L’AGENZIA DEL RANCORE
MASSIMO GIANNINI
20 luglio 2019
Mancava solo questo al campionario degli orrori del leader sovranista, che ha trasformato il Viminale in un’Agenzia del Rancore. La querela su carta intestata del ministro dell’Interno. Un atto ostile non contro un cittadino qualsiasi, che sarebbe comunque un’anomalia gravissima. Ma contro Roberto Saviano, cioè uno scrittore che, qualunque giudizio si dia di lui e dei suoi libri, è il simbolo della lotta alle mafie e alla criminalità organizzata. Matteo Salvini è riuscito a forzare e a storpiare le regole fino a questo punto. Confermando una volta di più quello che è ormai chiaro dal primo giugno, cioè dal giorno del giuramento di questo sedicente “governo del cambiamento”.
È lui, il ministro della Paura, l’uomo del quale bisogna avere paura. Ed è lui che, entrato al dicastero con la faccia feroce del capo- bastone, ne ha irrimediabilmente mutato natura e funzione. Il Viminale è il cuore dello Stato. “Custode” della sicurezza del Paese. Istituzione nella quale ogni cittadino deve potersi riconoscere al di là di ogni colore politico e dalla quale deve sentirsi comunque garantito, tutelato, protetto. Salvini l’ha fatto diventare il suo braccio armato. L’avamposto delle sua guerra ideologica. Contro i migranti e contro le Ong, contro Merkel e contro Macron, contro i tecnocrati e contro i banchieri. E adesso, con la querela a Saviano, anche contro un intellettuale che ha l’unico torto di gridare la sua verità a questa Italia intorpidita e ammaliata dal pifferaio magico in cravatta verde.
Un ministro dell’Interno avrebbe un solo, irrinunciabile dovere: difendere con ogni mezzo il cittadino che ha scoperchiato Gomorra ed è diventato per questo una “vittima” potenziale dei clan. E invece Salvini fa l’opposto. Non solo non difende quel cittadino che vive da 12 anni blindato. Non solo lo minaccia di togliergli la scorta e lo espone a colpi di tweet all’esecrazione pubblica su quella “ tavola calda per antropofagi” che è ormai diventata la Rete. Ma diventa il suo carnefice, chiamandolo, in nome dell’intero governo della Repubblica, a rispondere davanti a un tribunale dei suoi giudizi politici. Così il ministro dell’Interno, depositario dello Stato di diritto, diventa il tenutario dello Stato di eccezione. Un passo inquietante verso la Russia di Putin o la Turchia di Erdogan.
È vero, Saviano ha formulato giudizi durissimi nei confronti di Salvini. L’ha chiamato “ministro della malavita”. E non si può pretendere che il capataz leghista, cresciuto e allevato nelle scuole padane, apprezzi Gaetano Salvemini e il significato con il quale il grande storico italiano usò quella definizione nei confronti di Giolitti. Ma il merito della controversia, a questo punto, non c’entra. Quello che c’entra è invece la qualità della nostra democrazia, sempre più esposta e fragile di fronte al dilagare della cultura dell’intolleranza, all’insofferenza verso il dissenso. Ovunque si annidi. Non solo in un libro, in un articolo di giornale, in un post su Facebook. Ma persino nei documenti ufficiali degli apparati e degli organismi pubblici e para-pubblici. Nelle stesse ore in cui Huffington Post rendeva nota la querela contro Saviano su carta intestata del Viminale, davanti alla Commissione parlamentare Tito Boeri denunciava un corto circuito politico- istituzionale altrettanto grave. Anche il presidente dell’Inps ( per le sue critiche sulla xenofobia che danneggia la demografia, sull’abolizione della legge Fornero e infine sugli effetti del decreto dignità) è finito da tempo nel mirino di Salvini. E per questo ha ricevuto lettere di insulti e messaggi di morte. « Non posso accettare minacce da parte di chi dovrebbe presiedere alla mia sicurezza personale», ha risposto. Vale per Boeri, vale per Saviano, vale per tutti gli italiani.
Un governo che chiama uno scrittore sul banco degli imputati. Quello che sgomenta davvero, di fronte alle tante e sempre più intollerabili nefandezze pronunciate e compiute da Salvini, è il silenzio del premier Conte e del vicepremier Di Maio. Un silenzio assordante. Un silenzio complice. Un’acquiescenza da anni Trenta. Un’ignavia da “spirito di Monaco”. L’anticamera di una “democratura” non più occidentale.
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