Il caso Argentina: incubo default e economia in frenata (1 Viewer)

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Forumer storico
ma come si fa a criticare l'Argentina, noi italiani che non siamo falliti soltanto perche' alle banche che controllano i derivati non va bene un default in europa!
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il default dell'Italia, della Grecia e degli Usa quelli si hanno tutte le scuse e possono anche sopprimere nelle rivolte le popolazioni per autocerebrarsi poi con riviste (times) e nobel della pace e uomini dell'anno conferiti a banchieri!
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una signora con borsettina firmata (FMI) che rappresenta gli interessi dei ricchi e potenti pensa di piegare una nazione con dei numeri. E' come cercare di cambiare le leggi della fisica imponendo ai protoni di girare intorno agli elettroni perche' i derivati delle banche lo impongono!
 

tontolina

Forumer storico
Crisi Argentina colpisce anche l’Italia: le società coivolte
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Mercato azionario59 minuti fa (13.08.2019 10:37) Reuters.
Di Mauro Speranza

Investing.com - Mattinata caratterizzata dalla vendite a Piazza Affari dove il Ftse Mibperde lo 0,80%, tra le peggiori in Europa.

Proseguono le incertezze collegate alla crisi in Argentina, dove ieri l’indice principale Merval ha ceduto il 38% e il peso argentino è crollato nei confronti del dollari.
Il crollo era arrivato dopo la sconfitta alle primarie di Mauricio Macri, presidente argentino dal 2015 quando aveva battuto il peronismo e il suo predecessore Cristina Fernandez de Kirchner.

Macri paga il prezzo delle promesse elettorali deluse e di una crisi che prosegue dopo che il Paese aveva sfiorato il default accedendo per un soffio agli aiuti del Fondo Monetario Internazionale (FMI).
Le scelte di Macri avevano portato ad una continua svalutazione del peso, alla frenata dei consumi e degli investimenti, a cui si aggiunge un’inflazione al 50%, rendendo molto difficile il rispetto dei target di pareggio del bilancio 2019.

“Il rischio di un peso argentino a quota 80 contro dollaro entro Natale, è tutt’altro che remoto”, spiega l’analista Enzo Farulla al Sole 24 Ore. “Il debito pubblico, attorno all’80% del Pil, non è a livelli allarmanti e i titoli di debito in valuta straniera prevedono scadenze lontane, nel 2033 e 2038. Non vi sono perciò timori per un default analogo a quello del 2001, quando l’esposizione debitoria fu di dimensioni ragguardevoli”, conclude l’esperto.

“Il vero timore è rappresentato dalla possibilità che il nuovo governo peronista, versione locale dei sovranisti, possa chiedere di rinegoziare l’accordo con l’FMI”, aggiunge Yerlan Syzdykov, global head dei Mercati emergenti presso Amundi Asset Management, “ricominciando un giro di tango che gli investitori conoscono fin troppo bene e di cui farebbero volentieri a meno”.

La grave crisi nel paese continua a influenzare i mercati, compreso quello italiano.
Tra i titoli più esposti troviamo Tenaris (MI:TENR) che oggi cede oltre l’1%, dopo la chiusura a -3,29% arrivata ieri nel mezzo della crisi. L’azienda produttrice di tubi per il mercato petrolifero vanta una presenza storica nel paese sudamericano e possiede in Argentina un quinto della sua capacità produttiva.
Male anche Saipem (MI:SPMI) che aggiunge un 1% alle perdite di ieri (-2,44%). Oltre alle ripercussioni generali sul mercato petrolifero argentino, il gruppo ha ottenuto diversi contratti nell’area a partire dal 2018.
Tra gli altri titoli esposti in Argentiamo troviamo Pirelli (MI:PIRC), oggi in flessione dell’1,56% dopo il -0,93% di ieri, CNH Industrial (MI:CNHI) che perde il 2% in due giorni, Salini Impregilo (MI:SALI) che dopo il -4,40% della giornata di ieri, cede un altro 1% e Fincantieri (MI:FCT) con un -5% da ieri.
 

