La Merkel come agente doppio (1 Viewer)

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La Merkel come agente doppio
Maurizio Blondet <http>
15/01/2007

Il papà era ufficialmente un pastore luterano, ma dal cognome molto ebraico: Horst Kasner. E così la mamma, Herlind Jentzchs, che aveva un nonno «polacco».
Una strana coppia, quella che dà la luce ad Angela Merkel nel 1954 ad Amburgo, ossia in Germania occidentale; perché poco dopo papà Kasner si trasferisce per scelta nella Germania comunista.
Dove non solo ha il permesso di fondare un seminario luterano, ma gode di uno statuto sociale privilegiato: possiede due auto e gli è consentito di viaggiare quando vuole in Occidente.
Così Reseau Voltaire comincia una biografia ragionata della cancelliera tedesca e presidente pro-tempore della UE, nonché eroina dell'iper-capitalismo filo-americano: in breve, quella che emerge è la figura di un agente doppio.
Merkel è il nome del suo primo marito, un fisico che incontrò mentre studiavano insieme, e da cui ha divorziato - preferendo però mantenerne il nome, non ebraico.
Dopo si è accasata, ma non sposata, con Joachim Sauer, altro nome spiccatamente israelita.
Ma quel che più conta, è che Angela si iscrive giovanissima alla SED, il partito comunista della Germania Est: ben decisa a dedicarsi alla politica e a far carriera nel regime.
Difatti, grazie al suo zelo ed intelligenza, sale rapidamente ai massimi gradi dell‚organizzazione giovanile del partito, la Freie Deutsche Jugend: al punto da divenirne segretaria del dipartimento «agitazione e propaganda».
Una carica che non si affidava se non a persone la cui lealtà era stata vagliata dalle indagini della STASI.
E di fatto, c‚è chi dice che il promotore della sua brillante carriera comunista sia stato Marcus «Misha» Wolf, il leggendario israelita capo dello spionaggio di Pankow.
C‚è anche chi giura di averla incontrata, giovane e piacente, come «intrattenitrice» di dirigenti stranieri nei «festival della gioventù socialista» ed in altre occasioni di solidarietà socialista.
Il sospetto che riferisse le intime confidenze ottenute alla STASI, viene da sé. Ma questi sono pettegolezzi.

Più concreti i fatti: Angela diventa uno dei principali esperti di «comunicazione politica» della dittatura socialista.
Parla perfettamente il russo.
Viaggia, sia come scienziata (ha una brillante laurea in fisica) sia come funzionario politico, in tutti i Paesi del blocco sovietico.

Una comunista di ferro.
Nel 1989, cade il Muro di Berlino: Markus Wolf, che sapeva tutto prima, si è ritirato di sua volontà da tre anni dalla carica di capo della Stasi, che aveva fondato lui stesso nel 1953, per occuparsi - inopinatamente - di cinema (aveva un fratello regista di regime).
Più tardi, dirà di aver ricevuto e rifiutato dalla CIA un'offerta golosa: lavorare per loro, con cambio di nuova identità e villa in California.
Certo è che la CIA, in quei mesi febbrili della «libertà», deve essere andata a pesca di agenti capaci, e di colpo disoccupati. Stesso lavoro di prima, nuovo padrone.
Ed ecco che Angela Merkel, a un mese dal crollo del Muro, abbandona la fede comunista e passa armi e bagagli nel Democratische Aufbruch (Risveglio Democratico), neonata formazione che si ispira alla democrazia cristiana tedesco-occidentale.
Ricomincia una nuova carriera? Deve rifare la gavetta? No, niente affatto.
Immediatamente è insediata nelle stesse funzioni di quand‚era socialista: nel Dipartimento agitazione e propaganda, che ora però ha il nome più pluralista di «incaricata ai rapporti con la stampa».
Stesso lavoro sotto altri padroni.
O forse nuovo lavoro (infiltrazione) per i vecchi padroni, chi può dirlo?
Ma una cosa si può dire: salta fuori che il fondatore e presidente del nuovo e democristiano «Risveglio Democratico», Wolfgang Schnur, è un vecchio collaboratore della STASI.
E‚ la stessa Merkel a dare la dolorosa notizia: ciò che costringe Schnur a dare le dimissioni («bruciato», si dice nel gergo) e permette a lei di prendere la posizione di presidente del movimento.
In tempo per le prime elezioni democratiche nell'ex-Germania Est.
La Democratische Aufbruch della Merkel si presenta: prende un miserevole 0,9 % dei voti. Ma, come ben sappiamo noi italiani a proposito del partito radicale, i pochi voti non sono tutto nella vita, quando si hanno amici importanti dietro le quinte.
Difatti, la Merkel diventa la portavoce («agitazione e propaganda», come prima) del governo di Lothar de Maizière, democristiano ed ultimo premier della repubblica dell'Est, che si prepara alla fusione con l'Ovest.

