IN OGNI ATTIVITA' LA PASSIONE TOGLIE GRAN PARTE DELLA DIFFICOLTA' (1 Viewer)

DANY1969

Forumer storico
(Erasmo da Rotterdam)
Buona settimana a tutti :)
Rimaniamo in Ladakh :)

Khardung
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Monastero Lamayuru
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Vicino a Kargil
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Tra Dras e Kargil
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Val

Torniamo alla LIRA
La Cina ha annunciato che raggiungerà il massimo delle proprie emissioni di CO2 nel 2030,

per poi, bontà loro, iniziare a ridurre le emissioni e giungere alla neutralità nel 2060.



Peccato che il presidente Xi non abbia offerto dettagli su come la Cina possa trasformare questa visione in realtà,

e un esame dei piani attuali della Cina mostri chiaramente che l’obiettivo non sarà raggiunto senza grandi cambiamenti che, per ora , non si vedono.


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Dopo l’annuncio degli obiettivi da parte di Xi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite,
alcuni dettagli su come la Cina potrebbe avvicinarsi ai suoi obiettivi sono stati forniti
al vertice dell’ambizione per il clima di dicembre 2020.

Qui, Xi ha delineato gli elementi preliminari del nuovo contributo determinato a livello nazionale
che la Cina dovrebbe presentare – come tutti gli altri firmatari dell’accordo di Parigi – prima della COP26 alla fine del 2021.

Xi ha affermato che la Cina cercherà, entro il 2030, di ridurre l’intensità di carbonio per unità di PIL
di oltre il 65% rispetto ai livelli del 2005 (rispetto all’attuale obiettivo del 60% -65% entro il 2030)
e aumenterebbe la quota di combustibili non fossili nel consumo di energia al 25% entro il 2030 (rispetto all’attuale obiettivo del 20% ).


Però gli impegni della Cina fanno sorgere molti dubbi, soprattutto una volta visto il mix energetico della nazione.


Invece di ridurre la sua dipendenza dal carbone,

la Cina ha messo in funzione 38 gigawatt (GW) di nuova capacità elettrica a carbone nel 2020,

pari all’intera capacità di generazione di energia a carbone attualmente installata in Germania.



Mentre si potrebbe sostenere che la pandemia abbia reso il 2020 un anno difficile per la Cina concentrarsi sul clima,
resta da vedere quando e come la Cina rivelerà come intende raggiungere il picco delle emissioni entro il 2030
e raggiungere la neutralità del carbonio entro il 2060.


Il luogo più ovvio per cercare tali informazioni è il 14 ° piano quinquennale (FYP) della Cina,
annunciato al Congresso nazionale del popolo nel marzo 2021.

I piani quinquennali sono la principale forza guida della politica cinese a tutti i livelli di governo.

Sfortunatamente, sulle misure climatiche, il 14 ° FYP non è all’altezza.

In sostanza, delinea una continuazione delle tendenze esistenti, piuttosto che un’accelerazione dell’azione per il clima.

Fortemente incentrato sullo sviluppo del settore manifatturiero (in particolare attraverso obiettivi rigorosi sull’innovazione guidata dallo Stato),
il piano non menziona né un limite al carbone, né un limite alle emissioni .


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Le stime attuali indicano che le emissioni della Cina continueranno ad aumentare ogni anno, a un tasso dall’1% all’1,7% fino al 2025.

Va inoltre notato che il 14 ° FYP fa diversi riferimenti allo sviluppo del carbone, sottolineando il suo “utilizzo pulito ed efficiente “.

Ciò è coerente con la struttura più ampia del piano, fortemente orientata a garantire l’autosufficienza della Cina
nel contesto di un ambiente esterno sempre più ostile e, in particolare, la concorrenza strategica USA-Cina.

In altre parole, il 14 ° FYP non include un obiettivo di riduzione del consumo di carbone,
né un obiettivo chiaro per il picco delle emissioni entro il 2025.

È interessante notare che il piano non fa nemmeno riferimento
all’obiettivo di 1.200 GW di capacità installata solare ed eolica entro 2030, menzionato dal presidente Xi nel dicembre 2020.


