EURO: solo i microcefali non capiscono ancora (1 Viewer)

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Forumer storico
Draghi spiega come si esce dall’euro: servono 312 miliardi subito

Pubblicato da keynesblog il 23 gennaio 2017 in Economia

Vi sono due tipi di noeuro: quelli che vogliono uscire dall’euro il venerdì notte con un piano segreto, causando una “Lehman Brothers al quadrato”, e di cui ci siamo già occupati in passato. E poi ci sono quelli apparentemente più ragionevoli, i quali, coscienti dell’effetto domino che un’uscita solitaria potrebbe determinare, propongono un’ “uscita concordata”.

Ad esempio Stefano Fassina parla di un “superamento in via cooperativa, assistito dalla Bce”. A rispondergli, indirettamente, è stato proprio il presidente della BCE Mario Draghiche, nella replica ad una interrogazione dei Cinque Stelle, ha spiegato che nel caso un paese lasci l’euro, la sua banca centrale deve prima pagare tutti i debiti con la stessa BCE: “If a country were to leave the Eurosystem, its national central bank’s claims on or liabilities to the ECB would need to be settled in full.”


Di quanto si parla? La frase di Draghi è in fondo ad una lettera in cui si spiegava perché l’Italia è fortemente indebitata con la BCE attraverso il sistema di pagamenti del Target 2 (un effetto indiretto del Quantitative Easing). Il debito con l’eurosistema della nostra banca centrale (come si ricava dallo stato patrimoniale della Banca d’Italia a dicembre 2016) è al momento pari a circa 356,5 miliardi di euro a cui vanno sottratti i crediti, per un indebitamento netto pari a 312 miliardi. Si tratta di quasi il 20% del nostro PIL.

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Questo debito non può in alcun modo essere ridenominato in lire perché non è sotto diritto nazionale. Inoltre dovrà essere estinto prima dell’uscita, perché le banche centrali non partecipanti all’euro (come sarebbe la Banca d’Italia dopo l’Italexit) non possono avere posizioni debitorie verso il sistema.

Ma non finisce qui… se parliamo di uscita “concordata” o “cooperativa”, parliamo evidentemente di una trattativa in cui gli altri paesi europei chiederebbero che, dopo l’uscita, il nostro paese onori i sui debiti esteri nella valuta in cui sono denominati oggi (l’euro), al fine di evitare l’effetto contagio di una ridenominazione in valuta debole (la lira). Questa, infatti, rappresenterebbe un credit event per i mercati e innescherebbe il domino finanziario. In cambio l’Italia chiederebbe un’assistenza finanziaria per sostenere la nuova valuta e i conti del nostro paese.

E qui le cose si mettono molto male. Un terzo del debito pubblico italiano è posseduto da soggetti esteri (ma una parte è in via di assorbimento grazie dal QE). In una trattativa per un’uscita “concordata”, l’Italia potrebbe essere costretta ad accettare la non ridenominazione di questi titoli di debito. Questi non andrebbero pagati subito, ma a scadenza. Il Tesoro, che dopo l’uscita tasserebbe i soggetti residenti in lire, dovrebbe quindi procurarsi euro in qualche modo, vedendo così aumentare il peso del debito per l’effetto della svalutazione che, peraltro, aumenterebbe ancora se si decidesse di stampare lire per comprare euro, da usare per rimborsare i debiti (è quello che fece la Repubblica di Weimar, per intenderci). Il rischio è quindi che col deprezzamento della valuta, aumentando il peso ed il rischio del debito, il Tesoro sia costretto a indebitarsi a tassi sempre più alti con la stessa BCE o con grandi banche estere. Lo stesso principio, al fine di contenere l’effetto contagio, potrebbe essere applicato anche ai debiti dei privati in mano a soggetti esteri, aumentando l’onere debitorio anche dei soggetti privati.

Insomma, se l’uscita notturna sarebbe un disastro europeo e probabilmente globale, l’uscita “concordata”, volta ad evitare un default di fatto e il conseguente domino finanziario, sarebbe un disastro sicuramente per l’Italia. Pur supponendo che gli altri paesi europei ci concedano di dilazionare questa montagna di debiti, lo farebbero solo sotto pesantissime condizionalità. Ecco quindi che l’uscita dall’euro “assistita dalla BCE” si tramuterebbe nell’ingresso nei programmi della Troika. L’unica speranza sarebbe un improbabile giubileo straordinario dei nostri debiti. Vale a dire un livello di solidarietà molto maggiore rispetto a quello che sarebbe necessario ad aggiustare l’euro in corsa.

