DALLA CRIMEA A KARAGANDA’, UN LAGER A CIELO APERTO
di PAOLO L. BERNARDINI
La storia degli italiani in Crimea è una storia lunga. Risale alla presenza dei veneziani, ma soprattutto dei genovesi, nel basso Medioevo. A Genova vi sono numerose strade che ricordano quei luoghi, via Caffa, ad esempio, nel quartiere dove sono nato, e vi sono storici, come Laura Balletto, e il compianto Geo Pistarino, che hanno ricostruito le vicende dei genovesi nel Mar Nero, attraverso gli atti notarili soprattutto, ma anche diverse altre fonti.
La Crimea si lega dunque alla storia italica ben aldilà dell’alleanza col Turco, in funzione antirussa, che Cavour strinse nel 1853 non certo per difendere i destini degli “italiani” che vi risiedevano (i quali comunque sarebbero stati forse meglio sotto un potentato cristiano, ancorché ortodosso, rispetto a quello che avrebbero potuto patire in caso di riconquista ottomana), ma per poter mettere sul piatto della bilancia sia un buon numero di morti (ma alla fine furono pochini) sia soprattutto la “questione italiana”, che egli poi risolse abilmente a suo favore. La Crimea o “piccola Ta(r)taria” era parte dell’immaginario italiano pre-unitario proprio per il suo essere un’isola, o piuttosto penisola felice, stretta tra due mari, il Mar Nero e quello d’Azov, fondamentale snodo per i traffici con l’Oriente. Scrittori, esperti generalmente di cose russe, come Francesco Becattini, la presentavano al pubblico settecentesco, corredando le loro opere di carte preziose, come codesta di Zatta che qui riproduco.
Questa presenza genovese e veneziana, secolare, fu certamente uno dei motivi per cui assistiamo, in Crimea, ad una delle prime ondate migratorie pre-unitarie. Gli “italiani” che ancora italiani non sono, ma sudditi del Regno delle due Sicilie, giungono qui in due ondate, precisamente nel 1830 e nel 1870, anche se alcune fonti parlano addirittura di migrazioni in pieno Settecento, tutte da verificare. Vengono dalla Puglia: Bari, Bisceglie, Molfetta, Trani, qualcuno dalla Campania. I loro cognomi: Fabiano, Di Fonzo, De Martino, Scolarino, Giacchetti. Sono marinai e agricoltori. D’altra parte, la Crimea, allora parte dell’Impero russo, e dal 1783, è terra, ricca e bella, tuttora al centro di un vero e proprio “melting pot”; ma allora vi erano tatari, ucraini, greci, turchi, ebrei, tedeschi. Vi arrivano dunque forse 2000, e sono forse 3000, il 2% della popolazione di Kerc, nel 1921. Vivono bene, sotto la Russia dell’ultimo Zar. Ma le disgrazie per loro cominciano con l’avvento del Comunismo.
Certamente, la collettivizzazione, la creazione di “colcos”, gli attacchi alla religione cristiana, non toccano soltanto loro. Il governo italiano fornisce qualche aiuto, ma la Crimea è lontana. Ma se il governo fascista si mostra in qualche modo simpatetico, i peggiori insulti vengono riservati loro proprio dai fuoriusciti comunisti italiani, che giungono in questi luoghi remoti per diffondere il verbo rosso. Sono figure tristissime, del tutto obliate, ma un tempo celebri, dello zelantissimo comunismo italiano, violentemente anticlericale, nemico acerrimo della proprietà privata (altrui), sprezzante verso i contadini, adulatore di Baffoni e baffini. Schiuma umana, come Paolo Robotti, cognato di Palmiro Togliatti, o Giuliano Pajetta, fratello di Giancarlo. Tutti costoro hanno ben poca attenzione per la comunità italiana, legati come sono all’universale fratellanza rossa; e chiunque la minacci, anche solo aderendo alla tradizione cattolica e mantendendosi le piccole proprietà terriere acquisite con il duro lavoro, è insieme un fascista, un baciapreti, e un nemico del popolo.
I pugliesi però hanno la pelle dura. E sono abituati a lottare. Resistono alla collettivizzazione forzata delle campagne (1930-1933); resistono alle purghe famigerate (1935-1938), in cui Stalin bellamente ignora il fatto che gli italiani che erano giunti lì in quegli anni erano comunisti, e ne fa fuori un buon numero (vedendoli solo come italiani e quindi fascisti, non ostante le loro professioni di “compagno”), con imbarazzato silenzio dei vari Robotti, Paietta, e consimile feccia, ma non possono farci nulla quando Stalin, mutata l’alleanza, vede in loro solo gli italiani ora nemici, e decide di deportarli in Kazakhstan. Siamo all’inizio del 1942. Sono rimasti forse 2000, comunque un buon numero. Le deportazioni continueranno fino al 27-28 giugno 1944, quando prenderanno l’intercity coi vagoni piombati ben 15.000 greci, 12.500 bulgari, e 11.000 armeni. Gli italiani, deportati per primi. Furono invagonati subito, a partire dal 29 gennaio 1942. Vennero deportati in un numero imprecisato. Si sa per certo che almeno 500 morirono. Furono messi sui treni e spediti nel luogo tradizionale per le deportazioni, che, se non era la Siberia, senz’altro era il Kazakhstan. Akmolinsk, l’attuale Astana. E Karagandà, ad oriente.
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