La Mala del Brenta (1 Viewer)

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avete visto il film su SKY ? devo dire che conoscevo poco la storia di felice maniero, e ne sono rimasto a dir poco turbato. alla fine ha girato il 41 bis a suo favore e se l'è cavata con 17 anni di carcere a fronte di delitti incredibili.

Sapete cosa fa oggi ?
 

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Felice Maniero

Maniero e la Mafia in veneto

di Lorenzo Frigerio

La presenza della criminalità mafiosa in Veneto fu ufficialmente ammessa soltanto nel corso dell'ultimo decennio. Fino ad allora si sostenne che la regione fosse tutt'al più affetta da fisiologici problemi di criminalità locale. Agli inizi degli anni Ottanta, la vertiginosa ascesa della "mala del Brenta" e la contemporanea scoperta dei traffici di armi e droga e delle operazioni di riciclaggio delle cosche furono le drammatiche realtà in cui si imbatterono improvvisamente le forze dell'ordine e l'opinione pubblica.





Anni Sessanta-Settanta: l'apprendistato criminale con la mafia siciliana
Così come è accaduto per Lombardia e Toscana, la diffusione del modello criminale mafioso fu dovuto essenzialmente alla presenza, anche se non particolarmente nutrita rispetto ad altre regioni, dei membri delle cosche, in esecuzione di un provvedimento di soggiorno obbligato. La maggior parte dei mafiosi che soggiornarono in Veneto proveniva dalle fila di Cosa Nostra: tra i nomi più noti, Salvatore Contorno, Gaetano Fidanzati, Antonino Duca e Gaetano Badalamenti. Cresciuti alla scuola criminale dei siciliani nel periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, i malavitosi veneti, nei due decenni successivi, s'imposero autonomamente e si distinsero per la ferocia e l'abilità nel controllare i traffici criminali transitanti nella regione.
Sempre negli stessi anni, fu convogliata verso il Veneto un'ingente quantità di denaro sporco, proveniente dai numerosi traffici illegali delle mafie e destinato a costruire ed alimentare un sofisticato circuito di riciclaggio, che s'innestò in modo parassitario sul sistema economico legale di una regione tra le più produttive e all'avanguardia dell'intero paese.

Anni Ottanta: esordio con rapine e sequestri per Maniero
Il più clamoroso esempio della capacità di assimilare il modello mafioso e di calarlo nella realtà veneta fu costituito dalla cosiddetta "mala" o "mafia del Brenta". Rapine, sequestri di persona, traffici di droga ed armi, estorsioni: furono queste le principali attività dell'organizzazione guidata dal veneziano Felice Maniero e con basi logistiche nella Riviera del Brenta, tra Venezia e Padova.
Nei primi anni di attività, gli uomini di Maniero misero a segno gli spettacolari colpi all'Hotel "Des Bains" al Lido di Venezia (1982) e alla stazione ferroviaria di Mestre (1982) e furono i protagonisti del celebre assalto all' aeroporto di Venezia (1983): i 170 chili di oro rubato presso il caveau della dogana aeroportuale sancirono, infatti, la definitiva consacrazione della banda veneta nel panorama criminale. La mala del Brenta dimostrò la sua potenza, portando a termine contemporaneamente i sequestri Rosso Monti, Andreatta e Bonzado.
La terribile fama guadagnata sul campo dal sodalizio criminale veneto si alimentò ulteriormente negli anni successivi: sfruttando abilmente una serie di accordi stipulati con le cosche mafiose per la gestione dei proventi criminali nel nord est, oltre alle rapine, gli uomini di Maniero si dedicarono con profitto al traffico di droga, al controllo del gioco d'azzardo clandestino e al rafforzamento delle pratiche dell'estorsione e dell'usura.

