Se qualcuno si chiede per quali motivi l’Italia continui a vivere una situazione economica grave e senza via di uscita,
nonostante il succedersi di governi di destra o di sinistra, tutti a parole con le soluzioni in mano e tutti fallimentari nei fatti,
probabilmente la risposta non sta nella mala fede dei politici, quanto piuttosto nella sistematica disinformazione
sui temi economici a cui siamo soggetti tutti noi cittadini e, naturalmente, anche tutti i politici.
Diceva Albert Einstein: “
Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che lo ha generato“.
Se ci ostina a guardare la realtà economica sempre nello stesso modo sbagliato,
che ci sembra vero solo perché lo dicono i giornali,
si continuerà a ripetere sempre gli stessi errori, commettendo sempre gli stessi sbagli e ottenendo sempre gli stessi risultati fallimentari.
Abbiamo preso come esempio un
articolo de Il Sole 24 Ore del 27 febbraio 2017, a firma di
Riccardo Sorrentino,
giornalista che si occupa di temi economici,
che probabilmente ha letto troppi libri di economia senza averla mai compresa nei suoi meccanismi.
In questo articolo, intitolato “
E’ l’euro il problema dell’Italia? I 5 miti dei «no euro» da sfatare”
Sorrentino riporta tutta una serie di (sue) argomentazioni per dimostrare che coloro che sostengono che l’euro sia un problema per l’Italia non capiscono nulla di economia.
Senza probabilmente avere mai letto (o compreso) le argomentazioni di moltissimi economisti certamente competenti più di Sorrentino,
tra i quali già
nel 2010 avevano sottoscritto un appello per chiedere un radicale cambio delle politiche economiche nell’Eurozona.
Articoli del genere scritti su di un giornale come Il Sole 24 Ore, che si propone all’opinione pubblica italiana, ed alla classe politica,
come il punto di riferimento per la comprensione delle questioni economiche del paese,
portano a travisare la realtà,
descrivendo degli immaginari progressi economici dell’Italia di cui, purtroppo, gli italiani non si sono mai accorti.
Il primo concetto da chiarire una volta per tutte è che l’euro non è solamente “una moneta” ovvero uno strumento per misurare il valore di quello che comperiamo,
una unità di misura che può essere convertita, tramite una semplice equivalenza, in dollari, frachi svizzeri, yen o quant’altro.
L’euro è la moneta unica dei molti paesi che appartengono all’Eurozona, i quali per poterla utilizzare devono sottostare a
tutta una serie di regole
che pongono dei vincoli importanti alle politiche economiche dei vari governi dell’area.
Regole che coloro che usano altre monete non devono rispettare.
Ad esempio il Giappone ha un debito pubblico al 260% del PIL e non ha l’obbligo di ridurlo al 60% del PIL in 20 anni.
Ad esempio nel 2018 gli USA non si sono fatti alcun problema a fare un deficit pubblico pari al 4,2% del PIL: non hanno dovuto chiedere permesso a nessuno!
Quindi se la valuta potrebbe “in teoria” funzionare bene, come dice Sorrentino,
essa in realtà funziona male proprio a motivo delle regole “sbagliate” che la accompagnano.
L’euro ed il commercio estero
Sorrentino riporta una serie di diagrammi per dimostrare che l’euro ha fatto bene all’Italia,
in quanto nei 20 anni di euro l’Italia ha beneficiato di un importante aumento delle esportazioni e di un miglioramento della bilancia estera dei pagamenti.
Ricorda un po’ al sig. Rossi, afflitto da obesità che, dopo molti anni di inutili diete, finalmente era riuscito a diminuire il proprio peso,
senza sapere che il dimagrimento era causato da un tumore in stadio avanzato.
Un “dimagrimento” per nulla sintomo di salute.
Se guardiamo all’insieme dei componenti del Prodotto Interno Lordo ci possiamo meglio rendere conto del fatto che:
1) La bilancia estera dei pagamenti è migliorata solo perché abbiamo ridotto le importazioni dell’estero fra il 2011 e il 2013.
2) Nello stesso periodo abbiamo registrato una riduzione dei consumi privati (ovvero: siamo diventati più poveri e consumiamo di meno),
abbiamo registrato un crollo degli investimenti privati (da 400 miliardi del 2008 a 300 miliardi nel 2017 = -25%), abbiamo avuto una stagnazione degli investimenti pubblici.
3) Abbiamo aumentato le esportazioni solo perché abbiamo diminuito i salari dei nostri lavoratori,
mentre i nostri “clienti” europei li hanno in genere aumentati (questo spiega perché esportiamo di più e consumiamo di meno: siamo diventati più poveri).
Il vantaggio di “non poter svalutare”
Sorrentino espone un bizzarro ragionamento.
Dopo averci spiegato che l’economia italiana andrebbe bene in quanto ha aumentato le esportazioni e la bilancia estera dei pagamenti
(quindi siamo dei buoni esportatori), riconoscendo persino che “
una svalutazione può premiare le aziende esportatrici“,
subito dopo sostiene che questo “
sarebbe meno importante per le economie avanzate” e, quindi, inutile per l’Italia.