Alla fine il piano cinese resterà un’affermazione di principio, uno specchietto per le allodole

per prendere in giro la Commissione e sfuggire al meccanismo CBAM, quello che dovrebbe far pagare le importazioni

dei paesi che non condividono gli obiettivi climatici, estremisti, della UE.


Però la Cina è la maggior esportatrice verso l’Unione europea,

secondo voi non pagherà abbastanza lobbisti per prenderci in giro tutti, ingannando Bruxelles, molto pronta a farsi ingannare?


Siamo seri…
 

Val

Torniamo alla LIRA
Al Concertone Fedez recita il suo solito pamphlet anti leghista.

A Felicissima sera Pio e Amedeo si scagliano contro il politicamente corretto.

I soloni della compagine radical chic di sinistra lodano il rapper e condannano i comici



La banalità di Fedez e il coraggio di Pio e Amedeo





Sai che novità il Concertone del Primo maggio?

Sai che novità i cantanti di sinistra che usano il palco per mandare messaggi politici contro il centrodestra?

Sai che novità il profluvio di polemiche che ingrassano il day after della kermesse?


Era tutto già scritto ancora prima che Fedez prendesse il microfono in mano.
Non bisognava nemmeno supporre contro chi si sarebbe scagliato e quale visione del mondo avrebbe portato avanti.

Così è stato: mega sport al ddl zan, attacchi a testa bassa contro la lega ed un mix (scontato) del pensiero radical chic.

Niente di diverso dai post con cui riempie i social.

A differenza del solito ha usato il servizio pubblico come cassa di risonanza.

Non è certo il primo.

In passato lo hanno fatto in tanti prima di lui.


E così, come in uno dei tanti déjà vu a cui sono costretti gli italiani ogni anno
(l'altro lo abbiamo subito giorni fa con l'ennesimo 25 aprile segnato da divisioni e banalità),
i problemi dei lavoratori sono passati in secondo piano e ha vinto la propaganda politica.

Fedez che si schiera per i diritti degli omosessuali;
Fedez che sbraita Matteo Salvini;
Fedez che punzecchia il Vaticano accusandolo di aver sovvenzionato una casa farmaceutica che produce la pillola del giorno dopo.

Ci siamo dimenticati qualcosa? Non credo.

Forse, in un anno tristemente segnato da 945mila posti di lavoro andati in fumo,
una disoccupazione giovanile al 33% e una crisi economica devastante,
ci saremmo aspettati uno sforzo maggiore. Ma tant'è.



A rileggere l'intervento (tagliato), che ha messo tanto in ansia i vertici Rai prima ancora di pronunciarlo, non c'è nulla fuori posto.

È tutto lì dove deve essere.

Dopo un breve preambolo, con un appello a Draghi affinché tuteli il settore dello spettacolo "decimato dall'emergenza Covid",
ecco il rapper (fresco del secondo posto al Festival di Sanremo) sfoderare gli artigli contro la Lega.

Cosa c'è di nuovo? Nulla, appunto.

Forse sarebbe persino passato inosservato se la vice direttrice di Rai 3, Ilaria Capitani,
non gli avesse telefonato per metterlo in guardia e ne fosse scaturita l'ennesima polemica (stucchevole) sulla libertà di espressione.


"Il coraggio di Fedez dà voce a tutte quelle persone che ancora subiscono violenze e discriminazioni per ciò che sono",
ha subito commentato il deputato piddì Alessandro Zan, padre del ddl promosso da Fedez.

"Il Senato abbia lo stesso coraggio ad approvare subito una legge per cui l'Italia non può più attendere".

In realtà, tutto sto coraggio sul palco del Concertone non si è visto.

I social sono pieni di vip, cantanti e artisti che difendono il ddl Zan.

Avete presente le manine che spuntano ovunque su Facebook? Ecco.

Da giorni lo stesso Fedez ingaggia scontri (verbali) con Salvini o con altri leghisti sullo stesso argomento.