Anni Ottanta-Novanta: la Mala del Brenta, una organizzazione mafiosa
In diverse circostanze, la mala del Brenta diede prova di sapere esercitare un efficace controllo del territorio, imponendo la propria legge. Nel periodo di massima potenza, l'organizzazione, composta inizialmente da una quarantina di elementi, arrivò a contarne quasi quattrocento, tra effettivi e fiancheggiatori a vario titolo. I successi criminali della mafia del Brenta furono possibili grazie alla riuscita integrazione al proprio interno di elementi locali e di esponenti delle tradizionali cosche e grazie anche all'adozione di un modello organizzativo e comportamentale tipicamente mafioso, compresa l'eliminazione di testimoni scomodi e di membri della banda divenuti inaffidabili. Nonostante i numerosi arresti, compreso quello dello stesso Maniero, e una feroce faida interna per la supremazia, scoppiata durante la sua carcerazione, gli affari per la mala del Brenta non subirono flessioni. Dalle carceri di massima sicurezza e dai suoi nascondigli di latitante, "Faccia d'Angelo" continuò a dirigere le operazioni e le attività dei suoi uomini. Sul finire degli anni Ottanta, alle molte attività della banda si aggiunse anche il contrabbando di armi con la ex Iugoslavia, grazie al rapporto di amicizia stretto tra Maniero e il figlio di Franjo Tudjman, destinato poi a diventare il presidente della repubblica croata.
Durante il processo, che si aprì il 27 novembre 1993 nell'aula bunker di Mestre e che vide alla sbarra Maniero insieme ad altri 109 imputati, fu ricostruito l'intero percorso criminale della mala del Brenta e furono circostanziate accuse pesantissime: dagli omicidi alle rapine, dalle estorsioni e l'usura al riciclaggio, dal traffico di eroina ai sequestri di persona, per finire con l'accusa più grave, e per certi versi esaustiva, di associazione mafiosa.
Le condanne nei confronti dei membri della mafia del Brenta furono esemplari e l'organizzazione fu spazzata via, grazie soprattutto alle rivelazioni di Maniero che fece arrestare più di trecento persone.

Anni Ottanta - Novanta: Verona, la "Bangkok italiana"
Dagli inizi degli anni Ottanta oggetto di attenzioni criminali mafiose, nel giro di una quindicina di anni, Verona diventò un punto di snodo dei traffici di droga così cruciale da conquistarsi il triste soprannome di "Bangkok d'Italia". A rendere la città scaligera una piazza strategica per il circuito del narcotraffico europeo contribuì in primo luogo la sua posizione geografica nevralgica, perché centrale lungo le rotte dell'est, del Mediterraneo e del nord Europa; in secondo luogo furono rilevanti gli accordi stipulati tra le mafie italiane e le associazioni criminali mediorientali, su tutte la mafia turca, per il passaggio attraverso gli stessi canali, oltre che della droga, anche di armi leggere e pesanti, di componenti per la fabbricazione di ordigni nucleari e di segreti dell'industria bellica.
All'interno di questo patto trovarono spazio numerosi soggetti, in gran numero incensurati e insospettabili, che, singoli o associati con altri criminali, si dedicarono allo spaccio al minuto dell'eroina turca, dell'hascisc e della cocaina colombiana che le organizzazioni siciliane, campane e calabresi fornivano loro, disinteressandosi completamente delle modalità di organizzazione del traffico e ritagliandosi invece ampi margini di utili.
Questo scenario davvero inquietante venne alla luce quando, dopo molti mesi di minuziose indagini, in data 14 giugno 1994, scattò a Verona, e contemporaneamente negli altri capoluoghi veneti e in tutta Italia, una vasta operazione delle forze dell'ordine che portò all'esecuzione di 183 mandati di cattura, di cui 66 in carcere. L'operazione "Arena", che scompaginò le fila di questa rete di narcotrafficanti, fu possibile grazie allo sviluppo delle intuizioni investigative che furono alla base della famosa indagine avviata un decennio prima da Carlo Palermo, giudice istruttore di Trento, il quale, nello svelare i meccanismi e i retroscena degli scambi tra droga ed armi, individuò Verona tra le città coinvolte nel traffico.
 

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Maritan, il boss del Veneto Orientale:
«Se trovo Maniero lo ammazzo»


L'inventore dello spaccio sul litorale non è l'unico a volere
la morte di Faccia d'Angelo: ci sono anche Sorgato e Rizzi



di Maurizio Dianese

VENEZIA - Niente da fare, non gli è passata. Silvano Maritan ce l’ha ancora a morte con Felice Maniero. Nel senso letterale del termine. «Se me lo trovassi di fronte, lo ammazzerei». Seguono particolari truculenti sul metodo utilizzato. Ovviamente lo farebbe a mani nude, sbattendogli la testa su uno spigolo. Una boutade? Un po' sì, ma anche no.