tontolina

Forumer storico
La verità è che oramai alle ricette neoliberiste non crede più nessuno nemmeno i mercati finanziari,e in questo caso per i mercati vale pure una doppia preoccupazione:
la debolezza delle ricette neoliberiste,che è il nuovo orizzonte del capitalismo internazionale, e il ritorno elettorale al populismo peronista che è sempre un pericolo dietro l'angolo ma solo per il sudamerica.

Argentina, “la sconfitta di Macri figlia delle logiche fallimentari del Fmi”

14 Agosto 2019, di Alberto Battaglia
Argentina, "la sconfitta di Macri figlia delle logiche fallimentari del Fmi" | WSI

La sconfitta del presidente argentino Mauricio Macri alle primarie, in vista delle prossime elezioni del 27 ottobre, è stata in gran parte attribuita alla durezza delle politiche economiche dell’ultimo anno. L’austerità è stata ancora una volta, la contropartita necessaria affinché il Fondo Monetario Internazionale accordasse all’Argentina un prestito da 57 miliardi di dollari – il più grande mai erogato dal Fondo. Prima di questo passo, compiuto lo scorso anno, la presidenza Macri aveva avviato una pericolosa tendenza all’indebitamento (aumentato di 30 punti sul Pil solo fra 2017 e 2018) unita ad una maggiore libertà del tasso di cambio, che ha consentito una svalutazione immediata del 30% nel dicembre 2015 e poi proseguita negli anni successivi.
Da quando Macri è entrato in carica il peso argentino ha ceduto oltre l’80% del suo valore. Questo, peraltro, non ha consentito grandi miglioramenti al saldo delle partite correnti argentine fra 2015 e 2018 – e solo nel corso dello scorso anno le cose sono migliorate su questo versante grazie a una durissima dieta di austerità. Nel frattempo, però, il Pil è crollato, con quattro trimestri consecutivi a segno meno (l’ultimo, il primo quarto del 2019, è stato archiviato con un -5,8%).

Secondo Jayati Ghosh, professoressa di economia presso Jawaharlal Nehru University a New Delhi, questo tracollo è un parente stretto di quello visto in Grecia, dopo gli aiuti internazionali che non hanno consentito un vero e proprio default. Gli errori commessi dal Fmi in Grecia sono stati apertamente riconosciuti nel 2013. Ma, secondo quanto scrive Ghosh in un commento pubblicato su Project Syndacate, poco è cambiato nell’atteggiamento del Fmi rispetto ai suoi interventi finanziari sulle economie in crisi.



“In cambio della liquidità del Fmi, l’Argentina ha dovuto attuare enormi tagli, al fine di riequilibrare il suo bilancio primario nel 2019 e ridurre significativamente il suo deficit con l’estero. Macri ha accettato – e l’economia è costantemente peggiorata”, afferma la professoressa, “oggi, l’inflazione sta superando il 55%, il tasso di povertà ha superato il 30% e la produzione e l’occupazione si stanno riducendo. L’Argentina non si avvicina in alcun modo agli obiettivi del Fmi sugli investimenti e sulla crescita del Pil, che sono già stati rivisti due volte. Ulteriori revisioni al ribasso stanno arrivando senza dubbio”.

Uno dei principi di fondo a sostegno della cosiddetta austerità espansiva è che la prudenza nel bilancio pubblico e le privatizzazioni conducano a un brusco aumento degli investimenti esteri verso il Paese in difficoltà, con la possibilità di far ripartire la crescita. “Un’economia in rovina, dovrebbe essere chiaro, non è attraente per il capitale privato”, argomenta Ghosh, citando un ulteriore piano di aiuti Fmi che sarebbe destinato al peggio, quello approvato lo scorso marzo per l’Ecuador. In attesa del ritorno degli investitori esteri, l’Argentina, come prima ancora era toccato alla Grecia, subisce le conseguenze sociali della crisi economica. Lo scenario, adesso, è che peronismo di sinistra possa ritornare al potere diminuendoo ulteriormente l’attrattività del Paese per i capitali esteri.


