IL DUBBIO NON E' PIACEVOLE, MA LA CERTEZZA E' RIDICOLA (1 Viewer)

DANY1969

Forumer storico
(Voltaire)
... un aforisma applicabile su vasta scala, a Voi la scelta su quale più Vi aggrada (ho pure fatto la rima :melo:)
Buona settimana a tutti :)
Oggi iniziamo la spedizione in bike in Ladakh... 1300 km di pedalata su 16000 m di dislivello :eek:, passando per Khardung La... il Passo ciclabile più alto al mondo (5600 m) :)

Monastero Thikse
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Namshang La (5000m)
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max54

attenti alle penne
Dany, sei sempre in giro??beata te , anche se sarai stremata dalla fatica
qui piove, governo latro
 

Val

Torniamo alla LIRA
Perché un porto intitolato a Giuseppe Garibaldi sulla riva del lago di Lecco?

In ricordo del 6 giugno 1859, quando lui in persona arrivò in città, stabilendosi all’albergo Croce di Malta.

Erano già giunti il 29 maggio, presso la stessa struttura, il commissario regio
e gli ufficiali garibaldini della compagnia Ferrari, arrivati in battello in città, da Como.

Gli austriaci avevano sgomberato precipitosamente Lecco, dopo la sconfitta subita a San Fermo il 27 maggio,
nella battaglia che aveva aperto alle brigate garibaldine le porte di Como.

Il 29 maggio il Consiglio Comunale di Lecco, nel corso di una seduta straordinaria,
proclamò la sua adesione al Regno d’Italia, con Vittorio Emanuele II.

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La sosta di Garibaldi a Lecco fu, comunque, molto breve: la sera stessa del 6 giugno ripartì infatti alla volta di Bergamo,
dopo aver rivolto un entusiasmante discorso ai volontari ed alla popolazione dal balcone dell’albergo Croce di Malta,
storica struttura residenziale che le nuove generazioni non possono conoscere perché ha chiuso i battenti ormai da oltre vent’anni,
sul finire dello scorso secolo Novecento.

Il porto Garibaldi rimase tale sino al 16 novembre 1884,
quando avvenne la cerimonia inaugurale del nuovo monumento al comandante dei Mille,
collocato nella piazza della città, che divenne proprio piazza Giuseppe Garibaldi.

L’inaugurazione del monumento avvenne con grande concorso di popolo,
in modo particolare di reduci garibaldini provenienti da tutta la Lombardia.

Diversi colpi di cannone salutarono lo scoprimento della statua, fra ondeggiare di camice rosse e di drappi tricolori.

Lecco poteva vantare un numero considerevole di reduci garibaldini:
i nomi sono stati scolpiti nelle pareti laterali del “tronco” che sostiene la statua di Giuseppe Garibaldi.

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Barche nel porto

Il volume “Lecco ed i lecchesi nel 1859” di Edmondo ed Adele Martini,
stampato da fratelli Grassi per iniziativa del Comune di Lecco, con il sindaco Angelo Bonaiti,
pubblica un’eccezionale foto del 1903, che vede oltre 50 garibaldini lecchesi reduci dalle battaglie risorgimentali.

Sono stati garibaldini i cinque fratelli Torri Tarelli, ricordati nel gruppo bronzeo
posizionato in alto alla lapide presso la casa di famiglia, nella vecchia contrada lecchese Maddalena.

L’opera si deve allo scultore Angelo Mantegani.

L’epigrafe della lapide è di Giovanni Bertacchi, il poeta delle Alpi, originario di Chiavenna.

Nel gruppo dei cinque fratelli può spiccare il ricordo di Giuseppe, tra i Mille di Garibaldi nel 1860,
tenente morto a soli 21 anni il 28 settembre dello stesso anno a Catanzaro,
per una infezione incurabile contratta durante la spedizione.

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Il bassorilievo con i cinque fratelli Torri Tarelli

Venne decorato con medaglia d’argento alla memoria.

Era rimasto infatti ferito da un proiettile ad un braccio nella battaglia intorno a Palermo.

La lesione venne medicata in modo sommario e, durante la marcia in Calabria, divenne mortale per complicazioni infettive.

