IN QUESTO PERIODO HO LE MANI TALMENTE PULITE, CHE SE DO UNO SCHIAFFO A QUALCUNO LO STERILIZZO! (1 Viewer)

DANY1969

Forumer storico
:d:
E in questo periodo avrei voglia di darne parecchi :boxe::moglie:. Ormai anche l'ironia ha perso le parole per descrivere la situazione attuale
Buona settimana a tutti :)
Continuiamo con trekking sul circuito di Annapurna in Nepal :)
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oder

fuga 1000 del signor bach
"stupido colui che cerca di rimediare all'odio degli occhi con il sorriso delle labbra.”
 

Val

Torniamo alla LIRA
La fallacia ad metum (cioè il ricorso “alla paura”) è una delle preferite dai cultori dell’Unione europea a oltranza:
e cioè la “unione” a dispetto delle volontà popolari e a prescindere dai benefici che ne derivano.

Essa consiste nel fare appello non già a dati di realtà ragionevoli e sensati,
quanto piuttosto alla pancia o, se preferite, al cuore del cittadino medio.

Potremmo aggiungere anche “al portafoglio” giacché il dato economico è sovente collegato alle reazioni emotive in genere,
nel senso che le asseconda o, addirittura, le determina.

Non c’è niente, come il terrore della miseria, in grado di indirizzare l’elettore nelle sue scelte.

Un popolo come il nostro – i cui antenati elaborarono il famoso e fortunato slogan
“O Franza o Spagna purché se magna” – lo sa fin troppo bene.


Ma torniamo alla fallacia in esame.


Si tratta di una non argomentazione perché chiama in campo i sentimenti, le emozioni e, in particolare, la più potente di esse: la paura.

Pensate a quante volte, da piccoli, siamo stati persuasi a sottoporci a un’esperienza detestabile
(dai ferri del dentista alle forche caudine dell’asilo) sotto minaccia dell’uomo nero o del carbone di Babbo Natale
o di chissà che altra peggiore sciagura la fantasia dei nostri adulti di riferimento fosse in grado di farci immaginare.


Vi viene da sorridere?

Sbagliate, perché il metodo usato nei vostri confronti quando portavate i calzoncini corti o i vestitini alla marinara era analogo,
in tutto e per tutto, a quello di cui stiamo trattando.

Quello noto, nelle classificazioni delle fallacie, sotto il nome – per l’appunto – di fallacia ad metum.


Spaventate qualcuno, spaventatelo a sufficienza, e ci saranno ben poche cose che il tapino si rifiuterà di fare per voi,
purchè gli imponiate un’alternativa meno tremenda degli effetti derivanti dalla disobbedienza ai vostri in-put.


Nel caso dell’Europa, il senso del ricorso “alla paura” è:

non state a sentire chi si oppone all’euro e alla UE, altrimenti potreste amaramente pentirvene.

I sovranisti vanno ignorati, e censurati, non perché dicano cose false o infondate,
ma perché – ad ascoltarli o addirittura a farsene coinvolgere – si rischia di finire malissimo!


Nel caso della edificazione “in provetta” del mito chiamato Unione europea,
la fallacia ad metum è stata utilizzata soprattutto dopo che i giochi erano compiuti
ed è stata impiegata nel dibattito pubblico contro euroscettici, populisti e sovranisti, per squalificarli.


All’inizio, infatti, nella fase di costruzione della gabbia, i media e le istituzioni
hanno puntato soprattutto sui benefici che la UE avrebbe apportato alle nostre vite se vi avessimo aderito
e se avessimo, un passo via l’altro, ceduto tutte, o quasi, le nostre prerogative sovrane.

Ci stavano portando “sul tetto” della felicità: vi ricordate lo stratagemma?


Una volta in cima, però, i cittadini italiani hanno cominciato a sentire – da qualche parte e per qualche ragione –puzza di bruciato.

Essi hanno, quindi, iniziato ad accarezzare l’idea di una via d’uscita dal manicomio comunitario;
allora l’argomento ad metum è diventato il preferito da parte dell’establishment.