Abbiamo sempre detto che l’euro è un marchingegno monetario nel quale avremmo fatto bene a non entrare. Ma i costi di uscita sono talmente impraticabili che l’unica strada sensata è quella di aggiustarlo in corsa. Ogni altra soluzione non è una soluzione, ma un problema molto più grande. Non si tratta di cedere alla logica thatcheriana del There Is No Alternative (TINA), ma di creare le condizioni per alternative che non siano peggiori della situazione attuale.

Ringraziamo Francesco Lenzi per i preziosi suggerimenti
 

tontolina

Forumer storico
Ci svendono alla Francia, perché ci salvi da Berlino: illusi
Scritto il 13/2/18 • nella Categoria: segnalazioni
Federico Dezzani | LIBRE


La classe dirigente italiana ha preso progressivamente coscienza che il maggior pericolo per la nostra permanenza nel nocciolo europeo è la Germania. «Consapevole però di aver indissolubilmente legate le sue fortune al progetto d’integrazione europea e terrorizzata dal “salto nel vuoto” che comporterebbe un’uscita dall’Europa (si tratterebbe di riesumare una programmazione industriale ed una politica mediterranea, senza che nessuno ne abbia più le capacità), il nostro establishment ha quindi maturato dal 2011 una strategia disperata: “vendere l’Italia” alla Francia, in cambio dell’impegno francese a perorare la nostra causa di fronte alla Germania».
Lo sostiene Federico Dezzani, secondo il quale «gli europeisti sognano un futuro da satellite francese».
Lo scenario: la liquidità immessa dalla Bce ha “sedato” i mercati finanziari, senza però risolvere nessun problema di fondo. E così, per rimanere agganciata al progetto d’integrazione europea, l’Italia «sta cedendo quote crescenti del nostro sistema economico-finanziario alla Francia, nella speranza che Parigi ci apra le porte della “serie A”».
Se l’Ue è ormai prossima al capolinea, emerge il Piano-B: l’Europa“a due velocità”, «che contempla una maggiore integrazione fiscale e politicatra Francia e Germania, con rispettivi satelliti».
Un’unione a due, argomenta Dezzani sul suo blog, significherebbe che Berlino si faccia carico di Parigi, trasferendo un ammontare di risorse tale da consentirle di “vivere al di sopra dei propri mezzi”: ipotesi piuttosto remota, visto l’assetto politico tedesco.
In compenso, «la Francia dispone ancora di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e di un arsenale atomico: per Berlino, “l’acquisto della Francia” sarebbe un buon affare e le consentirebbe di evitare la sindrome di isolamento/accerchiamento di cui ha sofferto dal 1870 in avanti».
Al di là di una maggiore integrazione con Parigi, però, Berlino però non andrà: e sicuramente «non è nell’interesse della Germania creare le condizioni perché anche l’Italia possa partecipare “al nocciolo duro”». Tutte le iniziative tedesche di questi ultimi mesi, osserva l’analista, «vanno infatti nella direzione di un’espulsione forzata dell’Europa mediterranea dall’area euro: dall’ipotesi di “default controllati” avanzata da Wolfgang Schaeuble alla stretta sui crediti deteriorati, passando per nuovi criteri per la valutazione dei Btp iscritti nei bilanci delle banche, è chiaro che la Germania sta facendo di tutto per spingere l’Italia e l’euro-periferia fuori dall’euro».
Da qui la tentazione, tutta italiana, di aggrapparsi alla Francia. Si considerino gli investimenti, scrive Dezzani: se le acquisizioni tedesche in Italia sono piuttosto limitate dal 2011 in avanti (il marchio Ducati, l’Italcementi della famiglia Pesenti), quelle francesi esplodono letteralmente e, concentrandosi in settori strategici come l’energia, la finanzae le telecomunicazioni, godono dell’esplicita approvazione dei governi Monti-Letta-Renzi. Nel 2011, ricorda l’analista, Parmalat è acquistata da Lactalis, mentre Bulgari è passata a Lvmh. L’anno seguente, Edison ha lasciato l’orbita Acea per entrare nel mondo Gdf Suez. Ancora: nel 2016, Pioneer è stata comprata da Amundi e Telecom è stata scalata da Vivendi. Nel 2017 Luxottica è stata inglobata da Essilor. Saltuariamente, aggiunge Dezzani, circolano voci di un acquisto di Unicredit da parte di Société Générale, mentre le Assicurazioni Generali sarebbero nel mirino di Axa.
«Quel che è certo è la finanza italiana è ormai dominata dal trio francese Jean Pierre Mustier (ad di Unicredit), Philippe Donnet (ad di Generali) e Vincent Bolloré (azionista di Mediobanca e padrone di Telecom), a loro volta espressione della finanzaRothschild che occupa attualmente l’Eliseo con Emmanuel Macron».
Negli ultimi sette anni, rileva Dezzani, «l’Italia è diventata un sotto-sistema dell’economiafrancese, con l’avvallo dei governi “europeisti” nostrani: il governo Gentiloni ha persino inviato i nostri militari a presidiare i fortini della Legione Straniera in Niger». Qualsiasi acquisto italiano in Francia è stato bloccato, dal passato interesse di Enel per Suez alle più recenti mire di Fincantieri su Stx Saint-Nazaire. «In quest’integrazione a senso unico si può facilmente scorgere il grande disegno geopolitico della Francia: ridurre l’Italia, acquisendo il controllo di tutti i gangli dell’economia, alla condizione di Stato-vassallo, così da raggiungere una massa tale da confrontarsi con la Germania che, al contrario, sta coagulando attorno a sé i paesi dell’Europanordica e centrale (Olanda, Austria, Slovenia, Paesi Baltici)».
L’Italia, che ha la “stazza” economica e una popolazione sufficiente per restare un attore autonomo, «guadagna invece da questo scivolamento nell’orbita francese soltanto la promessa di rimanere agganciata al processo di integrazione europea: come satellite di Parigi». Secondo Dezzani, «la fallimentare classe dirigente sta, in sostanza, vendendo il paese alla Francia per salvare se stessa, sperando che l’assoggettamento a Parigi eviti la nostra espulsione “dall’Europa”».
Anche lo schema dei trattati bilaterali, osserva l’analista, è un indice della gerarchia che si sta creando in Europa: la proposta di un nuovo Trattato dell’Eliseo, presentata il 22 gennaio 2018, dovrebbe rafforzare l’integrazione tra la Germania (contraente forte) e la Francia (contraente debole). «Nessun accordo simile è previsto tra Germania e Italia». Il nostro paese dovrebbe invece siglare entro il 2018 il cosiddetto “Trattato del Quirinale”, presentato dal premier Gentiloni lo scorso 10 gennaio, in occasione della visita a Roma di Emmenuel Macron: «Si tratterebbe del corrispettivo del Trattato dell’Eliseo, dove però la Francia è il contraente forte e l’Italia quello debole».
Di fatto, «accantonata qualsiasi pretesa di parità tra i diversi Stati», “l’Europaa due velocità” sarebbe quindi «una struttura gerarchica, dove l’Italia è un sotto-sistema della Francia, a sua volta dipendente dalla Germania». Secondo Dezzani, i prossimi mesi saranno decisivi per le sorti dell’Ue: collasso accelerato o precario asse Merkel-Macron? «In qualsiasi caso, non è interesse dell’Italia rimanere in “serie A” come satellite della Francia». Se una classe dirigente «fallita ed esautorata» sogna di stipulare il “Trattato del Quirinale” e assoggettarci alla Francia, «una nuova classe dirigente dovrebbe studiare come ricollocare l’Italia al centro del Mediterraneo e rimettere in sesto l’economia con un’accurata programmazione industriale».
 