E’ deceduto all’ospedale di Catanzaro, nella città dove era entrato con le prime avanguardie garibaldine del quasi leggendario Nino Bixio.


Nell’estate 1991, Giuseppe Pupa, dirigente della Camera di Commercio di Lecco, nativo di Catanzaro,
trascorrendo le vacanze nella città nativa, volle ricercare negli archivi comunali il certificato di morte di Giuseppe Torri Tarelli.

E là venne rintracciato.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Dallo scoppio della pandemia è passato più di un anno e le risposte economiche ai commercianti tardano ad arrivare.

Anzi, sembrano essere destinate proprio a non giungere a destinazione.

La tensione è alle stelle: i ristoratori sono scesi in piazza per chiedere al governo di essere ascoltati.

Eppure in televisione Alessia Morani si ostina a parlare di promesse coniugando i verbi al futuro.

La deputata del Partito democratico non si è tirata indietro
ed ha rilanciato una serie di proposte per andare incontro alle richieste
di chi sta continuando a pagare i danni provocati dall'emergenza Coronavirus:

"Daremo di nuovo il fondo perduto alle attività in difficoltà e chiuse per legge,
dobbiamo intervenire sui loro costi fissi come affitti e tariffe locali. Si faranno altri bonifici".

Le sue dichiarazioni hanno provocato l'ira dei ristoratori
ospiti della trasmissione Non è l'arena, condotto da Massimo Giletti in onda su La7.

"Non possiamo più aspettare. 500 morti al giorno
vuol dire che avete chiuso nel modo sbagliato e che le scelte fatte sono errate.
Non è più il tempo delle chiacchiere.
Non possiamo attendere un altro mese per i prossimi aiuti".


Sulla drammatica situazione è intervenuta anche la ristoratrice Rita Mazzotti,
che effettivamente ha messo in risalto il paradosso che si è verificato con il governo giallorosso:

"Non abbiamo risposte, non abbiamo colloqui.
Ci hanno illuso: ci hanno fatto investire per poter mettere in sicurezza i nostri locali
e chi hanno rassicurato che avremmo lavorato, ma sono passati 14 mesi e non è cambiato nulla.
Ci siamo indebitati fino al collo per andare avanti in questi mesi".


Le promesse della Morani hanno fatto sbottare pure Massimo Giletti.

Il giornalista non le ha mandate a dire e si è rivolto duramente contro gli esponenti dell'esecutivo:

"Come si fa? Dopo un anno il governo avrà fatto qualcosa? Siamo seri...".

"Siamo alla canna del gas. Che la Morani oggi ci venga a dire che ci risponderà, dopo 14 mesi, è vergognoso.
Bisogna tenere i toni bassi, tutta la solidarietà alle forze dell'ordine... ma come si fa a non capire questa gente
che ci dimostra che stanno svanendo i sogni di una vita?
Voi siete lunari, dietro un'attività c'è tutta un'organizzazione. E poi avete il coraggio di parlare della cassa integrazione...".
 

Val

Torniamo alla LIRA
Mandatelo a casa...tanto gli hanno già trovato una nuova collocazione.


E adesso il ministro Speranza finisce davvero nei guai per il caso del documento fatto sparire dall’Oms in 24 ore
e che si intreccia con la gestione italiana della pandemia.

I pm di Bergamo stanno (ri)costruendo tutta la vicenda grazie a carte, documenti e testimonianze.

E chat, soprattutto, che Massimo Giletti a “Non è l’arena” su La7 ha mandato in onda nella puntata dell’11 aprile.

Il contenuto dei messaggi è bollente, e ora la procura punta sul ministro.

Risulta, infatti, che gli uomini del ministero fecero pressioni per ritirare il documento
e concordarne uno ad hoc per salvare il governo, il ministro e la reputazione dei diretti interessati.

I messaggi scambiati tra Ranieri Guerra, vicedirettore vicario dell’Oms,
e Silvio Brusaferro, ex capo dell’Iss oggi membro del Cts, sono incredibili.