Persino lo smalto per unghie è diventato un campo minato (e un'occasione di business).



Se, invece, volete vedere qualcosa di veramente coraggioso, prendetevi venti minuti di pausa
e, se venerdì sera ve lo siete persi, ascoltate qui: è lo sketch di Pio e Amedeo contro il politicamente corretto.


Venti minuti di provocazioni fuori dal coro per spiegare che il problema non sono le parole ma le intenzioni.



Si possono dire tranquillamente negro o ricchione senza esser per forza razzisti.


"Ci vogliono far credere che la civiltà sta nelle parole, ma è tutto qua, nella testa",
hanno spiegato i comici venerdì sera nell'ultima puntata di Felicissima sera su Canale 5.


"Fino a quando non ci cureremo dall'ignoranza di quelli che dicono con fare dispregiativo,
che è quello il problema, ci resta un'unica soluzione".
E cioè: l'autoironia.



Al giorno d'oggi per dire quello che hanno detto Pio e Amedeo ci vuole coraggio.

Se lo fai, rischi il linciaggio.


E così è stato.


Il Partito democratico, che in queste ore sta cavalcando lo scontro tra Fedez e la Rai gridando alla censura,
si è addirittura spinto a presentare un'interrogazione parlamentare per stigmatizzare la comicità del duo pugliese
e pretendere da Draghi un intervento in difesa dei diritti degli omosessuali.

Il tutto perché i due comici provano a spiegare agli italiani che la cattiveria non sta nelle parole ma in quello che le persone hanno dentro.

Le cattive intenzioni, appunto.

"Se dici a un tuo amico 'Ué negro, andiamo a mangiare?', non lo offendi. Ma, se gli dici 'nero torna a casa tua!', sì".


Non è una lezione semplice da afferrare per chi ha sempre deciso, in nome di tutto il Paese, cosa è giusto e cosa non lo è.


Mettersi contro queste persone, che si sentono i padroni della verità (da anni si arrogano questo diritto), è il vero coraggio.

Pio e Amedeo lo hanno avuto.

E hanno dimostrato di essere dei giganti.


A differenza di molti altri.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Guai a schierarsi contro il politically correct:

la sinistra potrebbe fraintendere l'ironia di uno show e andare sulle barricate per denunciarne i contenuti.


È esattamente ciò che è accaduto a Pio e Amedeo, a cui di certo non si può muovere l'accusa di essere sostenitori leghisti.

I due comici, nel corso dell'ultima puntata di Felicissima sera in onda su Canale 5,
hanno tenuto uno sketch di circa 20 minuti contro il politicamente corretto arrivando dritti al punto senza giri di parole:

"Ci vogliono far credere che la civiltà sta nelle parole, ma è tutto qua, nella testa.
Fino a quando non ci cureremo dall’ignoranza di quelli che dicono con fare dispregiativo,
che è quello il problema, ci resta un'unica soluzione"
. Che a loro giudizio è appunto l'autoironia.


Nell'ultima puntata di Felicissima sera Amedeo ha iniziato a puntare il dito verso alcuni stereotipi del politically correct,
partendo dagli omosessuali per arrivare alle persone di colore:

"Nemmeno ricchione si può dire più, ma è sempre l'intenzione il problema.
Così noi dobbiamo combattere l'ignorante e lo stolto.
Se vi chiamano ricchioni, voi ridetegli in faccia perché la cattiveria non risiede nella lingua e nel mondo ma nel cervello".


Il problema risiede proprio nell'intenzione nel momento in cui una determinata parola viene pronunciata:

"L'ignorante si ciba del vostro risentimento".


E a sostegno della sua tesi ha portato un semplice esempio di vita quotidiana:
"Se dici a un tuo amico 'Ué negro, andiamo a mangiare?' non lo offendi. Se gli dici 'nero torna a casa tua!' sì".


Insomma, il loro messaggio è chiaro: bisogna poter scherzare sui luoghi comuni, stop con il politicamente corretto.

"Perché ai genovesi se sono tirchi puoi dirlo e agli ebrei no?", si è chiesto Amedeo.

