Luca Ricolfi
Tempo scaduto
Il "Contratto con gli italiani" alla prova dei fatti
Fu incauto Silvio Berlusconi a firmare il «Contratto con gli italiani»? Era meglio seguire il consiglio di Andreotti, e firmare un contratto meno impegnativo? E soprattutto: quando firmava il contratto nello studio di Vespa, il futuro vincitore delle elezioni sapeva di non poter mantenere le promesse?
So bene qual è la risposta della maggior parte degli osservatori di sinistra, Scalfari in testa. Berlusconi è un demagogo, e come tutti i demagoghi racconta al popolo quel che il popolo desidera sentirsi raccontare. Nel 2001 sapeva perfettamente di non poter mantenere le promesse che faceva, ma le fece lo stesso perché vendere sogni è il mestiere che gli riesce meglio.
È giusta questa ricostruzione della storia del «Contratto con gli italiani»?
Secondo la maggior parte degli esponenti del centro-destra no, perché il governo Berlusconi si trovò di fronte una serie di ostacoli imprevisti, imprevedibili, e del tutto indipendenti dalla propria volontà: l’11 settembre, le guerre in Afghanistan e in Iraq, i grandi collassi finanziari (bond argentini, Cirio, Parmalat), la crisi dell’economia mondiale, il «buco di bilancio» lasciato in eredità dal centro-sinistra. Senza questi eventi negativi il contratto sarebbe stato onorato senza problemi. Dunque Berlusconi non è un venditore di fumo, e tenuto conto delle difficoltà in cui si è trovato ha fatto fin troppo. Dopotutto il governo prevedeva un tasso di crescita del 3,1% all’anno, mentre il tasso medio di crescita dell’economia durante la XIV legislatura è rimasto abbondantemente al di sotto dell’1%. Con un tasso di crescita che è risultato piuttosto vicino a zero, non si poteva pretendere che il governo onorasse il contratto al 100%, e nemmeno all’80% (4 promesse su 5).
In realtà c’è qualcosa che non va anche nel ragionamento dei difensori del premier. Innanzitutto perché nessun governo può assumere che la legislatura si svolga senza ostacoli, difficoltà e imprevisti. Alcuni ostacoli sono prevedibili, come le divisioni interne della maggioranza, o le resistenze che gli interessi costituiti inevitabilmente frappongono alle riforme che potrebbero lederli. Altri sono imprevedibili nel dettaglio e nella tempistica, ma vanno messi in conto ugualmente (come fa il buon capofamiglia con la voce «spese impreviste»: non sai quali saranno, ma sai che ogni anno ce ne sono). Altri ancora dipendono dal comportamento del governo stesso: è il caso dell’avventura irachena, o delle scelte di politica economica, che secondo diversi economisti potevano essere più efficaci.
C’è poi un’altra pecca nell’argomentazione dei difensori del premier. Nella primavera del 2001 alcuni dati negativi del quadro macroeconomico erano conosciuti: Berlusconi non poteva non sapere che l’economia mondiale era in frenata, né tanto meno ignorare il «buco di bilancio», che proprio i suoi consiglieri economici avevano denunciato prima della famosa puntata di «Porta a porta». E infine va detto che, proprio sulla base dei dati allora noti, una previsione di sviluppo dell’economia italiana a un tasso medio del 3,1% era alquanto irrealistica, e quindi il suo mancato realizzarsi non può certo essere annoverato fra gli eventi straordinari che avrebbero impedito di onorare il contratto.
In breve, chi dice che il contratto non poteva comunque essere rispettato sembra ignorare le avversità che il premier ha incontrato sulla propria strada, ma chi dice che il premier ha fatto fin troppo mette nel mazzo delle avversità anche eventi prevedibili, o non straordinari, o dipendenti dal premier stesso. Per stabilire la «sincerità», o meglio il realismo, della promessa di Berlusconi quel che dobbiamo tentare è un altro esercizio. Dobbiamo chiederci che cosa era realisticamente prevedibile nel 2001, e che cosa no. E se le cose davvero imprevedibili occorse durante la legislatura sono sufficienti a render conto del fallimento di Berlusconi.
La mia opinione personale è che due siano gli imprevisti genuini della XIV legislatura.
Il primo è l’entità dell’extra-deficit, o «buco di bilancio», dei conti pubblici nel 2001. Ai tempi della firma del contratto Renato Brunetta lo aveva stimato in circa 12 miliardi di euro, ossia più o meno un punto di Pil. Alla fine del lungo processo di revisione dei conti pubblici avvenuto nei primi anni della legislatura il suo ammontare è risultato più che doppio: 2,4 punti di Pil secondo le ultime stime Eurostat. In cifre, questo vuol dire che alle casse dello Stato sono mancati quasi 30 miliardi di euro, di cui circa 15 assolutamente imprevisti (e imprevedibili). Una cifra che, se allocata fin dall’inizio sul piano delle grandi opere, oggi lo renderebbe sostanzialmente «in orario». È il caso di ricordare, in proposito, che la nostra stima del grado finale di realizzazione della promessa sulle grandi opere è del 68,4% a fronte di stanziamenti effettivi dell’ordine di 25 miliardi di euro. Non è irragionevole pensare che con una dotazione aggiuntiva di 10 o 15 miliardi di euro non sarebbe stato affatto impossibile completare il restante 31,6% (naturalmente qui e nel seguito non stiamo discutendo dell’opportunità politica ed economica del piano, ma solo della sua fattibilità).