Parlano dello “scemo di Venezia”, ossia Francesco Zambon,
“colpevole” di aver redatto l’ormai noto report sulla gestione del coronavirus in Italia per conto dell’Oms
che avrebbe messo in grave imbarazzo il governo Conte 2 e il ministro della Salute Roberto Speranza.

Ranieri Guerra si sarebbe dunque subito adoperato per far rimuovere il report
e “censurare” il caso, come lui stesso conferma a Brusaferro, e per questo ora è sotto indagine.

Poi arriva la bomba politica.



Nei messaggi di Ranieri Guerra a Brusaferro si legge:

“Ho mandato scuse profuse al ministro, alla fine sono andato su Tedros (il capo dell’Oms, ndr) e fatto ritirare il documento.
Spero anche di far cadere un paio di incorreggibili teste”.

In un altro passaggio, sempre Ranieri Guerra scrive:

“Dovremmo anche vedere cosa fare coi miei scemi di Venezia. Come sai ho fatto ritirare quel maledetto rapporto”.

Risponde allora Brusaferro:

“Sul testo dell’Oms sono anche d’accordo di rivederlo assieme”.

E ancora:

“Vedo Zaccardi alle 19. Vuoi che inizia a parlargli dell’ipotesi di revisione del rapporto dei somarelli di Venezia?
Poi ci mettiamo d’accorso sul come?”, chiede Guerra a Brusaferro.

“Certo, va bene”, risponde Brusaferro.


Chi è il Zaccardi di cui parlano? E qui vengono i guai.


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Si tratta di Goffredo Zaccardi, capo di gabinetto del ministro della Salute Speranza.

Il coinvolgimento delle istituzioni, dunque, arriva fino al Ministero, come conferma poi Guerra:


“CDG (capo di gabinetto, ndr) dice di vedere se riusciamo a farlo cadere nel nulla (il report, ndr).
Se entro lunedì nessuno ne parla vuole farlo morire. Altrimenti lo riprendiamo insieme”.


Stando così le cose, emerge che:

o Zaccardi ha agito “privatamente”, tenendo all’oscuro di tutto Speranza,
e in quel caso il ministro dovrebbe farlo dimettere,
oppure Speranza era a conoscenza della situazione e allora sarebbe lui a doversi dimettere.

Cosa che ora stanno chiedendo a gran voce da più parti.

Un chiarimento immediato del ministro sarebbe un atto quanto meno necessario e scontato.


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Leggendo i capi di accusa dei pm bergamaschi nei confronti di Ranieri Guerra
balzano agli occhi alcuni aspetti che mettono in imbarazzo il ministro della Salute.

“Un meccanismo per oscurare la verità”, denuncia la trasmissione Report, c
he nella puntata di oggi, lunedì 12 aprile, prosegue sul filone di “Non è l’arena” e annuncia altre mail bollenti.

“stando alle parole captate nella chat con Brusaferro, Speranza e il suo capo di gabinetto Goffredo Zaccardi
avevano visto Guerra per concordare una nuova shared compilation, una versione di comodo.
Non più un report indipendente. L’Oms sapeva ma non ha fatto nulla.
E perché? Perché, come ammette Guerra, quel report inchiodava sia l’Italia sia l’Oms”.


Secondo la Procura di Bergamo, Guerra,
che era stato anche direttore della Prevenzione proprio al Ministero della Salute
(quindi competente sull’aggiornamento dei piani pandemici), si sarebbe speso per far rimuovere quel report.

Lui ha smentito, durante un interrogatorio, ma le chat telefoniche acquisite dai pm, e altri documenti, andrebbero in direzione opposta.


E adesso la Procura di Bergamo attende chiarimenti dall’Oms, che potrebbe però opporre l’immunità diplomatica.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Stiamo nella kacca. Non abbiamo più neanche San Gennaro o Sant'Ambrogio ai quali attaccarci
e nel nostro comune - guida pd eletti grazie ai cattocomunisti degli oratori e via dicendo,
pensate che hanno pure fondato un partito che ha preso l'11% dei voti, tutti bigotti qui nei rioni -
con 31 voti di margine sugli altri, ai quali è stato negato il diritto di ri-controllo delle votazioni,
mi salta fuori che vanno a spendere 1.000.000 - UN MILIONE DI EURO -
2 MILARDI DELLE VECCHIE LIRE - per "riqualificare" un parcheggio auto all'aperto.

