A questo punto, come definiresti le stampe giapponesi in genere? Di tipo narrativo o di tipo contemplativo? (per chiarire: narrative sono le scene dell'Antico Testamento, per esempio, in molti battisteri, o i fumetti oggi; contemplativa è la Pietà di Michelangelo o, per specificare meglio, anche gli affreschi di Piero della Francesca, che sono di soggetto narrativo, ma di esecuzione contemplativa).
Naturalmente ho evidenziato i due poli estremizzandoli, mica tutta la pittura si fa racchiudere in questi confini. Oggi, per esempio, la pittura è quasi sempre contemplativa (Afro, Capogrossi, gli astratti in genere non narrano nulla), Marino Marini con la Caduta del Cavaliere si appoggia a una mini-storia, ma è sostanzialmente contemplativo, seppur dinamico. Il Surrealismo propone una narrazione, ma interiore. Ecc ecc
Forse i modelli del Fascismo e dello Stalinismo con la loro arte celebrativa (e ricordiamo di passaggio la Colonna Traiana) hanno un po' messo all'angolo la reputazione dell'arte narrativa. Cinema, fotoromanzi e fumetti hanno fatto il resto ...
Non sono sicuro di aver ben capito, ma io le ritengo contemplative, nel senso che non ci vedo un intento narrativo, perlomeno voluto, ma puramente descrittivo. Bisogna considerare comunque che le stampe ukiyoe sono solo un aspetto dell’arte giapponese del periodo, quello che colpì gli occidentali. In Giappone erano diffuse varie scuole di pittura, di cui la più importante era quella Kano. Al riguardo, volendo, si può vedere la voce “arte giapponese” su Wikipedia.
Per tornare invece al tema dell’influenza che le stampe policrome giapponesi ebbero sugli artisti “modernisti” nella Francia della seconda metà dell’Ottocento, in sintesi bisogna tenere presente che cos’era la pittura occidentale a quell’epoca. La pittura europea deriva dagli affreschi di epoca romana. In epoca medievale cominciò a diffondersi la pittura su tavole di legno e, successivamente, su tela. Al contempo i materiali evolvevano dalla tempera ad uovo agli olii di lino, la cui scoperta si deve pare ai fiamminghi. Nel frattempo, a partire da Giotto, la preoccupazione degli artisti europei divenne quella di imitare il più perfettamente possibile la natura. Nel corso dei secoli, essi scoprirono così la prospettiva lineare, le ombre e il chiaroscuro e altri accorgimenti come ad esempio l’uso di dipingere, nei paesaggi, con toni caldi i primi piani e con toni sfumati gli sfondi in modo da suggerire un effetto atmosferico. Proprio per ottenere questo tipo di effetti i colori non si usavano praticamente mai puri, ma mischiati tra loro. Ognuna di queste tappe era stata vista come una conquista nello sviluppo della pittura in senso realistico-naturalistico, come spiega con orgoglio il Vasari nelle sue Vite. Alla metà dell’Ottocento, tutto questo faceva parte del bagaglio di formazione che si insegnava agli aspiranti artisti nelle accademie. Artista era chi dimostrava di essere in grado di padroneggiare queste tecniche. In questo contesto, l’arrivo in Europa in quel periodo delle stampe policrome giapponesi grazie all’intensificarsi dei contatti a seguito della rottura del suo isolamento agì come uno shock sugli artisti più sensibili: gli artisti giapponesi non utilizzavano il chiaroscuro né la prospettiva lineare, semplicemente non li conoscevano. Ciò dava a queste stampe un carattere di immediatezza visiva. Sorprendente era poi la loro composizione e il loro taglio, che apparivano liberi e privi di preoccupazioni stilistiche rispetto alle rigide convenzioni della pittura occidentale, come ad esempio i ritratti “in posa”, o i paesaggi concepibili solo come sfondo per scene di carattere storico, religioso o mitologico. Non che non ci fossero state delle eccezioni, come ad esempio la pittura olandese del Seicento (certi ritratti di Hals e scene di genere di Brueghel e altri pittori). Il primo che si accorse di tutto ciò fu Manet, che la critica non per niente ritiene il padre dell’Impressionismo. Nel 1860 dipinse un “Pifferaio”, un ragazzo vestito in uniforme blu che suona un flauto. Il quadro fu aspramente giudicato dalla critica ufficiale, che lo riteneva “non finito”: il soggetto era delineato con linee nere, e i