E a guidare la fusione è la Merkel, che partecipa in prima persona (con lo 0,9 %) ai negoziati «2+4», quelli che mettono fine allo status di Berlino come città occupata (dai «4» alleati della seconda guerra mondiale) e getta le basi per la riunificazione.
E' lei ad affrettare l'entrata dell'economia post-comunista nel «mercato libero» e nell'area del marco.
Un'esperienza fondamentale a contatto con gli alleati occidentali, che non mancano di valutarne le doti di liberista.
Intanto al compagno della sua vita, Joachim Sauer, viene offerta un'altra esperienza importante nel mondo libero: è assunto dalla ditta americana Byosim Technology, che lavora per il Pentagono. Passa un anno a San Diego a fare esperienza, poi viene assunto, sempre a San Diego, dalla Accelrys, altra contrattista del Pentagono.
Questa circostanza tra l'altro facilita la Merkel nel suo perfezionamento della lingua inglese, visto che va e viene da Berlino alla California.
Nella Germania ormai unificata, la Democratische Aufbruch confluisce nella CDU, il potente partito democristiano occidentale di Elmuth Kohl.
Immantinente, la Merkel (che pure porta quello 0,9 % di voti, mica tanti) viene eletta deputata al Bundestag ed entra subito nel governo Kohl: ministro della Famiglia (lei divorziata e concubina), della Gioventù (lei senza figli) e della Condizione Femminile (lei esperta di femminilità d'intrattenimento).
Sono passati nemmeno 14 mesi, commenta Reseau Voltaire, e la ex-responsabile «agitazione e propaganda» della gioventù comunista è perfettamente riciclata e già ministra nel «mondo libero»: imparate, o giovani, come nel capitalismo avanzato una fanciulla senza santi in paradiso possa far carriera, armata solo della sua intelligenza e volontà. E' il mercato, ragazzi.
Accade che Lothar de Maizière, divenuto nel frattempo presidente nazionale della CDU, viene smascherato come un collaboratore della STASI: anche lui bruciato, deve dimettersi. Chi lo rimpiazza? Angela, naturalmente. Lei, la democratica, la faccia pulita che mai ha avuto un rapporto con la STASI.

