tontolina
Forumer storico
I minibot? Se anche fossero moneta, sarebbero legali
ono affannati a negare che si tratti di moneta, dando così implicitamente ragione a Draghi. Non avvedendosi, proprio come il Governatore della BCE, della mucca nel corridoio, per dirla alla Bersani: e cioè del fatto che i minibot, quand’anche fossero moneta, sarebbero a tutti gli effetti “legali”. Finora, il dibattito sulla doppia monetazione è sempre stato sollevato in chiave economica (da Warren Mosler, da Nino Galloni, persino da Silvio Berlusconi) e subito “spento” dai feticisti dell’euro con le stesse sbrigative argomentazioni di Draghi: i trattati non lo consentono. Nessuno dei coriacei “guardiani delle regole” si è mai posto una domanda socratica: se sia invece – e a dispetto di certi sclerotici pregiudizi – giuridicamente percorribile e sostenibile, anche all’interno della cornice dei trattati, l’introduzione di un’altra moneta (accanto all’euro) nel nostro Paese. Ebbene, la risposta, sul piano giuridico deve essere senz’altro positiva. E ciò al netto di tutte le considerazioni di contorno sull’opportunità politica ed economica del progetto, sulla pericolosità dello stesso, sulle reazioni dei mercati e via profetizzando, di geremiade in geremiade.
Infatti, lo Stato italiano non ha perso, né ceduto la propria sovranità monetaria al contrario di quanto ci ripete la vulgata più accreditata sia tra gli europeisti che tra i sovranisti. Sul punto si è meritoriamente spesa, negli ultimi anni, l’associazione “Moneta positiva” presieduta da Fabio Conditi. A giusto titolo e con argomenti ineccepibili.
Innanzitutto, e come ben noto, qualsiasi “cessione” di sovranità è vietata dalla Costituzione che consente, a mente dell’art. 11, solo “limitazioni” della stessa (per giunta, rigorosamente condizionate). Ma vi sono argomenti persino più decisivi, anche perché – se bastasse la Costituzione a difenderci dai trattati e dalle leggi incostituzionali – non avremmo tutti i guai che abbiamo e neppure avremmo bisogno di una Corte Costituzionale. A noi interessa dimostrare che, senza ricorrere alla Consulta, è possibile recuperare, per via operativa, cioè pratica, questa potestà d’imperio (mai) perduta.
Ce lo permette l’articolo 117 della Costituzione che attribuisce allo Stato l’esclusiva legislativa in materia di “moneta”. È vero che lo fa nel contesto di una norma dove si distribuiscono le competenze tra lo Stato e le Regioni. È altrettanto vero, però, che quella norma è stata introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, in un periodo storico successivo al trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 e a cavallo tra l’esordio dell’euro sui mercati (primo gennaio 1999) e l’inizio della sua circolazione nell’economia reale (primo gennaio 2002).
In base a una elementare operazione di ermeneutica sistemica, è del tutto ovvio che, nel momento in cui licenziava l’importante riforma del titolo V, il legislatore conosceva perfettamente il contenuto dei trattati europei, e in particolare dell’articolo 105A del Trattato di Maastricht poi confluito nell’articolo 128 del TFUE (relativo alle competenze esclusive della UE). Sapeva altrettanto bene che, di lì a poco, avrebbe iniziato a circolare l’euro in sostituzione della lira. Ciononostante, il Parlamento italiano ha tenuto a precisare, per via di riforma costituzionale, che la potestà legislativa in materia di moneta appartiene allo Stato. Il che, peraltro, è in armonia con quanto previsto dall’articolo 47 della stessa Carta fondamentale dove si stabilisce che “la Repubblica disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”.
I minibot? Se anche fossero moneta, sarebbero legali
ono affannati a negare che si tratti di moneta, dando così implicitamente ragione a Draghi. Non avvedendosi, proprio come il Governatore della BCE, della mucca nel corridoio, per dirla alla Bersani: e cioè del fatto che i minibot, quand’anche fossero moneta, sarebbero a tutti gli effetti “legali”. Finora, il dibattito sulla doppia monetazione è sempre stato sollevato in chiave economica (da Warren Mosler, da Nino Galloni, persino da Silvio Berlusconi) e subito “spento” dai feticisti dell’euro con le stesse sbrigative argomentazioni di Draghi: i trattati non lo consentono. Nessuno dei coriacei “guardiani delle regole” si è mai posto una domanda socratica: se sia invece – e a dispetto di certi sclerotici pregiudizi – giuridicamente percorribile e sostenibile, anche all’interno della cornice dei trattati, l’introduzione di un’altra moneta (accanto all’euro) nel nostro Paese. Ebbene, la risposta, sul piano giuridico deve essere senz’altro positiva. E ciò al netto di tutte le considerazioni di contorno sull’opportunità politica ed economica del progetto, sulla pericolosità dello stesso, sulle reazioni dei mercati e via profetizzando, di geremiade in geremiade.
Infatti, lo Stato italiano non ha perso, né ceduto la propria sovranità monetaria al contrario di quanto ci ripete la vulgata più accreditata sia tra gli europeisti che tra i sovranisti. Sul punto si è meritoriamente spesa, negli ultimi anni, l’associazione “Moneta positiva” presieduta da Fabio Conditi. A giusto titolo e con argomenti ineccepibili.
Innanzitutto, e come ben noto, qualsiasi “cessione” di sovranità è vietata dalla Costituzione che consente, a mente dell’art. 11, solo “limitazioni” della stessa (per giunta, rigorosamente condizionate). Ma vi sono argomenti persino più decisivi, anche perché – se bastasse la Costituzione a difenderci dai trattati e dalle leggi incostituzionali – non avremmo tutti i guai che abbiamo e neppure avremmo bisogno di una Corte Costituzionale. A noi interessa dimostrare che, senza ricorrere alla Consulta, è possibile recuperare, per via operativa, cioè pratica, questa potestà d’imperio (mai) perduta.
Ce lo permette l’articolo 117 della Costituzione che attribuisce allo Stato l’esclusiva legislativa in materia di “moneta”. È vero che lo fa nel contesto di una norma dove si distribuiscono le competenze tra lo Stato e le Regioni. È altrettanto vero, però, che quella norma è stata introdotta dalla legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, in un periodo storico successivo al trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 e a cavallo tra l’esordio dell’euro sui mercati (primo gennaio 1999) e l’inizio della sua circolazione nell’economia reale (primo gennaio 2002).
In base a una elementare operazione di ermeneutica sistemica, è del tutto ovvio che, nel momento in cui licenziava l’importante riforma del titolo V, il legislatore conosceva perfettamente il contenuto dei trattati europei, e in particolare dell’articolo 105A del Trattato di Maastricht poi confluito nell’articolo 128 del TFUE (relativo alle competenze esclusive della UE). Sapeva altrettanto bene che, di lì a poco, avrebbe iniziato a circolare l’euro in sostituzione della lira. Ciononostante, il Parlamento italiano ha tenuto a precisare, per via di riforma costituzionale, che la potestà legislativa in materia di moneta appartiene allo Stato. Il che, peraltro, è in armonia con quanto previsto dall’articolo 47 della stessa Carta fondamentale dove si stabilisce che “la Repubblica disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”.
I minibot? Se anche fossero moneta, sarebbero legali