Che poi ha ironizzato pure su Hitler:
"Si dice fosse gay, e lui mica era sensibile".


Non è stato risparmiato neanche Alessandro Cecchi Paone:
"È un pezzo di m****. Stavamo a Mediaset un giorno, fuori diluviava.
Noi usciamo, eravamo senza macchina ovviamente, neppure i soldi per il taxi,
poi passa Cecchi Paone, noi lo chiamiamo. Lui si ferma e gli chiediamo un passaggio e lui: ‘No, io vado dall’altra parte!'".



Il siparietto di Pio e Amedeo ovviamente non è andato giù alla sinistra,
che non ha perso tempo per attaccare i due comici e i contenuti da loro espressi.


Da Fabrizio Marrazzo, portavoce del Partito gay per i diritti Lgbt, è arrivata una durissima accusa :
"Nel duetto di Pio ed Amedo abbiamo visto un pessimo esempio di comicità che vuole sdonagare le parole 'negro',
utilizzata per definire gli schiavi, i pregiudizi sugli ebrei, che servivano ad alimentate l'odio durante il nazismo".

Marrazzo si è soffermato anche sull'utilizzo della parola "ricchione",
che a suo giudizio rientra in quel grande insieme di sostantivi dispregiativi nei confronti degli omosessuali.

Infine, in relazione a quanto accaduto, ha chiesto l'intervento dell'Agcom e di Piersilvio Berlusconi
per evitare che "si ripetano show di questo tipo razzisti ed omotransfobici".


Il Partito democratico si è spinto oltre: presenterà un'interrogazione parlamentare al governo.
Ad annunciarlo è stato il senatore Tommaso Cerno, secondo cui lo show di Pio e Amedeo riporta il nostro Paese agli anni '30.
L'esponente del Pd si è appellato al presidente del Consiglio Mario Draghi affinché intervenga per parlare dei diritti Lgbt:
"Non esiste un'Italia del domani se non siamo tutti in corsa per il domani".


Anche il cantante Michele Bravi, in occasione del Concertone del Primo maggio, ha voluto replicare allo sketch dei due comici foggiani:
"Le parole sono importanti tanto quanto le intenzioni, le parole scrivono la storia, anche quelle più leggere possono avere un peso da sostenere enorme".


Più dura la presa di posizione di Aurora Ramazzotti:
"Questa cosa che si continui imperterriti ad avere la presunzione di decidere cosa sia offensivo
che una categoria di cui non si fa parte e e di cui non si conoscono le battaglie, il dolore, le paure,
il disagio, la discriminazione, rimane a me un mistero irrisolvibile".
 

Val

Torniamo alla LIRA
Aurora Ramazzotti.......ma chi è ? Figlia di mamma, senza arte nè parte. Ahahahahahah
 

Val

Torniamo alla LIRA
In questo video vi proponiamo un estratto dell’intervista rilasciata dal virologo Didier Raoult
all’emittente francese Sud Radio in cui si sofferma sul tema dell’informazione in relazione alla pandemia. Ecco le sue parole.



“Ci sono – dice Raoult – diversi fenomeni, se vuoi, che si coniugano.
Dunque, io avevo scritto un libro proprio all’inizio dell’epidemia, che ho chiamato ‘Epidemie’, che mostra…
Ecco, io ho un’enorme esperienza sulle più grandi esperienze mondiali di epidemie e false epidemie:
penso che da 20 anni la nostra società era sull’orlo di un esaurimento nervoso, dopo un po’,
quando siamo in un esaurimento nervoso per troppo tempo, cadiamo nell’esaurimento nervoso,
e questo è quello che è successo. Ma non è il Covid-19 che ha causato l’esaurimento nei paesi occidentali, è che i paesi occidentali sono malati…”



Alla base di tutto vi sarebbe l’incapacità dei paesi occidentali di agire in modo razionale, e una comunicazione distorta e falsa.

Raoult fa l’esempio dell’Iraq ante guerra, quando la comunicazione convinse tutti che Saddam avesse armi di distruzione di massa, notizia poi risultate false.