Ben presto Kohl prende a ben volere la ragazza. E la nomina ministra della Protezione della Natura e della sicurezza nucleare, approfittando del fatto che il precedente titolare del ministero, Klaus Toepfer, è passato all'ONU al direttorato per l'Ambiente dopo uno scontro con le Camere di commercio e le industria tedesche (promoveatur ut amoveatur). La Merkel arriva al ministero e immediatamente lo purga di tutti i funzionari fedeli al suo predecessore. In attesa dell'occasione propizia per un nuovo avanzamento di carriera.
L'occasione si presenta nel 1998. Elmuth Kohl commette un errore: si dichiara contrario all'intervento NATO nel Kossovo, fortemente voluto dagli ultrasinistri (Joscha Fischer e Schroeder dipingono Milosevic come il nuovo Hitler: oggi è il turno di Ahmadinejad).
La libera stampa anglo-americana attacca Kohl per il disastro economico «che avrebbe provocato con la riunificazione».
Alle elezioni, vincono Fischer e Schroeder (i rossi e i verdi).
Come per incanto, giudici onestissimi scoprono che Kohl, o i suoi della CDU, hanno accettato mazzette da occulti finanziatori; Kohl si rifiuta di farne il nome. Scoppia «Mani Pulite» alla tedesca.
Angela Merkel pubblica su Frankfurter Allgemeine, il 22 dicembre Œ99, un articolo dove prende ostentatamente le distanze da Kohl, che tanto l'ha delusa. Kohl si deve ritirare dalla vita politica.
La CDU nella bufera non trova di meglio che affidarsi alla sola intoccata dallo scandalo: Angela, naturalmente. Ormai presidente del partito, Angela si ricorda che è un partito cristiano: e sposa il suo ebreo Sauer in nozze regolari. Berlino val bene una messa, si potrebbe dire. Da quel momento, la strada è facile e piana.
Anche perché, come nota Thierry Meyssan, Angela ha il sostegno del gruppo editoriale Springer (180 fra quotidiani e periodici) e del gruppo Bertelsman.

Sono due potenze editoriali e molto «atlantiche», fiduciari del Bilderberg: i giornalisti di Springer devono firmare, al momento del contratto d'assunzione, una clausola che li impegna ad «operare per lo sviluppo dei rapporto trans-atlantici» nonché, chi l'avrebbe mai detto, «per la difesa di Israele». Ora il suo mentore è Jeffrey Gedmin.
Un americano che è divenuto direttore dell'Aspen di Berlino, che ha lavorato per l'American Enterprise (di Richard Perle e Wolfowitz) e per il PNAC (Project for a New American Century), gli enti israelo-americani già tante volte citati come promotori della «guerra al terrorismo globale» dopo l‚11 settembre.
Amico personale di John Bolton, Gedmin ha rifiutato di diventare suo braccio destro all'ONU per stare vicino ad Angela e prepararla al luminoso futuro che l‚attende.
Secondo Meyssan, Gedmin svolge nel 2003 un vasto programma di «diplomazia aperta» americana, comprese «sovvenzioni segrete a giornalisti» e media in Europa Occidentale. E‚ ancora una volta la specialità di Angela, «agitazione e propaganda».
Difatti in quello stesso anno, quando Schoreder si rifiuta di lanciare soldati tedeschi nel calderone iracheno, Angela Merkel scrive un articolo in cui prende le distanze dal neutralismo di Schroeder e di Chirac, proclama la sua gratitudine e fedeltà all'America, e dice il suo sì alle guerre di Bush.
Per lei, grida, il sogno di un'Europa indipendente dagli USA è una sciocca e irrealizzabile ambizione.
«Schroeder non parla per tutti i tedeschi», inneggia il titolo del suo pezzo: pubblicato direttamente, stavolta, dal Washington Post (20 febbraio 2003). Poi, la campagna elettorale del 2005. La CDU è favorita.
Ad Angela dà manforte Gedmin, che in un articolo su Die Welt critica il sistema economico tedesco, il modello renano e sociale, e con una frase rivelatrice: «Se [in Francia] Sarkozy succede a Chirac, la Francia può conoscere una ripresa. Sarebbe deplorevole che la Germania continuasse a regredire».
In risposta, la Merkel rivela finalmente i suoi piani di cancelliera futura: iniezioni di liberismo, meno previdenza sociale, troncare i sussidi di disoccupazione, tassazione con un solo scaglione, non più progressiva.
Il vantaggio della CDU declina subito: alla fine, Schroeder perderà col 34 % dei voti, la Merkel vincerà, se così si può dire, col 35 %.