“Come può l’Fmi giustificare un approccio [verso i prestiti internazionali] con esperienze storiche così scarse?” si interroga l’accademica indiana, “una spiegazione potrebbe essere la mancanza di responsabilità che permea la burocrazia dell’istituzione, fino ai vertici”.
 

newport

eternoritorno
Dice Enzo Farulla, analista, già Raymond James, esperto di mercati latinoamericani, al Sole 24 Ore: “Il rischio di un peso argentino a quota 80 contro dollaro entro Natale, è tutt’altro che remoto. Il debito pubblico, attorno all’80% del Pil, non è a livelli allarmanti e i titoli di debito in valuta straniera prevedono scadenze lontane, nel 2033 e 2038. Non vi sono perciò timori per un default analogo a quello del 2001, quando l’esposizione debitoria fu di dimensioni ragguardevoli».

(startmag 13/8/2019)
 

tontolina

Forumer storico
a conclusione dell'art. riportato c'è scritto:
Uno dei principi di fondo a sostegno della cosiddetta austerità espansiva è che la prudenza nel bilancio pubblico e le privatizzazioni conducano a un brusco aumento degli investimenti esteri verso il Paese in difficoltà, con la possibilità di far ripartire la crescita.

Il problema per un paese che ricorre sistematicamente agli investimenti esteri è che i proventi da capitali di rischio sono assai più remunerativi dei rendimenti dei titoli pubblici.
In buona sostanza l'ingresso dei capitali esteri in un paese rappresenta per chi vi ricorre un sollievo immediato a cui segue però nel medio lungo un aggravamento della situazione debitoria con l'estero, cioè è un forma di indebitamento più onerosa per la bilancia dei pagamenti che se si richiedesse in proprio all'estero dei soldi con titoli pubblici.

E poi c'è da chiedersi "perchè", perchè dei capitali esteri troverebbero ingresso in paesi poveri bisognosi di rilancio trovandosi sotto le tutele di qualche grande organismo internazionale tipo il FMI.
Perchè molte società transnazionali giocano sulla povertà diffusa per realizzare delocalizzazioni profittevoli di attività a basso valore aggiunto.
Che succede con le attività a basso valore aggiunto ?
che ci si mette a produrre bene strumentali di basso profilo di una più complessa filiera che incidono assai poco sul disavanzo con l'estero,richiedono nel contempo un costo del lavoro assai basso,"e che resti tale",e sono facilmente spostabili ai primi sussulti sindacali,lasciando però profonde scie di disagio e di sconvolgimenti sociali.

Da quanto detto sopra e che vale pure per noi pari pari,per molti ns casi,si capisce bene che non saranno certo i capitali esteri come conseguenza di una suicida austerità a salvare l'argentina.
L'argentina si salva solo se il ricorso alla ricetta tradizionale keynesiana viene fatto utilizzando una spesa pubblica più sana,cioè più informata a criteri di efficenza e miglioramento produttivo del paese.
Insomma l'Argentina si salverà,se si salverà, solo se saprà guardare dentro alla ricetta keynesiana e non solamente se l'adotterà,con un classe dirigente tutt'intenta a farne un bandiera per manovre elettoralistiche
e di consenso. Lo so che è un pò un'analisi stucchevole,che sembra avere dell'ovvio ma purtroppo l'Argentina viene già nel passato da sistematici ricorsi a politiche di spesa pubblica e di intervento statale,che però non hanno risolto il problema,anche se al contrario in altri parti del mondo la cosa ha funzionato,per cui forse la natura del problema è da cercare in altri ambiti che non siano specificatamente quelli economici.
concordo in toto :)
 