Il problema, infatti, una volta scalato il “tetto”, non era più fare in modo che i vari Stati del vecchio continente
salissero sull’attico comune, ma piuttosto scongiurare che chiedessero di scendere.

Così, da un certo punto in poi – potremmo grossomodo situarlo verso la fine degli anni Zero, con lo scoppio della grande crisi –
tutti i corruttori di coscienze impegnati nella manipolazione filoeuropeista ci hanno dato dentro con il ricorso ad metum.


Pensate a quante volte avrete sentito tratteggiare a tinte fosche il futuro di povertà, miseria, decadenza, inflazione, svalutazione, disoccupazione:
quello profilantesi all’orizzonte se – non sia mai! – gli elettori dessero retta ai sovranisti pazzi e incoscienti fautori dell’addio all’euro e dell’uscita dalla UE.


Ce le hanno cantate in tutti i modi possibili e immaginabili:

i Mercati puniranno l’economia italiana,
l’Italia finirà stritolata con la sua “nuova” liretta nell’era della competizione globale,
il debito pubblico schizzerà alle stelle,
l’inflazione si abbatterà sulla nostra derelitta economia costringendoci ad andare a fare la spesa con le carriole di banconote come i tedeschi ai tempi della Repubblica di Weimar,
saremo emarginati dal mondo.


Ovviamente, tutti questi non sono argomenti logici, ma prefigurazioni di catastrofi
e non hanno l’obiettivo di farvi riflettere su un tema serissimo quale l’uscita dalla moneta unica o dall’Unione europea,
ma di farvi aderire, come cozze a uno scoglio, in maniera irriflessiva e ottusa, a una data situazione.

E soprattutto, ottengono un risultato ben preciso:

inibire ogni serio dibattito sulla concreta praticabilità di una soluzione non allineata con gli auspici degli unionisti per partito preso.


Così, frenati dalla paura di precipitare in una brace incandescente,
la gente preferisce senz’altro rimanere, suo malgrado, nella padella rovente.

La natura grossolana di questa fallacia retorica è direttamente proporzionale alla sua tremenda efficacia.

Milioni e milioni di persone – pur dopo aver constatato sulla propria pelle, e con i propri occhi, il fallimento dei progetti europeisti –
hanno continuato a dare il proprio voto, nell’urna, a partiti compromessi mani e piedi con (per non dire succubi di) Bruxelles.

Pur di non intraprendere una strada nuova e diversa, pur di non prendere la via d’uscita:
il famoso exit, o almeno una scorciatoia che anche solo vagamente gli assomigliasse.


Badate bene, l’argomento ad metum è subdolo soprattutto perché si riferisce a un fenomeno storico
(la fuoriuscita dall’euro, intesa come moneta unica) mai verificatosi.

Quindi, le “pestilenze bibliche”, i “cataclismi millenari” evocati dai manipolatori di professione
a danno di chiunque osi mettere in discussione l’Unione europea a ventisette, o il vincolo monetario per diciannove, si reggono sul nulla.

Nessun Paese è mai uscito dall’euro: perciò, non abbiamo la controprova rispetto ai cupi anatemi
di chi minaccia piogge di sangue e tornadi di cavallette su chi proverà a cimentarsi.


Al contrario, come messo ben in rilievo da vari autori, l’uscita da un sodalizio monetario si è verificata innumerevoli volte nel corso della storia
senza che si siano mai realizzati i drammi vaticinati dai feticisti dell’euro.

Pensiamo al Bangladesh, all’impero austroungarico, alla Cecoslovacchia.

Da una unione monetaria si può uscire, ovviamente.

Parola di premio Nobel.