CHE VERGOGNA. E CHE PIRLA TUTTI QUELLI CHE LI HANNO VOTATI.
Ma leggete le "buffonate" finali ....2 miliardi gettati al vento. 3.800 euro per ogni posto auto.

Il progetto è già in gara: entro 35 giorni sarà chiusa la procedura e – salvo ricorsi –
una volta preso contatto con l'azienda che si aggiudicherà la commessa, i lavori partiranno.

E' tutto pronto, insomma, per riqualificare il parcheggio dell'ex Piccola Velocità
e dunque un terzo dei 30 mila metri quadrati dell'area ceduta dalla ferrovie al Comune di Lecco,
il cui destino, nel complesso è ancora tutto da scrivere, come puntualizzato dal sindaco Mauro Gattinoni
che ha precisato come il futuro del “prezioso” appezzamento a ridosso di Villa Manzoni e del Politecnico,
appena fuori “le mura” del centro cittadino tipicamente inteso, dovrà essere delineato
.

Il milione di euro che sarà investito nel parcheggio rischia dunque di essere poi vanificato
da quello che sarà il progetto definitivo per la Piccola? Bho.

“Almeno il 70% delle infrastrutture non verrà perso nella fase 2” sostiene sempre il primo cittadino,
facendo riferimento allo step successivo che interesserà l'area:
all'esito della “riqualificazione” già in corso – nel cui alveo sono ricondotti i lavori per il posteggio
ed i 2 milioni a bilancio per recuperare l'immobile centrale e si partirà con la “rigenerazione”, nella sua interezza.
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L'area nel suo complesso vista dall'alto. A sinistra il terzo per il mercato, a destra il terzo per il parcheggio.

Per ora la Piccola manterrà le proporzioni attuali con un terzo di superficie considerata area mercatale,
un terzo occupato dall'edificio centrale – vincolato dalla Sovrintendenza –
e un terzo a parcheggio, con la realizzazione di un posteggio moderno.

Si stravolgerà dunque completamente la situazione attuale ereditata dal passato gestore
e caratterizzata da arretratezza tecnologia e soprattutto da trascuratezza anche dal punto di vista della sicurezza.

260 i posti auto che al termine del restyling saranno fruibili.

Di questi 6 riservati ai disabili (esterni all'area a pagamento) e 4 con la predisposizione per la ricarica delle auto elettriche (anche questi a libero accesso).

Raggiunto il parcheggio, prima delle barriere – che saranno due, con l'utenza appositamente incanalata,
una delle quali riservati dagli automobilisti dotati di Telepass che avranno dunque una corsia privilegiata come in autostrada –
è prevista un'ampia “corte” così da poter gestire internamente anche flussi consistenti senza paralizzare la circolazione su via Amendola.

Come spiegato dall'architetto Spreafico che ha curato il progetto – nell'ottica di implementare la sicurezza dell'area,
garantita altresì da un sistema di videosorveglianza integrato con “occhi” panoramici
nonché da un nuovo sistema di illuminazione che non lascerà coni d'ombra nemmeno al calar del sole.
Sempre legato a tale aspetto, anche la decisione di ben delimitare lo spazio, anche e soprattutto sul lato ferrovia,
con la creazione di una recinzione mitigata dalla presenza di un filare d'alberi.
Di nuova generazione la cassa, che permetterà il pagamento anche tramite PayPal,
come puntualizzato da Matteo Anghileri, responsabile invece della parte infrastrutturale.
Da ultimo, non meno importante, considerando il parcheggio uno “snodo” per l'accesso al centro città
previste altresì aree per le bici e per le moto, in un'ottica di “interscambio”, come sottolineato dall'assessore alla mobilità Renata Zuffi
chiamata a guidare la transizione ecologica di Lecco e dunque a amministrare quel cambiamento che dovrà essere in primis culturale
per “arrivare a considerare il mezzo pubblico come una opportunità, da prendere non perchè non ho altre alternative ma perchè è il meglio che c'è”.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Sono aria fresca le parole di Francesco Vaia, direttore sanitario dell’Istituto nazionale delle malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma,
uno dei pochi scienziati in prima linea contro il coronavirus a dispensare una narrazione «aperturista»,
invocando a più riprese l’allentamento delle restrizioni.