Per dimostrare questo ragionamento, Sorrentino cita il caso del Giappone, le cui esportazioni non sarebbero aumentate nonostante la svalutazione dello yen.
E’ noto che “
una rondine non fa primavera“. Ovvero ci potrebbero essere mille altre ragioni per cui il Giappone in quegli anni
non è riuscito ad aumentare le proprie esportazioni, ma Sorrentino identifica con (sua) evidenza una sola causa
ed utilizza il “caso tipico” per dimostrare la sua teoria generale sulla svalutazione e le esportazioni.
Che poi:
1) L’Italia sta già esportando molto, anche troppo. Se un paese esporta più di quanto importa, tendenzialmente la sua valuta si rivaluta, non si svaluta.
2) Che “uscire dall’euro” significhi ritornare ad una moneta che si svaluta è una assunzione di Sorrentino, i
l quale ignora totalmente tutti gli altri effetti benefici che una moneta sovrana può avere sull’economia interna del paese,
sul potere di acquisto dei consumatori, sugli investimenti interni pubblici e privati.
Sono questioni sconosciute a Sorrentino, il quale vede l’Italia unicamente come “una impresa che esporta”.
Il vantaggio dei bassi tassi di interesse
Sorrentino, come molti altri sedicenti esperti economisti in Italia, sostiene che l’euro abbia portato grandi vantaggi a motivo della riduzione dei tassi di interesse sui titoli pubblici.
E, naturalmente, cita l’andamento dello “spread”, il differenziale di rendimento fra i titoli italiani e quelli tedeschi.
Non si capisce, però, perché questa riduzione sarebbe avvenuta proprio “grazie all’euro”.
La riduzione dei tassi di interesse, infatti, è stata dovuta alle politiche monetarie della BCE,
le quali sono state di riferimento alle politiche monetarie della maggior parte delle banche centrali europee anche al di fuori dell’area dell’euro.
Ovvero: l’Italia avrebbe certamente avuto una riduzione dei tassi di interesse anche se fosse rimasta nella lira,
in quanto sono diminuiti in tutti i paesi occidentali dal 1980 al 2000.
Che poi la riduzione dei tassi di interesse sia qualcosa di vantaggioso in assoluto, è tutto da dimostrare.
Intorno al 1980 in Italia i mutui avevano dei tassi di interesse dell’ordine del 15-20%,
eppure la stragrande maggioranza dei mutuatari riusciva a restituirli alle banche.
Questo sia perché c’era nel contempo un alto tasso di inflazione (anch’esso intorno al 15-20%),
per cui il tasso reale era in realtà non dissimile da quelli attuali, sia perché al tempo l’economia italiana cresceva,
una famiglia media risparmiava ogni mese il 20-25% del proprio stipendio (anche se la donna restava a casa ad accudire i figli).
Con una economia in crescita non era un problema pagare degli alti tassi di interesse.
Oggi, invece, pur essendo i tassi di interesse molto bassi, l’economia non cresce, per cui molti privati ed imprese non riescono a restituire i crediti ricevuti dalle banche.
La stessa cosa vale per lo Stato.
Se l’economia del paese cresce, lo Stato ogni anno incassa tasse sufficienti a pagare i tassi di interesse sul debito e non deve emettere nuovi titoli di stato per pagare gli interessi.
Se l’economia non cresce, lo Stato non incassa tasse sufficienti a pagare gli interessi sul debito, per cui deve essere fatto nuovo debito
per pagare gli interessi ed il debito tende a crescere più di quanto cresca il PIL.
E infatti l’Italia, proprio in questi anni di bassi tassi di interesse, ha visto salire il rapporto debito PIL dal 105% del 2007 al 134% attuale.
Se l’euro, con le sue regole, ci consente di avere dei bassi tassi di interesse, ma al prezzo di una economia che non cresce
(per il crollo degli investimenti interni), il risultato complessivo è una maggiore insostenibilità del debito, oltre all’impoverimento del paese.
L’euro ci ha portato inflazione o deflazione?
Giustamente Sorrentino fa notare che durante il periodo dell’euro i tasso di
inflazione è diminuito.
Chi critica l’ingresso dell’euro a motivo di un eccessivo aumento dei prezzi (che probabilmente ci fu per certi beni e servizi, limitatamente agli anni 2002-2003), non sa di cosa parla.
I prezzi aumentavano anche ai tempi della lira e sarebbero aumentati comunque.
Detto questo, Sorrentino attribuisce al famoso “divorzio” fra Banca d’Italia e Tesoro del 1981 il “merito” di avere ridotto il tasso di inflazione.
Come se non fosse, invece, è stata una tendenza generale di tutti i paesi europei,
una volta cessato il periodo delle crisi petrolifere e messi in atto i provvedimenti (risparmio energetico, alta tassazione della benzina) atti a tenere il fenomeno sotto controllo.
In compenso Sorrentino non ritiene neppure degna di nota la comparsa in Italia, e in tutta Europa,
di una pericolosissima
deflazione ovvero di un tasso di inflazione prossimo a zero o negativo,
che è sintomo di una economia in forte crisi, con stipendi che si riducono, licenziamenti, fallimenti di imprese, ecc.