tontolina

Forumer storico
Il default dell’Argentina e il brutto pasticcio della banca centrale
L'Argentina ha un grave problema con la sua banca centrale e ancor prima che i peronisti tornino al governo non sembra esservi soluzione, se non quella di un ulteriore aumento del debito pubblico.
di Giuseppe Timpone , pubblicato il 10 Settembre 2019 alle ore 14:38
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La crisi argentina ha avuto origine nel corso del 2018 da due pasticci. Uno è stato causato dal governo e l’altro dalla banca centrale. Il primo si è mostrato timido nel tagliare il deficit, nonostante avesse ottenuto una forte apertura di credito dai mercati finanziari nel biennio precedente, grazie alla quale aveva potuto finanche emettere un bond a 100 anni a tassi relativamente bassi.

La seconda è apparsa poco indipendente dal potere politico, facendo marcia indietro sulla stretta monetaria e al contempo alzando le previsioni sull’inflazione. I mercati hanno finito per non capire più cosa stesse accadendo e nel giro di pochi mesi è stato il patatrac. Il cambio tra peso e dollaro, che Macri aveva trovato a quota 9, pur non libero di fluttuare fino al suo insediamento, già chiudeva il 2017 a poco meno di 19, mentre oggi viaggia a 56, avendo oltrepassato a tratti e ampiamente i 60.
Argentina in calma apparente con i controlli sui capitali, recupera il bond a 100 anni

La banca centrale, dicevamo, è concausa forte di questo disastro e molto probabilmente provocherà, se non il default esplicito come all’inizio degli anni Duemila, quanto meno una ennesima ristrutturazione del debito sovrano argentino. Come? L’istituto possedeva alla fine di agosto debiti cosiddetti “Leliq” per 1.316,5 miliardi di pesos, qualcosa come oltre il 10% del pil del 2018. Di cosa parliamo? Buenos Aires ha una pessima storia di monetizzazione del debito. I governi spendono e la banca centrale finanzia i deficit. Questo gioco non è gratis, perché produce inflazione, cioè impoverisce le famiglie e finisce con l’allontanare gli investimenti per l’impossibilità di prevedere il livello dei prezzi (ricavi) futuri.

Per questo, il presidente Mauricio Macri aveva cercato di porre un freno alla pratica, imponendo la sterilizzazione degli anticipi di cassa di fatto mai restituiti. In che senso? Se la banca centrale finanzia il deficit del governo, inietta liquidità e fa accelerare la crescita dei prezzi. Per evitare l’inflazione, al contempo la banca emette titoli del debito e così rastrella sui mercati liquidità. In sostanza, il governo evita di indebitarsi, ma scarica l’onere all’istituto.

Tuttavia, questi prestiti richiesti al mercato costano e per pagare gli interessi il governatore è stato nel tempo costretto a monetizzarli, non disponendo di attivi sufficienti alla loro copertura. Paradossalmente, quindi, le operazioni di sterilizzazione hanno portato in misura crescente alla monetizzazione del debito stesso, facendo esplodere l’inflazione.
Il debito argentino salirà ancora?
Il Fondo Monetario Internazionale si è accorto di tale incongruenza e ha preteso nel 2018, in fase di erogazione del maxi-prestito da 56 miliardi di dollari, la soppressione delle vecchie Lebac (Letras de Banco Central) con le Leliq, la cui durata è più corta (settimanale) e che possono essere emesse solamente nei confronti delle banche. Gli interessi sono esplosi nel frattempo all’85%, per cui questo meccanismo perverso tra prestiti e rinnovo a interessi crescenti e conseguente necessità della loro monetizzazione ha costretto da ultimo la banca centrale a mettere le mani sulle riserve valutarie per ben 8 miliardi di dollari nel solo mese di agosto, al fine di porre un limite ai crolli del cambio e cercare così di riprendere il controllo della politica monetaria.