Lo ha fatto anche oggi, nel corso di un’intervista rilasciata al Messaggero:

«Dobbiamo tornare a vivere. E sfruttare la bella stagione per far ripartire le attività all’aperto».

Lo dicono anche i dati a nostra disposizione:
«possiamo conquistare nuovi spazi di socialità. Allora anche noi dobbiamo fare in modo che la nostra società riapra sempre di più».


L’appello di Vaia è chiaro:
dobbiamo tornare alla normalità: quella vera,
non il «nuovo normale» che sembra attenderci
e non avere più niente a che fare con la vita prima del marzo 2020.


Ed insiste:
«dobbiamo tornare a vivere. E visto che all’aperto le probabilità di trasmettere il virus si riducono,
se si rispettano le distanze e si usano le mascherine,
allora è venuto il momento di una graduale ripresa delle attività ricreative, culturali ed economiche».



Occorre «un nuovo equilibrio tra protezioni e normalità», gradualmente spostato verso la seconda.
«Per i cittadini, ma anche per le imprese».

Nella sua professione una dichiarazione simile è quasi un unicum: tranne pochissimi altri scienziati,
nessuno sembra interessato alla tenuta economica e sociale del Paese.

E invece Vaia arriva a rivolgersi anche ai sindaci, che «sono il tessuto connettivo del nostro Paese.
Anche da loro deve partire una spinta perché l’Italia torni a respirare.
All’aperto molte attività possono essere consentite, ma servono comunque ragionevolezza e organizzazione».

Secondo Vaia,
«nei parchi e nelle aree pubbliche si possono ricostruire occasioni di ritorno alla vita normale.
Dobbiamo sfruttare l’opportunità che ci offrirà la bella stagione e che ci consentirà di restare all’aperto molto più a lungo».


Le sindromi depressive,
il confinamento forzato,
la mancanza di moto contribuiscono ad abbassare le difese immunitarie:
un controsenso, in tempo di epidemia.


«Cittadini depressi e chiusi in casa per sempre hanno anche un sistema immunitario peggiore. Difese peggiori.
Sia chiaro. Il virus c’è ancora, non è scomparso. Ma all’apertomsi devono individuare possibilità di svago.
Di praticare sport.
Garantire l’offerta di eventi culturali. Anche aree di ristoro».


Vaia non dimentica nemmeno l’economia, che deve ripartire al più presto.

«Le possibilità di contagiarsi all’aperto sono minori: su questo penso che possiamo essere tutti d’accordo».


Confidando anche in terapie alternative,

come gli «anticorpi monoclonali che ormai stiamo usando allo Spallanzani

e che hanno confermato una percentuale molto alta di efficacia nell’evitare alle persone di finire in ospedale».
 

Val

Torniamo alla LIRA
Sono aria fresca le parole di Francesco Vaia, direttore sanitario dell’Istituto nazionale delle malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma,
uno dei pochi scienziati in prima linea contro il coronavirus a dispensare una narrazione «aperturista»,
invocando a più riprese l’allentamento delle restrizioni.




Lo ha fatto anche oggi, nel corso di un’intervista rilasciata al Messaggero:

«Dobbiamo tornare a vivere. E sfruttare la bella stagione per far ripartire le attività all’aperto».

Lo dicono anche i dati a nostra disposizione:
«possiamo conquistare nuovi spazi di socialità. Allora anche noi dobbiamo fare in modo che la nostra società riapra sempre di più».


L’appello di Vaia è chiaro:
dobbiamo tornare alla normalità: quella vera,
non il «nuovo normale» che sembra attenderci
e non avere più niente a che fare con la vita prima del marzo 2020.


Ed insiste:
«dobbiamo tornare a vivere. E visto che all’aperto le probabilità di trasmettere il virus si riducono,
se si rispettano le distanze e si usano le mascherine,
allora è venuto il momento di una graduale ripresa delle attività ricreative, culturali ed economiche».