tontolina

Forumer storico
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Elezioni in un Paese occupato
Francesco Mazzuoli 24 febbraio 2018 , 23:05 Attualità, Opinione, Politica 44 Commenti 2,998 Viste


DI FRANCESCO MAZZUOLI

Comedonchisciotte.org

Era il 1908 quando Gilbert K. Chesterton osservava acutamente: “Stiamo procedendo nella direzione che porterà a creare una razza di persone troppo modesta intellettualmente per credere nella tavola pitagorica.” Più di un secolo dopo, possiamo dire che era un ottimista. É questa la ragione per cui non ho dubbi che questo mio pezzo non circolerà quanto dovrebbe.

Tuttavia, considerando la faccenda con il distacco dello studioso di propaganda, non si può fare a meno di notare come anche all’interno del cosiddetto “anti-sistema” il frame, la cornice interpretativa, all’interno della quale le elezioni italiane sono presentate, manchi del dato fondamentale: le elezioni avvengono in un Paese occupato militarmente da più di settanta anni.

Secondo il sito della Treccani – noto covo di rivoltosi e di cospiratori- le basi americane ufficiali in Italia sono 59 e, secondo gli stessi americani, la condiscendenza del governo italiano nei loro confronti è senza riserve.

La cosa non deve destare meraviglia, il servilismo da noi è ereditario come le palle degli stemmi nobiliari, e ha largamente ispirato la nostra letteratura, dalla famosa invettiva dantesca “Ahi serva Italia, di dolore ostello… non donna di province, ma bordello!”, ad “Arlecchino servitore di due padroni” di Carlo Goldoni.