Ma al netto delle passività, le riserve valutarie argentine ammontano ad appena 15 miliardi, per cui si sono resi necessari controlli sui capitali per frenarne la caduta. Basterà? Improbabile. I debiti dell’istituto sono ancora lì e devono essere rinnovati settimana dopo settimana e la monetizzazione degli interessi impedisce all’inflazione di decelerare a ritmi consistenti. Per spezzare l’incantesimo occorre un’opera di sdebitamento, ovvero lo spostamento delle passività a carico dello stato. Solo così, il governatore avrebbe modo di combattere efficacemente l’inflazione, anche se ciò implica un aumento del debito pubblico ufficiale (alla fine si tornerebbe a far pagare chi effettivamente ha originato i “buchi”), cosa che verosimilmente porterebbe o alla ristrutturazione delle scadenze o al default.

Argentina: verso ristrutturazione del debito, ma non tutto

L’Argentina sotto Macri ha accresciuto al 70% il debito in valuta straniera, mentre quello totale valeva intorno all’86% del pil a fine 2018.

Con le Leliq si oltrepasserebbe il 100% e Buenos Aires ha messo le mani avanti, chiedendo un “reprofiling” dei 44 miliardi ottenuti già dall’FMI. Un disastro, che rischia di travolgere la credibilità anche dell’organismo internazionale, che ormai sembra disilluso sulle reali capacità dello stato sudamericano di rimettersi in carreggiata stabilmente e su una traiettoria di crescita sostenibile. Ciliegina sulla torta: le elezioni presidenziali di ottobre/novembre con ogni probabilità riporteranno a Casa Rosada un peronista, ossia il candidato Alberto Fernandez, fautore dei bassi tassi, del deficit spending, del controllo sui capitali e della rinegoziazione del debito con l’FMI. E la banca centrale sarà ancora meno indipendente, mentre l’inflazione rischia di galoppare senza fine e il cambio di collassare senza più alcun “floor”.
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tontolina

Forumer storico
Argentina: torna l’incubo del default sul debito, e oggi dovrebbe pagare 410 milioni di interessi
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Il presidente argentino eletto Alberto Fernandez e il vicepresidente Cristina Fernandez de Kirchner (ex presidente dal 2007 al 2015 ed ex first lady, come moglie del presidente Nestor Kirchner, dal 2003 al 2007) salutano i sostenitori presso la sede del partito a Buenos Aires dopo la vittoria alle elezioni presidenziali argentine. Alejandro Pagni/AFP via Getty Images
Ci sono volute 15 ore di dibattito non stop alla Camera Bassa argentina prima di trovare l’accordo per far passare le legge finanziaria d’emergenza che conferisce al neo-presidente, Alberto Fernandez, il mandato per rinegoziare con i creditori internazionali i termini del debito. E che il carattere del provvedimento fosse davvero emergenziale, lo dimostra il fatto che lo stesso Fernandez abbia inaugurato ufficialmente il suo mandato solo il 10 dicembre scorso. Detto fatto, la scrittura di quella manovra è stata la sua immediata e unica proprietà. Passata il 20 dicembre per 134 voti a 110 e ora al vaglio del Senato per gli emendamenti, soprattutto quelli al discusso articolo che vedrebbe il presidente poter operare con mano libera sui vertici delle aziende a controllo e partecipazione statale, già ridimensionato come conditio sine qua non per ottenere la fine dell’ostruzionismo dell’opposizione. Insomma, un’altra volta Buenos Aires si trova costretta a ristrutturare il proprio debito.