Così ha avuto occasione di esprimersi, in proposito, Joseph Stiglitz:


«Io non credo che sia cosi male tornare alle vostre vecchie monete.
Le unioni monetarie spesso durano soltanto un breve periodo di tempo.
Ci proviamo e, o funziona o non funziona.
Il regime di Bretton Woods è durato trent’anni.
L’Irlanda ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito e ha creato la propria moneta.
Quando succede è un grande evento, ma succede.
Ed è possibile.
L’idea che sarebbe la fine del mondo è sbagliata.
Sarebbe un periodo molto difficile, ma la fine dell’euro non sarebbe la fine del mondo».


Tuttavia, l’ovvietà e la logica sono due risorse di cui la pubblicistica pro-euro fa volentieri a meno se è possibile.

E certamente è possibile se si può utilizzare al suo posto, e a proprio beneficio e tornaconto, un favoloso tranello linguistico come la fallacia ad metum.


Se ci riflettete, essa è stata usata soprattutto in tre occasioni negli ultimi anni, non tutte connesse con le vicende europee, peraltro:

nel caso della Grexit,

nel caso della Brexit

e in prossimità delle elezioni americane all’esito delle quali Trump sconfisse la Clinton.

Andate a ripescare alcuni titoli dei giornali di casa nostra e alcuni divertentissimi editoriali dei nostri intellettuali di punta.

Avrete così l’opportunità di farvi un’idea perfetta di come usare il sofisma in questione;
vi accorgerete di quali e di quante “piaghe d’Egitto” erano state invocate sui popoli interessati
se avessero osato disubbidire alle volontà dei Mercati internazionali e dei media generalisti.

E tali volontà prevedevano, nell’ordine:


1) che la Grecia continuasse a farsi massacrare dalla Troika accettandone tutte le frustate in arrivo
(circostanza poi, purtroppo, realizzatasi a dispetto dell’esito del referendum);


2) che gli inglesi restassero nell’Unione europea;


3) che gli americani si regalassero un bel mandato clintoniano dopo gli “entusiasmanti” otto anni di Obama.


C’è un elemento ulteriore, ma non meno importante, della fallacia ad metum.

E riguarda l’accusa paradossale che muovono contro i populisti i cultori dell’austerity, delle regole, dei parametri e del Sogno europeo.

Secondo costoro, una delle più gravi colpe del populismo è che esso “fomenta la paura”, “si nutre della paura”, “semina la paura”.


Al populista viene imputato l’uso strumentale della paura per attirare consenso e macinare voti.

Riandate con la memoria a quanto spesso ambienti soprattutto vicini alla sinistra “democratica”
o alla stampa cattolica “progressista” si sono avvalsi di questo stucchevole stereotipo per dare una spiegazione all’ascesa dei movimenti dell’area sovranista.


In un articolo pubblicato su Ilsole24ore.com il 10 marzo 2018,
il professore di storia contemporanea dell’Università di Bologna, Riccardo Brizzi,
così sintetizza il concetto parlando della Lega:

«La Lega è un classico partito populista di destra, simile al Front National in Francia o ad AfD in Germania:
sono i cosiddetti “imprenditori della paura”, quelli che fanno leva sui timori dell’elettorato dettati dalla globalizzazione e dall’immigrazione,
e pescano nel bacino dei cosiddetti “perdenti culturali” della globalizzazione, le persone che sono spaventate dai fenomeni con cui ci dobbiamo confrontare oggi».


Il noto editorialista e opinionista del «Corriere della Sera» Sergio Romano, in un suo articolo sul populismo
pubblicato sul sito dell’omonimo quotidiano attribuisce ai populisti la paura per la “grande minaccia”
rappresentata dalla triplice rivoluzione costituita dai fenomeni della globalizzazione, dell’informatica e della bioetica.


In realtà, la paura del “nuovo” non è una prerogativa dei populisti, ma dell’uomo in quanto tale.

La paura è il più umano dei sentimenti e accomuna chiunque, sia il populista che il non populista,
sia il sovranista tutto d’un pezzo che l’europeista innamorato.

Soprattutto di fronte all’imprevedibile e repentina comparsa, sulla scenda della storia, di fenomeni impronosticabili fino a pochi anni fa.


