delle varie promesse. E poi, soprattutto, perché è del tutto inutile proporre un contratto chiaro se alla fine, anche di fronte alla più schiacciante evidenza empirica, non ci si vuole arrendere alla cruda verità dei fatti.
La pretesa di aver rispettato tutti gli impegni, recentemente ribadita nel solito salotto di Vespa e ossessivamente riproposta nei cartelloni della campagna elettorale, è un’offesa alla verità ma anche all’intelligenza degli elettori. Berlusconi potrebbe tranquillamente andare davanti al paese e dire: ho promesso 100, ho potuto fare poco più di 60 per questi e questi altri motivi. Lo potrebbe dire perché alcuni di quei motivi sono più che validi, perché i dati dimostrano che ha fatto molto di più di quanto ammetta la sinistra, e persino di più di quanto la gente creda. Invece, inspiegabilmente anche per molti dei suoi, Berlusconi preferisce negare l’evidenza, manipolare i fatti, distorcere la realtà.
Per un singolare contrappasso, il premier si trova a impersonare i peggiori difetti che, non senza qualche fondamento, da sempre imputa alla sinistra e ai media che la sostengono. Non dicendo tutta la verità, rende poco credibili anche le cose vere che dice.

Così l’avventura berlusconiana pare destinata a spegnersi nel più melanconico dei modi. Dopo anni di forzature istituzionali e di leggi ad personam, malamente e tardivamente «risolto» il conflitto di interesse, coloro che non hanno mai creduto all’innocenza del premier non possono che rinforzarsi nell’idea che ne hanno sempre avuto. Chi invece ha creduto in Berlusconi, o semplicemente lo ha voluto mettere alla prova, ora si trova di fronte alla doppia delusione di un premier che non ha mantenuto gli impegni, e per di più pretende di averlo fatto. Con ciò anche quel che di buono è stato fatto (o almeno tentato), in questi anni difficili, resta coperto dalla fitta coltre delle menzogne e delle ideologie, e rischia di restarlo fin quando ogni passione sarà spenta, e la parola sarà passata agli storici.
Questo libro è anche un tentativo di opporsi a una simile prospettiva, di non rassegnarsi senza combattere a una sorta di imperscrutabilità della politica.
Il contratto con gli italiani non era rivolto agli storici di domani, ma agli elettori di oggi. Prima del voto, è giusto che tutti noi torniamo su quel foglio di carta, con la mente lucida e il cuore sgombro dalle passioni. Il tempo è scaduto, ed è esattamente questo il momento di fare un bilancio.
 

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