Occorre «un nuovo equilibrio tra protezioni e normalità», gradualmente spostato verso la seconda.
«Per i cittadini, ma anche per le imprese».

Nella sua professione una dichiarazione simile è quasi un unicum: tranne pochissimi altri scienziati,
nessuno sembra interessato alla tenuta economica e sociale del Paese.

E invece Vaia arriva a rivolgersi anche ai sindaci, che «sono il tessuto connettivo del nostro Paese.
Anche da loro deve partire una spinta perché l’Italia torni a respirare.
All’aperto molte attività possono essere consentite, ma servono comunque ragionevolezza e organizzazione».

Secondo Vaia,
«nei parchi e nelle aree pubbliche si possono ricostruire occasioni di ritorno alla vita normale.
Dobbiamo sfruttare l’opportunità che ci offrirà la bella stagione e che ci consentirà di restare all’aperto molto più a lungo».


Le sindromi depressive,
il confinamento forzato,
la mancanza di moto contribuiscono ad abbassare le difese immunitarie:
un controsenso, in tempo di epidemia.


«Cittadini depressi e chiusi in casa per sempre hanno anche un sistema immunitario peggiore. Difese peggiori.
Sia chiaro. Il virus c’è ancora, non è scomparso. Ma all’aperto, si devono individuare possibilità di svago.
Di praticare sport.
Garantire l’offerta di eventi culturali. Anche aree di ristoro».


Vaia non dimentica nemmeno l’economia, che deve ripartire al più presto.

«Le possibilità di contagiarsi all’aperto sono minori: su questo penso che possiamo essere tutti d’accordo».


Confidando anche in terapie alternative,

come gli «anticorpi monoclonali che ormai stiamo usando allo Spallanzani

e che hanno confermato una percentuale molto alta di efficacia nell’evitare alle persone di finire in ospedale».
 

Val

Torniamo alla LIRA
Quanto sta accadendo a Roma è inaccettabile e lo diciamo senza mezzi termini.

La polizia sta bloccando ristoratori ed esercenti autonomi alla stazione di Termini e nei vari snodi di accesso alla Capitale
.

Si tenta così di impedire la seconda manifestazione a Roma di IoApro.

Ed è vergognoso, perché ristoratori e commercianti italiani hanno tutto il diritto di protestare scendendo in piazza.

Chiedono semplicemente di poter lavorare, cosa che viene negata loro da mesi con le chiusure imposte dal governo.

Devono poter gridare una rabbia del tutto comprensibile,

impedirlo non è tollerabile ed è un insulto a qualunque libertà garantita dalla legge.

Si straccia così un diritto costituzionale sacrosanto. E’ grave, molto grave.



Sulla pagina Facebook di IoApro, i manifestanti hanno intanto pubblicato video
in cui denunciano “una vergogna che devono vedere tutti”.

La questura di Roma ieri sera, all’ultimo momento, ha infatti negato l’accesso alla piazza di Montecitorio ai manifestanti.

“E’ stata formalmente vietata per la giornata di domani ai rappresentanti del movimento IoApro in quanto già concessa
e, quindi occupata da un’altra manifestazione regolarmente preavvisata nei giorni precedenti,
che si svolgerà nella stessa fascia oraria con la prevista partecipazione di 100 persone, alla luce delle disposizioni anti-Covid“.

Di conseguenza, si legge in una nota:

“Al fine di non generare false informazioni circa la possibilità di accedere alla manifestazione nel numero di 20.000 persone
così come annunciato sui social network e per evitare i conseguenti provvedimenti si ribadisce che la manifestazione pubblicizzata non è autorizzata”.


Ma nonostante i blocchi delle forze dell’ordine non pare proprio che i manifestanti di IoApro abbiano intenzione di arrendersi.

Non demordono e rilanciano: “Andremo in piazza lo stesso, saremo 20mila”.

C’è chi si sta recando a Roma, da tutta Italia, con i propri mezzi.

Visto che anche molti pullman – ieri ne erano stati annunciati 130 – sono stati bloccati.


“Nessuno ci può fermare, è un nostro diritto manifestare”.
 

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