E‚ un po‚ quel che succede in Italia, con la vittoria di Prodi quasi identica a quella di Berlusconi.
In Germania si deve formare la «grande coalizione», destra-sinistra, per fare «le riforme»; in Italia, inutilmente la chiede il Cavaliere.
Per ora niente. Ma chi può dirlo: anche da noi si affollano comunisti riciclati e candeggiati, desiderosi di provare il loro liberismo, e la loro amicizia per Condy Rice. La Merkel nella UE, di sicuro, aiuterà.
Un grazie a Thierry Meyssan per aver fornito queste informazioni preziose, che formano un quadro assai preciso della ragazza e della sua azione.
Così, almeno, non saremo colti di sorpresa.

Maurizio Blondet

Note
1) Thierry Meyssan, «Angela Merkel, une néo-conservatrice à la presidence de l‚Union Européenne», Reseau Voltaire, 12 gennaio 2007.


esteri
Pechino si inchina ad Olmert
Maurizio Blondet
16/01/2007
Ehud Olmert e Wen Jiabao durante l'incrontro del 10 gennaio a Pechino.

Mentre Ahmadinejad incontrava Chavez (essenzialmente, per concertare un taglio delle estrazioni OPEC onde rialzare il prezzo del greggio, mantenuto artificialmente basso dalle manipolazioni di Goldman Sachs), un‚altra visita di Stato avveniva dalla parte opposta del pianeta: Ehud Olmert è stato ricevuto con tutti gli onori a Pechino dal premier Wen Jiabao. (1)
E il cinese ha esplicitamente condannato l‚Iran per il suo atteggiamento di sfida all‚ONU.
«La risoluzione 1737 [quella che impone a Teheran di interrompere l‚arricchimento di uranio], adottata all‚unanimità dal consiglio di Sicurezza, riflette le preoccupazioni della comunità internazionale a proposito della questione nucleare iraniana», ha detto il cinese.
Olmert quasi non credeva alle proprie orecchie.
«Ho ascoltato molte cose sorprendentemente positive», ha dichiarato ai giornali pechinesi:
«Il premier Wen ha chiarito in modo assoluto l‚opposizione cinese alla bomba atomica iraniana».
La visita del governante sionista a Pechino era l‚ultima tappa del tour nelle capitali dei cinque membri permanenti dell‚ONU (Londra, Parigi, Mosca e Washington) per spingere i cinque «grandi» ad aumentare le pressioni sull‚Iran.
Sulla Cina, si può credere che l‚ebreo abbia poca influenza.
Ma l‚incontro è avvenuto all'indomani della visita a Pechino di Ali Larjani, il negoziatore iraniano sulla questione nucleare.
Ed anche a lui i capi del PC cinese hanno sottolineato che la risoluzione ONU 1737 esprime preccupazioni «condivise», dunque non solo americane.
Insomma la nomenklatura pechinese ha dato un sostegno ragguardevole, e deliberato, alla posizione estremamente ostile di Bush, che nell‚ultimo suo discorso ha apertamente minacciato l‚Iran indicandolo come il nemico prossimo da abbattere.
Tanto più che la Merkel alla presidenza UE, e Sarkozy prossimo probabile presidente a Parigi, preludono ad un mutamento delle posizioni europeee: assai meno conciliante verso Teheran, e assai più neocon.


Ora Bush ha la concreta possibilità di isolare Mosca nel consiglio di Sicurezza, mentre si avvicina la scadenza (marzo) in cui si dovrà constatare se la Risoluzione 1737 è stata violata.
Non c‚è dubbio che l‚atteggiamento di Teheran, e di Larjani, debba aver irritato i cinesi.
Dopo la visita di Larjani, il capo della commissione Esteri del Majlis (il parlamento iraniano), Alaeddin Broujerdi, ha dichiarato all‚agenzia ufficiale persiana: «Ci aspettiamo che Mosca e Pechino mostrino più forza, potere e indipendenza? Ci aspettiamo che usino il loro potere di veto come dimostrazione della loro forza e indipendenza, come fanno invariabilmente gli USA in questioni riguardanti il regime sionista».
Eppure proprio un rapporto del Majlis, nell‚aprile 2006, aveva valutato che Pechino non avrebbe spinto il suo appoggio a Teheran fino al gelo con Washington.
Le due economie, quella americana e quella del gigante asiatico, sono troppo intrecciate: il creditore (Cina) detiene troppi dollari del debitore per potersi permettere un suo fallimento.
Gli scambi tecnologici e commerciali sono intensissimi.
I due Paesi sono alleati di fatto in economia, e in politica mondiale non così distanti come pare. Dopotutto, la Cina vuol giocare la parte - a cui Washington la invita - di «partner responsabile» e rispettabile.
Non ha interessi che la inducano a contrastare l‚America ed Israele sulla questione palestinese, né ideologici né - quel che oggi conta - economici.
In Libano, Pechino ha già aiutato gli americani ad ottenere la risoluzione ONU che esige il processo internazionale per l‚omicidio di Hariri.
Si aspetta un aiuto altrettanto discreto contro la sua minoranza musulmana interna, i 150 milioni di uiguri turcofoni, ove fosse necessaria una sanguinosa repressione.