Questa volta, però, la situazione appare differente. Sia a livello tecnico e procedurale che, soprattutto, politico.
Il dato di fatto principale sta tutto in una data, quella appunto del 23 dicembre, quando l‘Argentina dovrebbe pagare gli interessi per 410 milioni di dollari legati a un bond che va a maturazione. Ma il ministro delle Finanze, Diego Bastourre, ha già reso noto che la scadenza non verrà onorata e ha avanzato una proposta di roll over alternativo ai detentori di quella carta, fra cui il gigante mondiale dell’obbigazionario, Pimco: in sostituzione del dovuto in capitale, otterranno nuovi bond con uno spread che dovrebbe essere del 2% superiore al Badlar, il tasso benchmark applicato in Argentina ai certificati di deposito. Non proprio una proposta irrinunciabile.

E la questione diventa dirimente, perché l’esito di questa negoziazione potrebbe influenzare pesantemente anche le altre scadenze attese da qui alla fine dell’anno, quando Buenos Aires sarebbe contrattualmente chiamata a onorare pagamenti su debito a maturazione per 66 miliardi di pesos, circa 1,1 miliardi di dollari. E non basta. Perché se in Italia il dibattito sulle oscure clausole Cac (quelle che regolamentano la possibilità di azione collettiva a fronte di un default obbligazionario), inserite nei bond dal 2014 come risposta alle crisi dei debiti sovrani e alle conseguenti ristrutturazioni, è rimasto confinato al can can propagandistico sul Mes, Buenos Aires fa leva proprio sul discrimine interpretativo legato a quel meccanismo per costringere i creditori privati ad accettare il proprio “ricatto” per una dilazione su tempi e modi.

Alla base di tutto ci sono due parole chiave, quasi una formula magica: uniformly applicable. E’ questa regola che garantisce forza alle clausole di azione collettiva, visto che se il governo interessato decide di siglare un singolo accordo con i detentori, questo principio implica che tutti gli investitori debbano ricevere il medesimo trattamento, a prescindere da quale bond detengano e per quale valore facciale. Si tratta del cosiddetto single-limb vote, il quale richiede l’approvazione del 75% di chi detiene il debito in oggetto: nel caso dell’Argentina, all’atto pratico significa che chiunque abbia in portfolio titoli con maturazione che va dal 2021 al 2117 riceverà il medesimo trattamento in sede di ristrutturazione del debito.

E, paradossalmente, in molti potrebbero essere tentati o “forzati” dall’offrire tempo al governo argentino. Non tanto per il ricasco finanziario, quanto perchè quello di Buenos Aires rappresenterebbe il primo caso di applicazione pratica delle Cac dalla loro introduzione. A far paura, quindi, non sarebbe tanto un déjà vu legato ai 95 miliardi di dollari di debito su cui l’Argentina fece default nel 2001, salvo rinegoziarne la gran parte nel 2005 e 2010, quanto il fallimento pratico di quello che doveva essere invece un meccanismo di tutela e garanzia degli obbligazionisti. Il rischio di un impasse legale, in parole povere, fa più paura dell’ipotesi di un rinvio delle scadenze debitorie. E, forse, anche di un potenziale haircut sui rendimenti.

In primis, alle istituzioni sovranazionali che spinsero per l’introduzione delle Cac e la loro implementazione, ovviamente solo teorica, proprio al fine di evitare le battaglie che caratterizzarono la prima ristrutturazione del debito argentino, quella dei tango bonds. Se infatti si arrivasse a un muro contro muro, Buenos Aires dovrebbe negoziare quasi singolarmente con i detentori di bond in base alla classe della carta che detengono, il cosiddetto limb vote, processo che trascinerebbe all’infinito una ristrutturazione che invece richiederebbe tempi rapidi e certezze legali. Per tutti. Insomma, in palio c’è la credibilità e la fiducia nel mercato obbligazionario sovrano globale, non tanto e non solo l’insolvenza argentina.

