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Il G7 glissa sullo yen (e sulle monete in genere)
Joseph Halevi
Come prevedibile, nella riunione dei ministri finanziari del G7 si è ufficialmente parlato poco dello yen, il quale costituisce un problema non tanto per le esportazioni quanto per la sua dimensione finanziaria. Se si volesse discutere veramente degli squilibri dei conti correnti con l'estero si dovrebbero mettere sullo stesso piano le eccedenze della Cina, del Giappone e della Germania. L'eccedenza di quest'ultima - cui automaticamente si abbina quella olandese - per l'Unione europea e per l'Italia, è un vero macigno al collo della ripresa ed è molto più grave del surplus giapponese orientato prevalentemente verso l'Asia e l'America del nord. Prodi lo sa benissimo tuttavia tace. L'Europa è come quel reame ove il re è nudo ma non lo si deve dire.
La debolezza dello yen riguarda invece i sacri mercati finanziari ed anche per questo bisogna parlarne in sordina. L'interna vicenda mostra l'inanità delle politiche keynesiane, al di fuori di quelle fondate sulle spese militari e sull'indebitamento privato in atto negli Usa. Il Giappone vuole mantenere la sua gracile ed incerta ripresa. A tal fine gli serve una moneta debole, soprattutto per arginare lo slittamento delle proprie industrie verso la Cina. La Bank of Japan da anni sta assecondando gli obiettivi macroeconomici del governo mantenendo dei tassi di interesse prima nulli ed ora dello 0,25%. I bassi tassi servono anche a rendere più agevole il peso del debito pubblico, dato che Tokyo ha seguito tutte le prescrizioni keynesiane: bassi tassi ed alto deficit pubblico. La ripresa non è venuta dalla combinazione di queste politiche, bensì dalla crescita dell'export e soprattutto dall'export verso la Cina ed il resto dell'Asia.
I bassissimi tassi di interesse praticati dalla banca centrale giapponese hanno però dato la stura al cosiddetto yen carry trade. In parole povere le società finanziarie, anche quelle nipponiche, prendono a prestito yen ai tassi praticati in Giappone. Queste somme vengono poi cambiate in dollari americani, australiani, neozelandesi ed in euro per essere piazzati in titoli ed obbligazioni legati ai più alti tassi di interesse praticati nelle suddette zone. Lo yen carry trade, cui sono legati molti prodotti derivati, ha svolto un ruolo molto importante nel permettere il rifinanziamento dei paesi altamente deficitari nei conti esteri - come l'Australia e la Nuova Zelanda - nonché del principale paese debitore sia sul piano estero che interno, cioè gli Usa. Tuttavia la forte discrepanza nei tassi che è all'origine del commercio speculativo di yen genera la paura dell'instabilità finanziaria. Una riduzione significativa dello spread (così si definiscono le discrepanze) tra i tassi nipponici e gli altri tassi può portare ad un capovolgimento repentino del processo. Gli speculatori potrebbero abbandonare le posizioni in altre monete, creando una classica crisi finanziaria.
E' difficile che possa succedere per l'insieme dell'Europa, ma per singoli paesi è già successo. Verso la metà del 2006 due economie sono entrate in fibrillazione: quella islandese e quella ungherese. Ambedue caratterizzate da altri deficit esteri e dalla necessità di finanziarli attirando capitali, vendendo buoni ad alti tassi di interesse. E' bastato che la Bank of Japan annunciasse che abbandonava la politica monetaria di tassi zero perché i soldi defluissero da questi due paesi. L'Islanda, il cui pil pro capite è tra i più alti al mondo e con una disoccupazione quasi inesistente, è oggi i recessione con disoccupazione in aumento.
Un altro paese preso di mira è la Nuova Zelanda il cui ministro delle finanze cerca di scoraggiare l'afflusso forsennato di soldi nel paese - cioè l'acquisto di titoli da parte delle società finanziarie straniere - dicendo apertamente che è una pazzia.
Siamo in una classica situazione di fragilità finanziaria, non tanto paradossalmente causata dalle politiche keynesiane di Tokyo. Il punto è che se la Bank of Japan dicesse «va bene, avete ragione. La discrepanza nei tassi genera rischi, quindi aumenterò gradualmente i saggi di interesse», i mercati finanziari abbandonerebbero immediatamente le posizioni detenute in altre monete trasformando la fragilità da potenziale a reale.