Semmai, si potrebbe addirittura notare come – nella faretra dell’armamentario retorico dei cosiddetti sovranisti –
non sia affatto la paura la freccia più acuminata, ma semmai la speranza.

Chi non vuole l’Unione europea quasi sempre fa riferimento al “futuro”
e a dimensioni e valori eminentemente positivi come “libertà”, “democrazia”, “Costituzione”, “sovranità”.

È interessante, però, notare come gli europeisti convinti siano molto più suscettibili di cadere vittime del fascino di tale fallacia e di farvi più spesso ricorso.


In effetti, i sostenitori del processo unionista, hanno ritorto contro i sovranisti un “peccato”
– quello di essere degli untori di paura – di cui essi per primi si macchiano.

In sintesi: la paura non è un’arma esclusiva dei populisti e dei sovranisti,
ma è piuttosto l’arma (preferenziale) dei loro acerrimi, “razionali” e “illuminati” nemici.


Sono le élite, in effetti, ad aver cavalcato negli ultimi anni le paure della gente
per giustificare la necessità di più controlli per molti, di meno libertà per ciascuno e, va da sé, di più Europa per tutti:
un traguardo, quest’ultimo, che è una sintesi eccellente degli altri due.

In questo senso, oltre al terror panico seminato attorno alla prospettiva dell’exit,
non dobbiamo dimenticare l’altro grande, indispensabile, spauracchio agitato come uno spettro, negli ultimi tempi, dall’establishment: il terrorismo.


Un recente saggio del grande giurista Gustavo Zagrebelsky si intitola:

Come salvare la democrazia dalla paura.

Riecheggia, nel titolo e nei contenuti, proprio ciò di cui stiamo parlando: la retorica della “paura”.

Che è poi uno dei tormentoni più gettonati tra i custodi del pensiero unico.


Forse per amor di sintesi, il titolo dell’ultimo lavoro del grande costituzionalista
ha in realtà dato immeritato lustro a uno dei più abusati cliché su piazza:
quello, appunto, secondo cui le istanze populiste e sovraniste fomentino la paura.


Altro notevole contributo alla causa lo ha dato «La Stampa» che, in collaborazione con il «Financial Times», ha redatto un report in cui si legge:


«La paura è il miglior nemico dell’uomo, ma anche un compagno di viaggio frequente e un consigliere inaffidabile.
Alimenta le decisioni meno ragionate e, in assenza di risposte adeguate, è la madre che aggiunge timore ai timori,
provocando rabbia contro avversari spesso falsi come le notizie che li raccontano.
È la paura che fomenta i populismi; è la sensazione diffusa di insicurezza e incertezza che governi e parlamenti faticano ad affrontare.
È la molla della rivolta: i terremoti della politica, e della società, nascono nella paura che fa credere nel cambiamento da scatenare a ogni costo,
esigenza che diffonde instabilità perché, nel mondo veloce e complesso, se non si guarda lontano, non si risolve alcuna incognita».


Come ben capite, ci troviamo di fronte a uno di quei refrain che, alla stregua di certi cappotti, vanno bene in ogni stagione.

E non solo tra i perbenisti piccolo-borghesi, progressisti, democratici e allineati,
ma anche e soprattutto tra l’intellighenzia di riferimento dei medesimi.

La quale, benché espressione di una classa sociale e intellettuale in declino,
tracima da tutti gli schermi e a tutte le ore sprizzando la sua insopportabile spocchia secchiona.


Ma, lo ribadiamo, il tema sul tappeto non è tanto la paura, quanto la sua trasformazione alchemica
in un’arma di manipolazione e di contaminazione del discorso e, soprattutto, del discorso sensato e razionale.


Concludendo: ciò che tramuta un sentimento comunissimo (perché umanissimo)
come la paura in benzina per la fallacia ad metum, è proprio il suo strumentale, e non logico.

