Clima che cambia, riscaldamento globale, il mondo è sul piano inclinato della catastrofe.
Non sarà chiudendo le fabbriche e fermando automobili e centrali elettriche che fermeremo lo spostamento dell’asse terrestre.
Così è stato, è proprio il caso di dirlo, da che mondo è mondo.
Si sciolgono i ghiacciai, si alza il mare, cosa succederà?
Ci sta pensando qualcuno a una rilocalizzazione, che brutta parola ma esprime bene il concetto, o tutto finirà come con
Doggerland?
Quando il mare salì tanto da sommergere un mezzo continente, una striscia di terra che collegava la Gran Bretagna alla Danimarca e alla Germania.
Anche allora era in atto un grande cambiamento climatico.
Ma quei poveri Neanderthal e Cro Magnon non avevano computer e tecnologie, solo le gambe per rifugiarsi in terre più sicure.
Non sapevano leggere e scrivere, quei nostri antenati e non ci hanno lasciato detto cosa accadde, in che tempi e in che modi.
Che il periodo di pace climatica, in atto da circa 20 mila anni, fosse persino troppo lungo,
gli scienziati lo sapevano da quando qualcuno ha cominciato a studiare climatologia.
Negli ultimi anni anche gli storici hanno prestato attenzione non solo a re e condottieri
ma anche agli effetti del clima su come è cresciuto ed è
cambiato il mondo.
Allora il mondo era abitato da decine di milioni di esseri umani, nel 2050 sarete dieci miliardi.
Negli ultimi tre secoli la rivoluzione industriale ha cambiato il mondo, allungato la vita,
migliorato le condizioni di quasi tutti, ciascuno di noi oggi vive quasi meglio di un re di mille anni fa,
la scienza e l’industria hanno migliorato il mondo, non date retta ai vari
Harari
che teorizza che si stava meglio quando si viveva di caccia e raccolta di piante selvatiche.
Purtroppo gli scienziati stanno zitti, lasciano la parola ai profeti.
L’ultima uscita, su Repubblica, cui questo genere piace assai, è stata quella di Pascal Acot, intervistato da Antonio Canciullo.
Solita litania, tutte cose vere, con un vizio di fondo.
Questo genere di profeti danno la colpa del cambio del clima alla scienza, al progresso, all’industria.
Sono una nuova versione dei preti di Cesare Pascarella: “Nemici de la patria e der progresso”.
Tutti presi dal loro odio anti industriale, mancano il grande obiettivo: come anticipare le conseguenze del cambiamento climatico.
I giornali appaiono poco preparati sul tema, se non per fare da cassa di risonanza alle tesi catastrofiste anti industriali.
L’opinione pubblica, fra raffiche di paura sui social network, è confusa e male informata.
Al fondo c’è sempre il sospetto che qualche potenza straniera, qualche forza occulta
impegnata nel tanto peggio tanto meglio tirino i fili di questo teatrino in cui si gioca al massacro.
Se pensate che vogliono dare il premio Nobel a Greta e che il Papa Francesco la prende sul serio, capite che qualcosa non gira nel senso giusto.
Come sul Titanic. La nave affonda e l’orchestra continua a suonare.
La Terra non finirà, come non è finita in questi milioni di anni. Ma la sensazione è che si continui a giocare con le parole, invece di agire.
Quando si parla di mutamento climatico, mi viene sempre in mente quel bellissimo film del 1961, E la terra prese fuoco.
Fu il primo film vietato ai minori che vidi. Ci lasciai il cuore perché il protagonista era un giornalista del Daily Express,
giornale mito dei miei sogni di aspirante giornalista, modello imitato dal Giorno di Baldacci e poi tradito da manager, direttori e grafici.
Rivisto mezzo secolo dopo non ha perso il suo fascino, anzi ha assunto una dimensione di grande attualità.
La storia si sviluppa sullo sfondo di una terra travolta da un riscaldamento globale ben più forte di quello che viviamo oggi.
L’asse terrestre si era spostato non per un fatto scritto nell’algoritmo fondativo del mondo e più o meno fissato nei cicli di Milankovitch.
La colpa all’epoca era attribuita agli esperimenti nucleari con cui americani e sovietici imbottivano la terra in quegli anni.
L’asse terrestre, alla fine del film, fu raddrizzato da una superbomba H, che rimise le cose a posto.
Ma erano giorni in cui ancora gli inglesi avevano qualcosa da dire e da fare.
Oggi possono solo sognare di diventare il cinquantunesimo Stato della loro ex colonia.