Joseph Halevi
Come prevedibile, nella riunione dei ministri finanziari del G7 si è ufficialmente parlato poco dello yen, il quale costituisce un problema non tanto per le esportazioni quanto per la sua dimensione finanziaria. Se si volesse discutere veramente degli squilibri dei conti correnti con l'estero si dovrebbero mettere sullo stesso piano le eccedenze della Cina, del Giappone e della Germania. L'eccedenza di quest'ultima - cui automaticamente si abbina quella olandese - per l'Unione europea e per l'Italia, è un vero macigno al collo della ripresa ed è molto più grave del surplus giapponese orientato prevalentemente verso l'Asia e l'America del nord. Prodi lo sa benissimo tuttavia tace. L'Europa è come quel reame ove il re è nudo ma non lo si deve dire.
La debolezza dello yen riguarda invece i sacri mercati finanziari ed anche per questo bisogna parlarne in sordina. L'interna vicenda mostra l'inanità delle politiche keynesiane, al di fuori di quelle fondate sulle spese militari e sull'indebitamento privato in atto negli Usa. Il Giappone vuole mantenere la sua gracile ed incerta ripresa. A tal fine gli serve una moneta debole, soprattutto per arginare lo slittamento delle proprie industrie verso la Cina. La Bank of Japan da anni sta assecondando gli obiettivi macroeconomici del governo mantenendo dei tassi di interesse prima nulli ed ora dello 0,25%. I bassi tassi servono anche a rendere più agevole il peso del debito pubblico, dato che Tokyo ha seguito tutte le prescrizioni keynesiane: bassi tassi ed alto deficit pubblico. La ripresa non è venuta dalla combinazione di queste politiche, bensì dalla crescita dell'export e soprattutto dall'export verso la Cina ed il resto dell'Asia.
I bassissimi tassi di interesse praticati dalla banca centrale giapponese hanno però dato la stura al cosiddetto yen carry trade. In parole povere le società finanziarie, anche quelle nipponiche, prendono a prestito yen ai tassi praticati in Giappone. Queste somme vengono poi cambiate in dollari americani, australiani, neozelandesi ed in euro per essere piazzati in titoli ed obbligazioni legati ai più alti tassi di interesse praticati nelle suddette zone. Lo yen carry trade, cui sono legati molti prodotti derivati, ha svolto un ruolo molto importante nel permettere il rifinanziamento dei paesi altamente deficitari nei conti esteri - come l'Australia e la Nuova Zelanda - nonché del principale paese debitore sia sul piano estero che interno, cioè gli Usa. Tuttavia la forte discrepanza nei tassi che è all'origine del commercio speculativo di yen genera la paura dell'instabilità finanziaria. Una riduzione significativa dello spread (così si definiscono le discrepanze) tra i tassi nipponici e gli altri tassi può portare ad un capovolgimento repentino del processo. Gli speculatori potrebbero abbandonare le posizioni in altre monete, creando una classica crisi finanziaria.
E' difficile che possa succedere per l'insieme dell'Europa, ma per singoli paesi è già successo. Verso la metà del 2006 due economie sono entrate in fibrillazione: quella islandese e quella ungherese. Ambedue caratterizzate da altri deficit esteri e dalla necessità di finanziarli attirando capitali, vendendo buoni ad alti tassi di interesse. E' bastato che la Bank of Japan annunciasse che abbandonava la politica monetaria di tassi zero perché i soldi defluissero da questi due paesi. L'Islanda, il cui pil pro capite è tra i più alti al mondo e con una disoccupazione quasi inesistente, è oggi i recessione con disoccupazione in aumento.
Un altro paese preso di mira è la Nuova Zelanda il cui ministro delle finanze cerca di scoraggiare l'afflusso forsennato di soldi nel paese - cioè l'acquisto di titoli da parte delle società finanziarie straniere - dicendo apertamente che è una pazzia.
Siamo in una classica situazione di fragilità finanziaria, non tanto paradossalmente causata dalle politiche keynesiane di Tokyo. Il punto è che se la Bank of Japan dicesse «va bene, avete ragione. La discrepanza nei tassi genera rischi, quindi aumenterò gradualmente i saggi di interesse», i mercati finanziari abbandonerebbero immediatamente le posizioni detenute in altre monete trasformando la fragilità da potenziale a reale.