Maritan già nel 1995 aveva mezza intenzione di accogliere la proposta di alcuni componenti della banda di far fuori Maniero. Il boss della Mala del Brenta era latitante dopo la fuga dal carcere di Padova, ma i suoi uomini non si fidavano più di lui e avevano deciso di ammazzarlo. Maritan era stato invitato a partecipare all’eliminazione di Maniero per poi prenderne il posto. L’operazione non andò in porto perchè Maniero pochi giorni dopo venne arrestato a Torino. Ma Silvano Maritan non se l’è proprio messa via, nonostante siano passati un bel po’ di anni.

Maritan, il boss della mala del Veneto Orientale, l’uomo che ha inventato lo spaccio di cocaina sul litorale veneziano, è stato intervistato da History Channel per il documentario che racconta la storia vera della Mala del Brenta di Felice Maniero. Della banda di Maniero, Silvano Maritan è stato un componente di spicco e per un certo periodo ne è stato addirittura il capo - quando Maniero era detenuto a Fossombrone. Curioso che ce l’abbia con Maniero, visto che l’ultima volta che è finito dentro è avvenuto per traffico di droga e con quell’episodio Maniero non c’entra niente. Ma Maritan è convinto - e non è l’unico - che Maniero sia all’origine di tutti i suoi mali giudiziari.

Anche Gilberto Sorgato, detto Caruso, ce l’ha con Maniero, eppure i due si sono conosciuti quando avevano i calzoni corti e insieme ne hanno combinate di tutti i colori. «Non so perchè mi abbia tirato in ballo per una storia di droga» - si lamenta Sorgato nel documentario di History Channel che è andato in onda subito dopo la prima puntata della fiction dedicata a Faccia d’angelo.

Non parliamo poi di Alessandro Rizzi. Anche lui odia a morte Felice Maniero e ne parla in modo spregiativo. «Chi si credeva di essere? Veniva a fare rapine qui a Venezia, che è casa mia e pretendeva di comandare». Maniero gli ha ucciso i fratelli - Maurizio e Massimo - che a loro volta avevano fatto fuori il "Marziano", al secolo Giancarlo Millo. La decisione di far fuori Millo è tutta loro, non hanno chiesto l’autorizzazione a Maniero e con quell’omicidio firmano la propria condanna a morte.

L’omicidio dei Rizzi mette nei guai anche Silvano Maritan, accusato da Maniero di aver partecipato alle riunioni preparatorie dell’assassinio dei fratelli. Maritan ha sempre negato, però i Tribunali non gli hanno creduto e lo hanno condannato. Prima ancora che arrivasse la sentenza definitiva, Maritan, in libertà, era stato arrestato di nuovo per traffico di sostanze stupefacenti. Ed è da quando è in galera - anzi, a dir la verità anche da prima - che Maritan si professa innocente di alcuni reati e punta ad "incastrare" Maniero. Non c’è riuscito negli ultimi vent’anni, ma questo non significa che se la sia messa via.

Chi invece è grato a Maniero è Giuseppe Di Cecco, un ex brigatista rosso che è stato intervistato per la prima volta nella storia da History Channel per il documentario curato in modo impeccabile dal regista Alessandro Garramone. Di Cecco fugge dal carcere di Fossombrone - nel dicembre 1987 - insieme a Maniero. Una fuga da film, attraverso le vecchie fognature del carcere.

Di Cecco partecipa con Maniero al rapimento di Donato Agnoletto, il responsabile della Cooperativa di Vigilanza privata. I banditi lo portano via da casa, abitava a Mestre in via Manin, con la figlia e la moglie incinta. Agnoletto viene portato in un capannone, lo vogliono costringere ad aprire il caveau. Agnoletto è preoccupato, teme che lo vogliano uccidere, insieme alla sua famiglia, e strappa una pistola a un bandito. C’è una sparatoria e Agnoletto viene colpito. Si salva per miracolo, ma le pallottole fanno meno danni dello Stato e della Giustizia, che non riescono ad assicurargli né la condanna per tentato omicidio dei suoi rapitori né un indennizzo decente dopo anni di ospedale, un polmone traforato e una epatite C contratta per le trasfusioni. Ma questa è un’altra storia e Maniero non c’entra.
 