E non solo col subdolo intento di impedire un dibattito libero e onesto sull’Unione europea e sull’euro;
anche e soprattutto per screditare un avversario che è molto meno impaurito di come lo si vuol dipingere.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Osservando bene la metodologia posta in campo da parte del presidente del Consiglio,
per affrontare questa crisi governativa e ripercorrendo a ritroso il percorso della sua azione,
da quando è balzato alla ribalta della cronaca politica, non si può fare a meno di notare la mediocrità
che ne ha contraddistinto e ne sta continuando a caratterizzare la rotta.


Per cercare di capire e spiegare il metodo, per così dire contiano,
basta considerare che esso è basato su di un presupposto cardine,
molto più semplice di quello che si possa pensare, che si richiama banalmente a una citazione di Leon C. Megginson:


“Non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento”.


Il premier sembra aver fatto sua questa indicazione, riuscendo anche ad applicarla al meglio.

La conseguenza è che questa strategia può portare a dei risultati personali, in fondo anche di piccolo cabotaggio,
ma è da chiedersi quanto questa poi porti seriamente a ciò che necessita, alla nostra nazione,
per un rilancio serio e intelligente che ci consentirebbe di sopravvivere alla crisi economica italiana pregressa poi aggravata dal Covid-19.

Il premier Conte avrebbe fatto meglio ad uscire da una strada politica lastricata solo da personalismi
e conferenze stampa show da fine settimana, aprirsi al dibattito, anche sul Recovery, con tutti,
anche con le imprese, perché ciò che troppe volte si dimentica è che proprio da queste si può rilanciare e far crescere l’Italia,
scongiurando il rischio, sempre dietro l’angolo, di rimanere fermi al palo, con tutte le conseguenze che tutto questo comporterebbe,
compreso l’eventuale dramma sociale sotto l’aspetto dell’occupazione.

In tutto questo bailamme, al quale stiamo assistendo inermi,
è interessante registrare chi, come Luigi Di Maio, oggi ministro degli Esteri,
si lancia in rimbrotti che hanno, purtroppo, il sapore amaro, di quella doppia moralità
che fa capolino solo in taluni tipici individui,
di cui l’ex capo politico del M5S sembra esserne degno rappresentante,
che applicano un metro di giudizio differente a seconda che si parli di sé stessi o della propria parte politica, o degli altri.


Sostiene:

“Mi fa rabbia perder tempo con inutili crisi politiche che danneggiano l’Italia e i cittadini.
Lunedì (oggi per chi legge) e martedì verrà presentato un progetto concreto e lungimirante,
con una visione ambiziosa del nostro futuro. E proprio su questo progetto
chiederemo il sostegno di chi crede di poter offrire il suo contributo alla ricostruzione dell’Italia.
Ora è il momento di scegliere da che parte stare.Da un lato i costruttori, dall’altro i distruttori”.



Stando a queste parole, solo adesso, esisterebbe un “progetto concreto e lungimirante”,
questo sconfesserebbe quanto finora fatto da questo Governo, starebbe a significare, in parole povere,
che non vi era stata fino a questa fase nessuna strategia per il rilancio della nazione,
ma solo una rincorsa sfrenata a far vedere agli italiani che comunque qualcosa si muoveva.

Una precisazione è d’obbligo farla, di quale ricostruzione dell’Italia si parla ?

Quando probabilmente agli italiani basterebbe che funzionasse meglio ciò che già c’è, senza grandi proclami,

sviluppando i decreti attuativi che servono a dar seguito ai decreti emanati in precedenza,

naturalmente tutto accompagnato da una visione di Paese che non da oggi, ma da ieri si doveva avere.



Inoltre, forse, andrebbe spiegato a Di Maio che chi non la pensa come lui o Conte,
non necessariamente deve essere lapidato nelle piazze e annoverato nella categoria dei “distruttori”.

A rigor di logica, chi pone sul tavolo delle questioni, al di là del colore politico,
probabilmente intende avvalersi di un diritto, tra l’altro anche ben conosciuto nelle democrazie occidentali,
che corrisponde al diritto di critica, se questa critica poi non viene compresa, allora ci se ne fa una ragione,
si ha tutta la piena libertà di questo mondo nel decidere di non condividere più un cammino insieme a qualcun altro.