Ma c’è un secondo imprevisto genuino, che ha ostacolato gravemente l’azione di governo nell’attuale legislatura: la stagnazione dell’economia. È vero che una previsione di sviluppo dell’economia italiana al ritmo del 4% formulata nel 2001 era già allora decisamente implausibile, anche immaginando una rapida uscita dell’economia mondiale dalla crisi del 2000-1. Altrettanto vero, però, è che nessun economista era allora in grado di prevedere che l’intera zona euro sarebbe entrata in un lungo periodo di quasi stagnazione, che avrebbe portato il tasso medio di crescita dei paesi dell’unione monetaria molto al di sotto di quello sperimentato nella seconda metà degli anni ’90. Nella primavera del 2001 una previsione ragionevole e prudente poteva indicare, dopo l’uscita dalla congiuntura negativa, un tasso di crescita della zona euro analogo a quello del periodo precedente, magari accompagnato da una perdurante incapacità dell’Italia di colmare il ritardo rispetto alla media degli altri paesi dell’unione monetaria. In concreto questo significa un tasso di crescita prossimo al 2%, o all’1,5% se vogliamo indulgere al pessimismo. Immaginando un Pil perfettamente fermo fra il 2001 e il 2002, e un tasso medio di crescita appena decoroso (1,5%) nei quattro anni successivi, non era certo avventato ipotizzare un Pil di fine legislatura prossimo a 106, fatto 100 il livello del 2001. Poiché il Pil di fine legislatura è previsto a un livello compreso fra 102 e 102,5, possiamo concludere che mancano almeno 3 punti di Pil.
Che cosa sarebbe successo, e che cosa si sarebbe potuto fare, con 3 punti di Pil in più? Non mi pare molto azzardato rispondere che l’occupazione sarebbe cresciuta un pochino di più, e che almeno uno dei 3 punti di Pil «guadagnati» avrebbe potuto essere destinato al completamento della riforma delle aliquote (un’operazione che, come abbiamo visto nel capitolo sulla promessa fiscale, richiede più o meno un punto di Pil). In poche parole, se oggi il Pil fosse a livello 106 anziché a livello 103, anche la promessa occupazionale e la promessa fiscale risulterebbero onorate più o meno al 100%. Dunque Berlusconi potrebbe plausibilmente affermare di aver mantenuto 4 promesse su 5, ossia tutte eccetto quella sulla riduzione dei reati.
Lungi dal pensare che Berlusconi non sapesse quel che stava promettendo, o barasse pur di essere eletto, tendo a credere che il premier fosse praticamente certo di farcela con tutte e quattro le promesse «economiche», e avesse messo seriamente in conto il rischio di un fallimento solo sulla seconda promessa – quella di una «forte riduzione del numero di reati» – proprio perché essa è l’unica delle cinque su cui ben poco può l’azione di qualsiasi governo, almeno nel breve periodo e con una situazione di partenza come quella italiana (tribunali ingolfati, carceri sovraffollate).
La mia conclusione, dunque, è molto semplice. La sinistra ha pienamente ragione quando afferma che Berlusconi non ha onorato il contratto, ma sbaglia quando dice che il contratto era impossibile da rispettare, e sbaglia ancora di più quando si rifiuta di riconoscere quel che comunque è stato fatto (oltre il 60% delle promesse iniziali, secondo le nostre stime). Gli elettori delusi da Berlusconi, a loro volta, hanno tutto il diritto di chiedergli di rispettare almeno la «sesta promessa», quella di non ricandidarsi alle prossime elezioni, anche se bisogna riconoscere che anch’essi, come la sinistra, sottovalutano ampiamente il grado di mantenimento delle promesse. E Berlusconi?
A Berlusconi credo si possano rivolgere una domanda e un rimprovero. La domanda è stata formulata e ripetuta più volte soprattutto in ambienti confindustriali, ma è condivisa anche da una parte del mondo sindacale e dell’opposizione. Essa chiede in sostanza: siamo sicuri che le priorità indicate nel contratto fossero davvero le priorità degli italiani? E soprattutto siamo sicuri che quelle del contratto fossero le priorità del paese?
La Confindustria, in buona sostanza, pensa che le poche risorse disponibili sarebbero state meglio spese puntando a una consistente riduzione del costo del lavoro, in modo da far ripartire l’export e l’occupazione. A questa critica in qualche modo interessata molti osservatori indipendenti ne aggiungono un’altra, assai più severa: pochissimo è stato fatto in questi anni per rilanciare le liberalizzazioni, abolire gli ordini professionali, far decollare la riforma delle pensioni, promuovere il merito, ridurre gli sprechi nella pubblica amministrazione. Insomma il primo vero e duraturo governo di destra della storia repubblicana non ha fatto parecchie delle «cose di destra» che da esso era lecito attendersi, e che in quel momento sarebbero state utili al paese. Mentre ha fatto alcune «cose di sinistra» forse anch’esse utili al paese ma che ci saremmo aspettati da un altro tipo di governo: aumento delle pensioni, primo modulo della riforma fiscale, rafforzamento della spesa sociale, sanatoria per gli immigrati, deprecarizzazione del mercato del lavoro.