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Oggi, Felice Maniero è un uomo libero e un indaffarato imprenditore. Ha scontato i 17 anni di carcere e può girare senza più alcun vincolo per l’Europa, può fare affari dove più gli pare, anche in quella Croazia dove negli anni d’oro era di casa, vantando un’amicizia particolare con il figlio dell’allora presidente nazionalista Franjo Tudjman. Ha cambiato identità, ma il volto, anche se un po’ più invecchiato, è sempre quello di «faccia d’angelo», del boss che ancora giovanissimo faceva affari con i più importanti «uomini d’onore» di Cosa nostra al Nord come Gaetano Fidanzati, Salvatore Enea (l’uomo ponte tra la mafia siciliana e la Banca Rasini di Milano), Alfredo Bono, che ha contribuito a esportare la mafia a Milano e, infine, con Mario Plinio D’Agnolo, il braccio destro di Francis Turatello. Con un’organizzazione di diverse centinaia di uomini, Felice Maniero ha tenuto in scacco il nordest per vent’anni con rapine miliardarie, evasioni spettacolari, sequestri di persona, omicidi, traffici di droga e di armi. Tanto controversa è stata la sua carriera criminale (come mai ha potuto delinquere per tutto quel tempo? È stato coperto da qualcuno?) quanto chiacchierata la sua scelta di collaborare con lo Stato. Oggi dice di essere tranquillo, di sapere di aver pagato poco per quello che ha fatto. Sa che sono in molti a volerlo morto. Ma con la solita sfrontatezza, dice: «Mi vogliono uccidere? Avranno l’acquolina in bocca ma non temo la morte».
 
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"LA PADANIA" 30 settembre 1998 articolo di MAX PARISI
http://www.lapadania.com/1998/settembre/30/300998p10a2.htm (curioso... il link non funziona più... pagina scaduta....)