La nomenklatura non ha alcuna simpatia ideologica per il mondo islamico.
D‚altra parte, il 13 % delle importazioni cinesi di greggio vengono dall‚Iran, e i cinesi stanno investendo nell‚economia iraniana, anche a lungo termine: ma sempre sotto condizione di un atteggiamento più conciliante di Teheran.
L‚Iran ha presunto troppo circa la sua importanza come fornitore di Pechino.
La Cina ha una relazione sempre più stretta con l‚Arabia Saudita (con scambi di visite al massimo livello in soli quattro mesi), e conta sui sauditi per riempire le quattro riserve strategiche energetiche che progetta di costruire nel territorio cinese, e che dovranno soddisfare un mese di importazioni petrolifere dal prossimo anno, e fino a tre mesi entro il 2015.
Non solo Pechino importa dai sauditi più che dall‚Iran (17 %), ma sa che l‚Arabia può, al bisogno, pompare più petrolio del consentito dall‚OPEC, per riempire le riserve in accelerazione se necessario.
Per questo Pechino ha investito miliardi di dollari nel petrolchimico arabo.
Ed è sensibile all‚allarme saudita - acutissimo - sull'emergenza della «mezzaluna sciita» egemonizzata dall‚Iran.
Tutto questo conduce ad una convergenza ambigua verso le posizioni israelo-americane.
Come nota l‚ambasciatore Bhadrakumar, nel discorso di Bush sull‚escalation in Iraq ha avuto posto un appello a «Paesi come l‚Arabia Saudita, l‚Egitto, la Giordania e gli Stati del Golfo a capire la minaccia strategica alla loro sopravvivenza».
Sullo sfondo di questa frase, Bhadrakumar intravede una strategia in cui questi Paesi sunniti potrebbero - su mandato Onu - inviare una forza multinazionale della Lega Araba che, col pretesto di «proteggere i sunniti iracheni», terrebbe a freno l‚avanzata sciita e consentirebbe alle truppe USA di alleggerire la loro presenza in Iraq.


Più a fondo ancora, c‚è l‚interesse cinese per gli armamenti sofisticati e le tecnologie che Israele può fornire a Paesi «amici».
Armamenti e brevetti americani, che sarebbero vietati a Pechino, possono essere ottenuti attraverso lo Stato ebraico.
L‚Iran farebbe meglio a non illudersi.
Se l‚attacco contro le sue installazioni avverrà - ad aprile secondo «Arab Times», o ad agosto secondo voci dei servizi israeliani - i vecchi comunisti cinesi diventati capitalisti e garanti del «nuovo ordine mondiale» non saranno certo dalla loro parte.
Sul piano metastorico sarebbe strano il contrario: ci sarebbe da stupirsi se un regime ripugnante come quello cinese, alla resa dei conti o all‚Armageddon, non stesse dalla parte dei peggiori.
A fianco delle potenze «huius mundi».

Maurizio Blondet

Note
1) M. K. Bhadrakumar, «China‚s Middle East journey via Jerusalem», Asia Times, 13 gennaio 2007.


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