 

Val

Torniamo alla LIRA
La vecchia frase “vorrei essere comunista, ma non ho i soldi per farlo” oggi è pura realtà.

Per questo l’Nsc, Nuova sinistra capalbiese, ha capito che salari e turni di lavoro non sono più argomenti smart,
e punta sui temi che colpiscono le coscienze social, non quelle sociali.

Ad esempio la difesa dei gay, casta che, lamentandosi delle discriminazioni, ha occupato un numero inimmaginabile di posti-chiave.

E poi si occupa dei clandestini, purché lontani dai salotti e, ultimamente, ha anche sparso concetti lacrimevoli di umanità a senso unico, verso scelti terroristi.


E cambiano i testimonial.

Minatori e operai cassintegrati annoiano quelli con la evve moscia,
e poiché dal novembre del 1989 la proprietà ha smesso di essere un furto, meglio esagerare:
ingaggiamo Fedez e moglie Chiara Ferragni-Mida, che tocca una bottiglia d’acqua minerale
e la fa costare mezzo stipendio di un rider di Glovo.

Sono ricchissimi, forse perché conoscono la grammatica, e sanno coniugare, ad esempio, la beneficienza con il business.

Sanno che donare non sempre è cuore: per quelli come loro sdogana l’opulenza costruita sull’effimero,
sugli sfizi delle ragazzine e sul rap senza contenuti.

Dunque, donare diventa un capitolo di bilancio, ancora più leggero se parte dei soldi sono il frutto di raccolte di cui si fanno garanti.


La sinistra li assolda perché sa che non esiste più cultura politica di massa,
e tutto si gioca in un’apparizione, in una frase, in un social tam-tam.


Un tempo, il Primo Maggio si lottava per i lavoratori.


Oggi un eroico bracciante con le mani callose non è più un mito.


Lo è uno con lo smalto che, addosso a lui, diventerà un simbolo di progresso.


Da tempo è cambiato il target della grande azienda, organizzata e previdente, nata dalle antiche ceneri del Partito Comunista italiano.

Per questo ha dovuto cambiare i propri simboli, e a loro impartisce gli ordini.


In questo caso il rapper deve riparare a un imbarazzo politico:

i vertici Rai erano stati plasmati sul primo Governo Conte, creato da quegli stessi grillini che ora gridano allo scandalo.


Ma un cambio in viale Giuseppe Mazzini sotto lo stesso primo ministro non era opportuno,

per non parlare del fatto che gli amici-nemici ora sono separati in casa.


Perciò da tempo si cerca di far saltare il cda Rai con ogni mezzuccio:

Fedez dice tutto quello che gli è stato commissionato e poi grida a un’improbabile censura Rai.


Le smentite dell’azienda, in situazioni come questa, non hanno alcuna credibilità.


Il fremito del web coinvolge i media tradizionali, i quali amplificano e appongono il sigillo.



E siccome in mancanza di ideali veri vince chi fa parlare di sé, ha vinto Federico Leonardo Lucia.


La prova? Ci siamo cascati anche noi, visto che parliamo di lui.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Il comunismo non è mai morto nella sua essenza più profonda.

Lo dimostra il progetto “Le Agorà” lanciato pochi giorni fa da Goffredo Bettini, eminenza grigia del Partito Democratico,
con la contestuale pubblicazione di un manifesto politico per la rinascita della sinistra.

Per chi aveva elevato il Partito Comunista a chiesa e casa, per chi del comunismo aveva fatto religione,
il manifesto sembrerà portatore di una buona novella:

finalmente, dirà, ritornano i grandi ideali, quelli dei diritti, dell’uguaglianza e solidarietà, ritorna la lotta contro l’imperialismo e il capitalismo.


Per chi invece ha creduto da sempre in ideali contrapposti o distanti dalla logica collettivista, il manifesto sembrerà un déjà vu.


Nel merito, Bettini propone al pubblico dibattito un documento coraggioso, ma da respingere vigorosamente
– va detto subito senza indorare le parole – perché infarcito di vecchi e arrugginiti arnesi ideologici.