piani che ne risultavano erano riempiti con colori piatti, non modulati. Manet non utilizzò mezzi toni, ignorando largamente le regole del chiaroscuro. Era stato ispirato in ciò proprio dalle stampe giapponesi. Il terreno a dire il vero era già stato preparato dai “realisti sociali” della cosiddetta “scuola di Barbizon” (Millet, T. Rousseau, Corot, Daubigny, De la Peña e altri), che intorno alla metà dell’Ottocento o poco prima avevano iniziato a introdurre nelle loro tele personaggi di umile estrazione e a contestare le regole dell’accademia. Il gruppo che si riuniva attorno a Manet (Degas, Monet, Renoir, Pissarro ecc.) divenne ben presto noto come quello degli Impressionisti. Tutti loro, per inciso, erano collezionisti di stampe giapponesi. Chi più di tutti capì la portata rivoluzionaria di queste stampe fu comunque Vincent van Gogh. Van Gogh era un artista molto serio e scrupoloso (leggete le sue lettere e ve ne renderete conto) e aveva conosciuto le stampe giapponesi nei mesi che passò ad Anversa prima di recarsi a Parigi. Per inciso, va detto che molte di queste stampe arrivavano ad Anversa e negli altri principali porti europei in modo assai poco ortodosso: erano usate per avvolgere preziose porcellane. Ciò perché i giapponesi ormai le consideravano di nessun valore: con l’aprirsi del paese agli influssi occidentali esse rappresentavano ai loro occhi il “vecchio” e andarono incontro a un rapido declino (l’ultimo maestro riconosciuto dell’ukiyoe fu Hiroshige, che morì nel 1858). Una volta a Parigi, Vincent arrivò a collezionarne centinaia (tanto pagava suo fratello Theo..., il quale comunque condivideva questa passione) . Le trovava principalmente nel negozio di Père Tanguy ma non solo, perché erano diffusissime. Alcune le copiò direttamente (come quella famosa di Hiroshige “Pioggia improvvisa al ponte di Ohashi"), sei di loro le dipinse come sfondo in un ritratto di Père Tanguy, e organizzò pure una mostra esponendole sulle pareti del Tambourin, il ristorante di Agostina Segatori. Quelle sopravvissute sono ora nella collezione del Van Gogh Museum di Amsterdam che gli ha dedicato una pubblicazione. Quando si trasferì ad Arles, nel Midi della Francia, Van Gogh lo fece nell’intento di stabilirsi nel suo personale “Giappone”. Si era infatti convinto che questo fosse un paese baciato dal sole. Van Gogh aveva ben presente queste stampe quando dipinse i suoi capolavori ad Arles. I “Girasoli”, ad esempio, sono dipinti senza ombre, senza nessuna sorgente di luce esterna. La luce viene per così dire “dall’interno”. Utilizzando il colore come una realtà indipendente - indipendente dalla percezione ottica - ne conseguiva che il dipinto assumeva una realtà indipendente. Il dipinto non è più un facsimile ottico del mondo visivo, diventa una realtà a sé stante. L'idea di trattare un dipinto come una realtà a sé stante divenne il segno distintivo della rivoluzione modernista. La consapevolezza che un quadro, prima che ogni altra cosa, è una realtà indipendente - un manufatto a due dimensioni - è ancora di attualità. Esteticamente parlando, la cultura tradizionale del Giappone già possedeva alcune caratteristiche eminentemente moderne. Dopo gli artisti, se ne accorsero anche i critici più sensibili, ad esempio Edmond de Goncourt, che in un suo saggio arrivò a scrivere: "Quando ho detto che il Giapponismo era in procinto di rivoluzionare la visione dei popoli europei, volevo dire che il Giapponismo ha portato in Europa un nuovo senso del colore, un nuovo sistema decorativo, e, se volete, un immaginario poetico nell'invenzione dell'oggetto artistico, che non è mai esistito neanche nelle opere più perfette del Medioevo o del Rinascimento." Il Giapponismo divenne rapidamente una moda. Non solo i pittori ne furono influenzati, ma ad esempio anche musicisti come Debussy, che per il suo poema sinfonico “La Mer” dichiarò di essersi ispirato alla
Grande onda di Hokusai. Su questa scia, col nuovo secolo, la ricerca da parte degli artisti moderni delle basi “primitive” e “pure” dell’arte portò infine alla scoperta dell’arte tribale africana da parte di Picasso & C., sulla scia di Gauguin che nel 1895 si era trasferito definitivamente in Polinesia.