Sicché oggi l’elettore immune dalle ideologie si trova di fronte a un paradosso del tutto inedito: volendosi attenere all’esperienza delle ultime due legislature, dovrebbe votare a sinistra se desidera ritornare ad alcune politiche di destra e votare a destra se desidera conservare alcune politiche di sinistra.
La conseguenza principale del mix di politiche degli ultimi anni, fatto di modeste riduzioni fiscali e un po’ di politica sociale, è stata un considerevole peggioramento dei nostri conti pubblici, che fino al 2004 ha riguardato solo l’avanzo primario, mentre a partire dal 2005 ha pesantemente intaccato anche l’indebitamento netto, ossia il parametro fondamentale al fine del rispetto degli accordi di Maastricht. È verosimile che il primo atto del vincitore delle prossime elezioni politiche, chiunque esso sia, debba essere una pesante correzione dei conti pubblici.
Ma questi sono interrogativi che presuppongono una specifica visione del futuro del paese, una visione che punta sul rispetto delle regole, la promozione del merito, il contenimento dei privilegi corporativi, il primato dello sviluppo. Se cambia la visione, cambiano gli interrogativi, e cambia presumibilmente anche il giudizio sui meriti e demeriti di questi anni di governo. Quel che non cambia, tuttavia, è il rimprovero che ci sentiamo di rivolgere a Berlusconi, e che pensiamo non possa non essere sottoscritto da chiunque abbia un’idea alta e non partigiana della politica.
Se non siamo accecati dall’odio, a Berlusconi e al suo «contratto » possiamo tranquillamente riconoscere di non aver promesso l’impossibile, e comunque di aver reso più concrete, più chiare e quindi più verificabili le promesse dei politici. Ma con altrettanta nettezza a Berlusconi dobbiamo dire che questa esigenza di chiarezza, di trasparenza, e in definitiva di verità è stata alla fine da lui stesso largamente tradita. Non già perché il contratto non fosse chiaro, ma perché in almeno due punti fondamentali – le «altre tasse» e il debito occulto delle grandi opere – il contratto era incompleto, nel senso che non specificava gli «effetti collaterali » delle varie promesse. E poi, soprattutto, perché è del tutto inutile proporre un contratto chiaro se alla fine, anche di fronte alla più schiacciante evidenza empirica, non ci si vuole arrendere alla cruda verità dei fatti.
La pretesa di aver rispettato tutti gli impegni, recentemente ribadita nel solito salotto di Vespa e ossessivamente riproposta nei cartelloni della campagna elettorale, è un’offesa alla verità ma anche all’intelligenza degli elettori. Berlusconi potrebbe tranquillamente andare davanti al paese e dire: ho promesso 100, ho potuto fare poco più di 60 per questi e questi altri motivi. Lo potrebbe dire perché alcuni di quei motivi sono più che validi, perché i dati dimostrano che ha fatto molto di più di quanto ammetta la sinistra, e persino di più di quanto la gente creda. Invece, inspiegabilmente anche per molti dei suoi, Berlusconi preferisce negare l’evidenza, manipolare i fatti, distorcere la realtà.
Per un singolare contrappasso, il premier si trova a impersonare i peggiori difetti che, non senza qualche fondamento, da sempre imputa alla sinistra e ai media che la sostengono. Non dicendo tutta la verità, rende poco credibili anche le cose vere che dice.
Così l’avventura berlusconiana pare destinata a spegnersi nel più melanconico dei modi. Dopo anni di forzature istituzionali e di leggi ad personam, malamente e tardivamente «risolto» il conflitto di interesse, coloro che non hanno mai creduto all’innocenza del premier non possono che rinforzarsi nell’idea che ne hanno sempre avuto. Chi invece ha creduto in Berlusconi, o semplicemente lo ha voluto mettere alla prova, ora si trova di fronte alla doppia delusione di un premier che non ha mantenuto gli impegni, e per di più pretende di averlo fatto. Con ciò anche quel che di buono è stato fatto (o almeno tentato), in questi anni difficili, resta coperto dalla fitta coltre delle menzogne e delle ideologie, e rischia di restarlo fin quando ogni passione sarà spenta, e la parola sarà passata agli storici.
Questo libro è anche un tentativo di opporsi a una simile prospettiva, di non rassegnarsi senza combattere a una sorta di imperscrutabilità della politica.
Il contratto con gli italiani non era rivolto agli storici di domani, ma agli elettori di oggi. Prima del voto, è giusto che tutti noi torniamo su quel foglio di carta, con la mente lucida e il cuore sgombro dalle passioni. Il tempo è scaduto, ed è esattamente questo il momento di fare un bilancio.