È anzitutto un manifesto contro:

è contro il liberalismo,

la globalizzazione e

il mercato libero,

è contro l’idea che pone al centro l’individuo e intorno ad esso costruisce le libertà.



Ma è anche a favore:

di un’imposta patrimoniale,

dell’incremento della progressività della tassazione,

dello Stato regolatore dell’economia,

della spesa pubblica assistenziale,

delle imprese di Stato

e della centralizzazione del comando.



E poi è a favore, costi quel che costi, dell’alleanza del Pd con i Cinque Stelle perché solo così, c’è scritto, potrà prendere forma una rinnovata sinistra.


Certo, il documento si preoccupa di ribadire che la nuova sinistra sarà innovatrice.
Ma precisa anche che non potrà che radicarsi nella tradizione:

“Non c’è vera innovazione se non è innovazione della tradizione”.


Ancoraggio, questo, invece, che negli ultimi trent’anni si sarebbe spezzato,
determinando così lo smarrimento dell’azione politica della sinistra stessa.

Un’innovazione senza tradizione, aggiunge il manifesto, sarebbe fine a se stessa,
una novità senza radici e perciò esposta ai venti della storia.


La vera finalità del progetto è chiara: rinverdire l’ideologia comunista.


Sebbene il reale stampo ideologico sia accuratamente nascosto ed anzi sia camuffato con destrezza, il trucco è evidente.

E siccome Bettini non è un novello Houdini, né il manifesto è il suo baule, la verità si disvela facilmente.

L’innovazione della tradizione, infatti, non ci può essere se non c’è lo stampo ideologico originario a caratterizzarla e indirizzarla,
che nel caso, per l’appunto, non può che essere quello comunista.

Con i suoi tratti caratterizzanti:

statalismo,

collettivismo,

centralismo decisionale,

limitazione delle libertà individuali,

esaltazione della massa,

egualitarismo, inteso come appiattimento delle diversità e mortificazione degli averi,

solidarietà, intesa come costruzione dei diritti solo per “chi meno ha”.


Senza esaltare, sostenere, pungolare la libera intrapresa e le libertà individuali,
senza proteggere i diritti di “chi più ha”, ad iniziare da quelli alla corretta e produttiva gestione
della spesa pubblica finanziata anche con il lavoro, guarda caso, proprio di “chi più ha”.


Ecco, senza farla troppo lunga: questa è la tradizione alla quale il manifesto de “Le Agorà” si riferisce.


E questa, stringi-stringi, gratta-gratta, è la sinistra alla quale intenderebbe ridare slancio.


Ecco il rosso futuro: buona fortuna Italia!
 

Val

Torniamo alla LIRA
L’Europa continua a guardare con un misto di preoccupazione ed eccitazione dalle nostre parti,
ora che l’osannato Mario Draghi è diventato premier tra gli applausi scroscianti di quasi tutte le forze politiche italiane.

Felice come una Pasqua per essere riuscita a sistemare uno dei suoi totem più sacri a Palazzo Chigi,
ma preoccupata allo stesso tempo per le tempistiche che hanno portato al suo avvento:


a gennaio 2022, purtroppo per Bruxelles e per i suoi tecnocrati, bisognerà infatti scegliere il successore di Sergio Mattarella al Quirinale,
un ruolo per il quale Draghi non potrà, per ovvie ragioni, correre.


Pensare che Draghi possa lasciare in anticipo il suo incarico di premier, d’altronde,
è idea che non sfiora nemmeno le teste dei vertici dell’Unione Europea.

L’ex presidente della Bce è la garanzia assoluta dell’asservimento dell’Italia alle logiche Ue,
come dimostrato di recente dal Recovery Plan, il nome scelto per indicare le briciole che Bruxelles ci lascerà gestire nei prossimi mesi, con tutta calma:

con la firma di Draghi, l’approvazione è stato passaggio scontato, ma in cambio il nostro Paese dovrà assecondare l’ennesimo diktat che arriva da oltre i confini.