Alle volte solo i nemici conoscono bene le loro controparti.
Per di più la banca Rasini quando venne assorbita come istituto di credito indovinate presso che banca finì? La Banca Popolare di Lodi, che ora è in tutte le cronache. Curiose coincidenze.
"Dopo le Holding del mistero, "salta" un altro tappo: la Banca Rasini
L’istituto di "famiglia" passato al setaccio"
La nostra inchiesta sul mistero Berlusconi continua a procedere.
Innanzitutto una notizia scivolata via dalla grande stampa nazionale - e mi pare ovvio... - soltanto alcuni giorni fa: la Procura di Palermo ha ordinato il sequestro dell’intero archivio della Banca Rasini. Ah, Cavaliere, che dolori in arrivo... Come più volte abbiamo scritto, la sede principale dove vennero custoditi alcuni dei capitali all’origine dei "grandi affari" berlusconiani è proprio questo istituto di credito siculo-meneghino, fondato a metà dagli anni Cinquanta da una strano miscuglio di persone: esponenti della nobile famiglia milanese dei Rasini, ed esponenti della più disgraziata periferia palermitana ad altissimo tasso mafioso: gli Azzaretto di Misilmeri. Per quasi vent’anni, e per tutto il primo periodo d’attività di Silvio Berlusconi, la Rasini ha rappresentato un punto fermo, un faro imprescindibile per le avventure professionali del futuro Cavaliere. Alla Rasini, voluto sia dagli Azzaretto sia dai Rasini, ha lavorato fino alla pensione Luigi Berlusconi, padre di Silvio. E non ebbe un ruolo marginale, anzi. Fu procuratore con potere di firma di tutto questo clan di strani banchieri, questa confraternita tenebrosa di uomini e interessi la cui natura diventerà tragicamente chiara nel 1983, il 15 febbraio, il giorno dell’operazione "San Valentino", grande retata della polizia milanese contro le cosche di Cosa Nostra annidate in città. Diversi degli arrestati, Luigi Monti, Antonio Virgilio, Robertino Enea e per loro conto il clan Fidanzati, il clan Bono, Carmelo Gaeta e i relativi referenti palermitani, ovvero Pippo Calò, Totò Riina e Bernardo Provenzano, erano correntisti multimilardari della Banca Rasini.Non solo questa "clientela" affezionata al riciclaggio finì in galera, anche il direttore generale della Rasini, tal Vecchione, in seguito subirà una condanna a 4 anni di carcere. Naturalmente, ripensando a tali vicende, non può che sorgere un interrogativo presto risolto: chi volle che tutta questa marmaglia operasse nella banca di Piazza dei Mercanti numero 8?
Proprio Giuseppe e Dario Azzaretto, padre e figlio. Ora capite l’importanza del decreto di sequestro dell’archivio di questo istituto di credito presso la Banca Popolare di Lodi, che ha assorbito la Rasini qualche anno fa? È assolutamente basilare per poter ricostruire l’epopea di mister Forza Italia, ma anche altre vicende che apparentemente "sembrerebbero scollegate" dalla storia di Berlusconi. Infatti non finisce qui l’importanza della notizia dell’acquisizione di questa documentazione. La Rasini, dopo lo scandalo di mafia del 1983, venne ceduta dagli Azzaretto... indovinate a chi? L’avete già letto nella nostra inchiesta sull’Imi-Sir: a Nino Rovelli, il grande elemosiniere, colui che diede 2 miliardi a Giulio Andreotti, denaro di cui scrisse Mino Pecorelli (il famoso articolo: "Gli assegni del Presidente" che non venne mai pubblicato) costandogli la vita. Proprio un bell’ambientino, eh, quello della Rasini di berlusconiana memoria, non trovate? Tuttavia, per meglio capire fino a dove si spinse la ragnatela infame di questa banca, è necessario ricordare che Giuseppe Azzaretto sposò... la nipote di Papa Pacelli. Mancava giusto giusto questo tassello per completare il quadro. È fuori di dubbio che tale signora possedesse diverse e apprezzate qualità, non ultime le relazioni personali e perfino di parentela con importanti personaggi del Vaticano, ad iniziare dal Papa.
Certo che ne fece di "carriera" quell’uomo, Giuseppe Azzaretto, partito da una delle frazioni più povere e miserabili di Palermo, e ritrovatosi nel volgere di pochi anni al vertice di una banca a Milano - da lui fondata - e perfino maritato con una damigella la cui famiglia era tra le meglio introdotte nei gangli del potere millenario della Roma dei Papi. C’è ancora molto da scoprire, come si vede. Se la Banca Rasini venisse davvero scoperchiata fino in fondo, sono convinto che una parte della storia d’Italia andrebbe riscritta, e sarebbero le pagine peggiori. Della storia più recente della Rasini - il lettore ricorderà anche questo - abbiamo scritto anche altro. Ad esempio abbiamo raccolto la testimonianza della baronessa Maria Giuseppina Cordopatri, che fu correntista di questo istituto di credito. La baronessa ha reso noto che il vero dominus della banca non era il clan Azzaretto sic et simpliciter, bensì un certo Giulio Andreotti.
Non è notizia da poco, se si pensa che Nino Rovelli rileverà questa banca benché in vita sua non avesse mai operato nel settore. Per conto di chi Rovelli gestirà la Rasini fino all’arrivo della Banca Popolare di Lodi?
Bella domanda.In ogni caso, come si diceva all’inizio, la nostra inchiesta sta avanzando. Nei prossimi giorni saremo in grado di approfondire in maniera circostanziata il ruolo e l’azione delle due società fiduciarie della Banca Nazionale del Lavoro, Saf e Servizio Italia, che tanto hanno avuto a che fare con la costruzione del Gruppo Fininvest all’epoca in cui il vero "burattinaio" si chiamava Licio Gelli. Eh sì, proprio lui, che nell’anno 1978 - quando vennero fondate 32 delle 38 Holding Italiane - annotò fra gli iscritti alla sua loggia infame anche Silvio Berlusconi, il piduista n° 1816, entrato nel cerchio infernale gelliano... esattamente lo stesso anno in cui nascono dal nulla (con l’uso del solito schermo di prestanome) le holding casseforti del suo futuro impero. Accidenti, che coincidenza, anzi: che pista investigativa.Su un altro versante, saremo presto nelle condizioni di svelare i rapporti fra alcune di queste Holding Italiane "occulte" e inquietanti personaggi palermitani, così pure saremo in grado di disegnare la "mappa" di intrecci societari fra queste Holding segrete e altri rami della pianta berlusconiana, ad esempio Mediaset.
Mala tempora currunt, signor Berlusconi. Se n’è accorto?
 
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