Può darsi che il senso di rabbia, al quale fa riferimento il ministro degli Esteri,
sia la consapevolezza che qualcosa potrebbe scivolar di mano, con il triste epilogo che saltino equilibri politici e incarichi tanto agognati
– anche questo sempre nell’interesse degli italiani – che fino ad oggi sono rimasti salvaguardati.

Difatti, una eventuale conta al Senato, che non porterebbe l’attuale Governo
a superare i numeri necessari per una maggioranza, metterebbe tutto in seria discussione.


Un fatto è certo, Conte non può “andar in Paradiso a dispetto dei Santi”, questo lo dovrebbe ben sapere.

Può darsi che confidi nel cielo, auspicando un miracolo che faccia, in questo caso, moltiplicare i numeri e non i pesci.

Chissà?
 

Val

Torniamo alla LIRA
È l’ora di dire basta!

Il “mercato delle vacche” del Senato ha raggiunto livelli indicibili.

Incontri, caffè, messaggi, telefonate, per di più rivelate in diretta dagli stessi interlocutori,
per sostenere un fantasma di governo, rivelano una crisi sistemica che va oltre la fantasia.

Con un presidente del Consiglio che, anziché prendere coscienza del suo ruolo puramente servente alle istituzioni
e dunque salire al Quirinale per rassegnare le dimissioni, pretende di continuare a detenere lo scettro del comando!

 

Val

Torniamo alla LIRA
I Dpcm tanto cari al governo Conte, che ne ha fatto ormai un marchio di fabbrica del proprio operato,
sollevano “profili di incostituzionalità” per quali urge un chiarimento.

A dirlo non sono più soltanto gli italiani, che da tempo puntano il dito contro le misure adottate dall’esecutivo giallorosso
e che impediscono a intere famiglie di lavorare, ma anche il Consiglio di Stato, che si è espresso in maniera
accogliendo i ricorsi presentati da alcuni cittadini in merito alle restrizioni imposte per contrastare la pandemia,
che hanno finito per mettere in ginocchio chi da un anno, ormai, non riesce più a portare avanti la propria attività.



Come spiega La Verità, il il Consiglio di Stato, organo d’appello dei tribunali amministrativi regionali,
ha così accolto i ricorsi presentati dal proprietario di una palestra, da un ristoratore e dal genitore di uno studente delle superiori,
tutti presentati dall’avvocata di Bologna Silvia Marzot.

Con una ordinanza che, nei fatti, supporta le argomentazioni di chi ha deciso di ribellarsi alle restrizioni.

Il tribunale amministrativo regionale aveva rigettato la sua richiesta a dicembre.

Il 15 gennaio il Consiglio di Stato ha invece accolto l’istanza dell’avvocato Marzot
e ha rinviato la questione al Tar, chiamato a decidere in tempi brevissimi, il 10 febbraio o comunque alla prima udienza utile.


Una decisione dalla portata tutt’altro che irrilevante.

Il Consiglio di Stato ha infatti accolto un ricorso in cui si chiede la sospensione dei Dpcm e dello stato di emergenza.

Per la prima volta, dunque, si mettono seriamente in discussione le misure governative adottate
per affrontare l’emergenza sanitaria e presentate in questi mesi ai cittadini come sacrifici necessari per uscire dalla crisi.

E a farlo, si badi bene, è un organo giurisdizionale.


“Sarà il Tar a decidere se dichiarare illegittimi i dpcm, compreso quello attuale, o addirittura rinviare tutto alla Corte costituzionale”,
ha detto Silvia Marzot a La Verità .

Aggiungendo poi: “Ricordo che la stessa Marta Cartabia disse che non esistono diritti speciali in momenti speciali”.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Mario Monti, attraverso il suo ultimo editoriale sul Corriere della Sera,
ha posto le condizioni per votare la fiducia a Conte, che domani, dopo il voto alla Camera di oggi, si recherà in Senato.