Se l’Italia vorrà, infatti, confrontarsi con un’Unione ben disposta e ragionevole,
pronta a tendere la mano anche in caso di qualche ritardo qua e là nell’attuazione del Recovery,
dovrà blindare Mario Draghi e assicurare la sua permanenza a Palazzo Chigi fino al 2023, data di naturale termine della legislatura.

Ufficialmente perché prezioso nel ruolo di cardine delle riforme che verranno, in realtà come garanzia di una totale obbedienza a Bruxelles.

Perché l’Ue ci darà sì un mucchietto di spiccioli, neanche troppi per la verità, ma pretenderà che venga gestito seguendo ordini precisi.

Anche perché il quadro generale europeo rischia nel frattempo di complicarsi.


Nell’autunno 2021 si voterà infatti in Germania e l’Europa perderà una delle figure più simboliche, la cancelliera Angela Merkel.

Poi sarà la volta delle elezioni francesi, in programma nel 2022, e anche in quell’occasione dalle urne potrebbe uscire un responso sfavorevole per l’Unione.


Che, di fronte a tante incertezze, punta così a blindare Mario Draghi, in modo da assicurarsi un punto fermo.


Giocando, ancora una volta, sulla pelle degli italiani, traditi dai propri governanti.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Si è conclusa, nei giorni scorsi, l’operazione con la quale Euronext ha perfezionato l’acquisto di Borsa Italiana.

4,4 miliardi il valore dell’affare, con Piazza Affari che entra a far parte del più grande mercato continentale.

Una sorta di passaggio “estero su estero” visto che, prima di Euronext, Borsa Italiana faceva del gruppo London stock exchange.


A valle è stato anche portato a termine l’aumento di capitale riservato da complessivi 579 milioni
con cui entreranno nell’azionariato sia Cassa Depositi e Prestiti che Intesa Sanpaolo.

Cdp (491 milioni) deterrà così il 7,3% delle quote, pari a quelle detenuta dalla sua omologa francese Caisse des dépôts et consignations.

Intesa sarà invece azionista con l’1,3%.


Un’azione “coerente con la mission di Cdp di sostenere le infrastrutture strategiche del Paese con una prospettiva di lungo termine.
Borsa Italiana, infatti, è un’infrastruttura finanziaria essenziale, rappresentando il principale hub
per la raccolta di capitale azionario e obbligazionario da parte delle imprese italiane”, spiega via Goito –
da cui proviene Alessandra Ferone, che siederà nel consiglio di sorveglianza – in una nota.


Insieme all’annuncio dell’acquisizione di Borsa Italiana, Euronext ha anche comunicato
che il centro informatico del gruppo sarà trasferito da Londra a Bergamo.

Un piccolo segnale di attenzione all’Italia?


A voler essere maliziosi nulla più di una sorta di “inchino” alla mozione con la quale, nell’aprile scorso,
il parlamento aveva impegnato il governo a vigilare perché venisse
“garantito il massimo impegno per prevedere investimenti che soprattutto sotto il profilo dell’innovazione tecnologica”.

In quella stessa mozione, d’altronde, era stato espunto ogni riferimento diretto alla possibilità di utilizzo del golden power da parte dell’esecutivo.


Strumento con cui Palazzo Chigi non sembra trovarsi particolarmente a proprio agio: vedi alla voce Credito Valtellinese.


Con il risultato che, al netto del presidio italiano nel capitale – peraltro previsto sin dall’inizio, ciò non spostando dunque il nocciolo della questione
l’operazione Euronext/Borsa Italiana trasferisce la “testa” del mercato azionario italiano da Londra a Parigi.
Avvicinandola a Milano solo sulla cartina geografica
. Lasciando oltralpe, ad esempio, la gestione diretta
in cambio di una manciata di poltrone nel consiglio di sorveglianza.


Schema che sembra ricalcare quello già visto con la sedicente “fusione”, sempre sull’asse Francia – Italia,
che ha portato alla nascita di Stellantis.


Se ha già funzionato, perché non replicare?
 

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