E anche i numeri giocano la loro parte in commedia, visto che Buenos Aires deve fare fronte a un carico debitorio di circa 332 miliardi dollari, incluso il prestito monstre da oltre 50 miliardi ottenuto dal Fondo Monetario Internazionale la scorsa primavera, di fatto in quelli che si sono rivelati gli ultimi mesi di gestione di Christine Lagarde prima dell’approdo alla guida della Bce. I detentori privati fanno capo a circa 148 miliardi di bond e già oggi, di fatto, la legislazione d’urgenza varata il 20 dicembre dal Parlamento argentino rimanda ogni pagamento di quelli denominati in dollari in scadenza nella prima metà del 2020 (un controvalore di circa 9,1 miliardi) ad almeno dopo il 31 agosto 2020.

Ma tecnicalità a parte, come anticipato, è il rischio tutto politico del precedente storico a rendere la scadenza di oggi decisamente importante.
A seguito della decisione della Camera Bassa di rinviare i pagamenti sui bond in scadenza, infatti, sia Fitch che Standard&Poor’s hanno declassato il debito argentino a livello da pre-default. La prima ha tagliato la valutazione di due gradini, portandola da CC al livello restricted default, mentre la seconda è scesa da CCC- a selective default. E come ha reagito il mercato, al netto dei fusi orari rispetto alle contrattazioni?

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Fonte: Bloomberg

Questo grafico mostra come, paradossalmente, subito dopo le comunicazioni il credit default swap a 5 anni sul debito argentino – contratto derivato per coprirsi proprio dal rischio di insolvenza sulla controparte – è sceso, mentre il prezzo del bond a 100 anni emesso – non senza una certa spocchia – da Buenos Aires dopo la chiusura del maxi-prestito con l’Fmi, è salito del 4,4% rispetto alla settimana precedente, arrivando a un valore facciale di 46,4 centesimi sul dollaro.

Il mercato è impazzito, premia chi non onora il servizio del proprio debito e anzi punta a una ristrutturazione di tutto favore?
Anche perché lo scorso agosto, prima delle presidenziali, fu proprio la decisione di Fitch e Standard&Poor’s di tagliare il rating di credito argentino – a seguito del rinvio del pagamento di 7 miliardi di interessi su obbligazioni a breve termine da parte del gabinetto guidato dall’ex presidente, Mauricio Macri – a spedire i rendimenti alle stelle e il peso sotto terra, rimettendo Buenos Aires nel mirino del mercati dopo mesi di relativa calma. Comprata, però, a caro prezzo dall’Fmi.

Ora, i nodi vengono al pettine. Per tutte le parti in causa, però, non soltanto per l’Argentina.
Chi, in un momento simile per l’economia globale e con il rischio sempre presente di tensioni sociali (visto anche quanto sta già accadendo nel vicino Cile), si assumerà il rischio di mostrare al mondo come, potenzialmente, il Re delle lungimiranti Cac sia in realtà nudo, ovvero assolutamente incapace di evitare rischi ai detentori obbligazionari all’atto pratico? Già una volta, lo scoperchiamento del vaso di Pandora rispetto alla palese e un po’ affrettata messa in discussione del concetto di risk free legato alle obbligazioni sovrane, stava per dare vita a un disastro di proporzioni globali. Chiedere ad Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, riuniti in quel di Deauville il 19 ottobre 2010, per referenze.

Come andrà a finire?
Un trader con lunga esperienza nell’obbligazionario sovrano e una passione giovanile mai sopita per il punk rock, sintetizza così la situazione: “E’ appena passato il quarantennale dall’uscita di London calling dei Clash. Un capolavoro assoluto. Al suo interno, c’era una vera e propria perla, misconosciuta ai più: Rudie can’t fail. Bene, diciamo che oggi, traslando il concetto al debito argentino, Christine can’t fail. Pena far precipitare a zero non solo la residua fiducia degli investitori nell’Fmi ma, ora, anche nella gestione della Legarde della più sistemica e delicata Bce.
Le Cac, poi, sono come i fili dell’alta tensione. Chi le tocca, rischia”.
 

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