Tassare il risparmio privato e smettere di ristorare le Pmi.

Questa l’agghiacciante sintesi dei provvedimenti che il senatore a vita si aspetta dall’ex avvocato del popolo Giuseppe Conte per rinnovargli la fiducia.
Tutto ciò partendo dal solito elogio dell’Ue per l’aiuto che ci sta dando.


“L’Unione europea e i suoi Stati membri non erano stati mai (mai nella storia, si potrebbe dire risalendo nei secoli)
alleati dell’Italia con tanto sostegno e generosità come in questa comune guerra alla pandemia”.

La stessa “solidarietà europea” mostrata dalla Germania, che negli ultimi 10 mesi ha prima bloccato l’esportazione di mascherine verso l’Italia.

E poi acquistato più dosi di vaccino rispetto a quanto stabilito dalla Commissione europea.

Oppure l’ormai ex premier olandese Rutte che, qualche mese fa, insieme agli altri Paesi “frugali”, si è mostrato inflessibile nella trattativa per il Recovery fund.


“Quando l’Ue, come è giusto in tempi normali, chiede a ogni Stato di contenere il disavanzo pubblico
e non glielo finanzia creando moneta europea – in pratica quello che la Bce non aveva mai fatto prima dell’inizio della pandemia: agire da prestatrice di ultima istanza – ,
in Italia molti strillano contro l’«austerità».

Quando invece l’Ue, in tempi eccezionali di pandemia, dà enormi risorse europee agli Stati, più di tutti all’Italia – così tante che però ci danno un saldo negativo -,
il nostro Paese sembra abbagliato da improvvisa ricchezza.

Si attarda in crisi politiche nelle quali l’interesse del Paese è al massimo una foglia di fico”.


E di quali risorse parla l’ex bocconiano?

Del Mes, aderendo ai cui fondi si dichiarerebbe il default del Paese con la troika che ci entrerebbe in casa?

Del Recovery fund, che altro non è che una linea di credito intrisa di condizionalità più del fondo “salva Stati”,
che porterà ad un uguale commissariamento della nostra politica economica?


“Mi aspetto che il governo spieghi meglio agli italiani che oggi vi sono ragioni eccezionali
per non curarsi troppo dell’aumento del debito, ma che probabilmente prima della fine di questa legislatura cambieranno alcune cose nella Ue.

La «revisione strategica» della politica della Bce, che Christine Lagarde ha avviato,
difficilmente permetterà di fare affidamento a lungo sulla possibilità di finanziare a costo zero il disavanzo italiano”.


In pratica ripagare tutto il debito contratto con la Ue in questi mesi, afferma Monti.


“Diviene perciò importante porsi con urgenza il problema di quanto abbia senso continuare a «ristorare» con debito,
cioè a spese degli italiani di domani, le perdite subite a causa del lockdown,
quando per molte attività sarebbe meglio che lo Stato favorisse la ristrutturazione o la chiusura
.

Con il necessario accompagnamento sociale, per destinare le risorse ad attività che si svilupperanno,
invece che a quelle che purtroppo non avranno un domani”.

Ristori che poi, secondo le proteste degli ultimi tempi, non stanno assolutamente coprendo le perdite degli imprenditori sul lastrico.


Una visione d’Italia quella di Monti che ben si addice al titolo dell’ultimo World Economic Forum, “Grande Reset”.


Per l’ex premier le migliaia di attività che stanno per fallire non meritano i ristori
perché non sono state virtuose nel sapersi adattare alle mutate condizioni.

Interi settori dunque dovranno subire la transizione imposta dalla nuova società del distanziamento sociale.

La teoria che usa Monti per giustificare queste affermazioni è la medesima:
proteggere le future generazioni dalla zavorra del debito pubblico.

Idea frutto dell’assurda teoria che vede lo Stato come un’azienda,
alimentando il conflitto inter generazionale.


Uno dei mantra dell’europeismo.


Secondo Monti, l’esecutivo che uscirà dalla crisi di governo dovrà assumersi la responsabilità,
adottando decisioni impopolari su “temi scomodi“.

“Come ridurre le disuguaglianze e avvicinarsi all’uguaglianza dei punti di partenza
(di tutte le «pari opportunità» abbiamo dimenticato proprio questa).

Riforma fiscale, con adeguato spazio alle semplificazioni, a un fisco «friendly ma non troppo» verso i contribuenti,
alla necessità di salvaguardare la competitività.

Ma anche, senza pregiudizi in alcuna direzione, ai temi che solo in Italia sono considerati tabù,
temi che tutti i partiti, pavidi, non osano neppure pronunciare :

Imposta ordinaria sul patrimonio,

imposta di successione,

imposizione sugli immobili e aggiornamento del catasto,

imposizione sul lavoro
, ecc.

Come accrescere la concorrenza e frenare le rendite di posizione.

Grazie anche alla Commissione europea e all’attività nel tempo dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato,
si dovrebbero individuare molti nodi su cui intervenire.

Per eliminare vere e proprie «imposte occulte» che mercati poco concorrenziali
o regolamentazioni pubbliche a protezione dei rentiers fanno gravare sui consumatori e utenti di servizi pubblici”.


Paradossale voler conciliare il ridurre le disuguaglianze
con il tassare il risparmio privato degli italiani con la patrimoniale e imposte varie
.


I cui esiti nefasti negli anni scorsi si sono visti solo sul ceto medio pauperizzato,

mentre i più ricchi spostavano i loro capitali altrove.



Uno dei più alti al mondo tra l’altro.


Risparmio che ha fondato la programmazione di intere generazioni,
che rappresenterebbero un’occasione persa, da investire nel libero mercato completamente deregolato.

Il cui annesso mercato del lavoro dovrà subire ulteriori “imposizioni”.

Come se non fossero bastate le misure lacrime e sangue che hanno caratterizzato il governo Monti e i successivi.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Questo ha la faccia come il kulo di conte.

Serve un lockdown di 3-4 settimane“: Walter Ricciardi torna alla carica lanciando l’ennesimo allarme contagi.

“In questo momento la circolazione” del coronavirus “è talmente alta in tutta Italia che servirebbe un raffreddamento”
della curva epidemica, afferma il consulente del ministro della Salute.

E questo raffreddamento “lo si può ottenere solo con una chiusura molto energica, molto forte. Non per mesi, ma per 3-4 settimane”.

Il docente di Igiene all’università Cattolica interviene ad Agorà su Rai3 ed è un disco rotto .
 

Val

Torniamo alla LIRA
Una donna di appena 40 anni è arrivata al pronto soccorso nella città di Pordenone
con un forte dolore al petto e al braccio (tutti i sintomi dell’infarto).

Le è stato fatto immediatamente il tampone che è risultato poi positivo e quindi,
nonostante avesse un infarto del miocardio in corso, il fatto di essere positiva - NON MALATA -
niente accesso in reparto per lei nonostante la gravissima patologia acuta in corso.


Entrata alle quattro del mattino in ospedale, la donna colpita da infarto era ancora ferma dopo molte ore.

Certo, era tenuta in osservazione dai sanitari del reparto, ma aveva un infarto in corso.

Alla fine, si è arrivati al pomeriggio del giorno successivo, solo allora la donna è stata trasportata nel reparto di Terapia intensiva:
ora la signora colpita da infarto sta meglio e sono state avviate le terapie. Per fortuna tutto si è risolto per il meglio.

La "positività covid" annulla le altre emergenze sanitarie, che, però, continuano ad esistere.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Questa ve la devo raccontare perchè me l'ha raccontata un medico.

2 settimane fa, questo medico passava per il centro nel mentre che una negoziante fosse
a terra colpita da infarto.

Prime cure in attesa di ambulanza, ma stato critico, quasi decessa.

Arrivo in ospedale a decesso avvenuto.

Nonostante fosse morta, tampone. Positivo.

Referto medico : DECESSO PER COVID.
 

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