Non bisogna, poi, mai dimenticare che il nostro Paese uscì sconfitto dalla seconda guerra mondiale e come tale fu considerato nel trattato di pace del 1947.

Lo storico Gioacchino Volpe, a guerra non ancora conclusa, scriveva amaramente alla moglie che l’Italia si avviava a diventare un Paese irrilevante, una grande Grecia, e sognava un futuro in cui i giovani si sarebbero ribellati al loro destino di bagnini (Gioacchino Volpe, Lettere dall’Italia perduta, Sellerio). Parole profetiche col senno di poi, ma di semplice buon senso per chi non si fosse venduto alla propaganda dei vincitori.

Il mito della “liberazione” già imperversava, in un Paese bombardato, di straccioni in ginocchio con il piattino dell’elemosina in bocca in cui venivano gettate caramelle e chewing gum, indebitato con la carta straccia delle AM lire, e comprato a saldo stralcio con i soldi del piano Marshall: come non avere davanti agli occhi lo squallido spettacolo di De Gasperi, ritornato dal viaggio in USA sventolando il nostro nuovo vessillo, l’assegno con il quale era stata appena comprata la fedeltà italiana?

In Africa si sarebbe chiamata corruzione, in Europa si cominciò a chiamarli aiuti.

Basterebbe dare un’occhiata al libro che Cossiga licenziò nei suoi ultimi anni, dal titolo emblematico, Fotti il potere, per comprendere che in Italia non si è mai mossa foglia che zio Sam non voglia, a partire dal condizionamento delle elezioni del 1948, operazione che costituisce uno dei primi grandi successi della CIA, creata soltanto un anno prima.

Venne poi il “miracolo italiano”, all’interno della più generale prosperità dell’Europa occidentale, benessere – si badi bene – voluto dai padroni americani per disporre di nuovi mercati e allontanare le sirene della propaganda social-comunista.

Quando tale benessere diffuso non fu più così necessario (nel 1979 un rapporto del KGB già annunciava la futura implosione del sistema sovietico), e mentre negli Stati Uniti la componente finanziaria acquisiva sempre più rilevanza e spingeva per un diverso modello di sfruttamento economico dei paesi occupati, cominciò a stringersi il cappio insaponato dell’europeismo.

Infatti – in modo assai diverso da quanto viene raccontato, per cui sarebbe il parto spontaneo di pacifisti ispirati da alti valori umani di collaborazione tra i popoli – il progetto europeista, come mostrato indubitabilmente dallo storico Joshua Paul, altro non è che un progetto americano, teso a tenere sotto il proprio tallone l’Europa occidentale e impedire che una potenza antagonista possa mai ergersi a minacciare la supremazia americana in quest’area geopolitica cruciale.

Non occorrevano troppi documenti desecretati per capirlo: invito chi abbia tempo (con la disoccupazione quello non manca, bisogna vedere, però, se è possibile ancora pagarsi una connessione internet) a vedere o rivedere il famoso film Vacanze Romane, con il quale Hollywood riuscì a trasformare una commediola sentimentale in un pretesto per parlare della bontà e necessità della cooperazione tra i popoli europei. Siamo nei primi anni cinquanta, anni in cui si intensificarono gli sforzi americani in questa direzione, e non a caso il film fu girato proprio a Roma, sede nel 1957 di uno storico trattato istitutivo della CEE. (Per altro – cari amici incantati dai film e serie tv americane, sorbite assieme a bevande zuccherate che fanno la gioia dei dietologi – Hollywood funziona a tutt’ oggi, così, con i suoi divi di Stato cui potreste assomigliare se il chiururgo plastico fosse un filantropo: ecco, per gli scettici, una Angelina Jolie in una conferenza congiunta con il Segretario Generale della NATO.

Il crollo della Unione Sovietica, fornì dunque l’occasione per dare una vertiginosa accelerazione al progetto europeista, con la riunificazione tedesca (Andreotti, con finezza, ebbe a dire: “La Germania mi piace così tanto che ne preferivo addirittura due…”), e il famigerato trattato di Maastricht, che ci avviava, nel silenzio dei media, verso le nostre magnifiche sorti e regressive.

Il progetto è stato costruito dagli strateghi americani per ruotare intorno al ruolo predominante (precisamente di sub-dominio rispetto agli USA) della Germania, conferendo ad essa un esorbitante vantaggio al fine di tenerla saldamente legata al carro atlantico e di distoglierla da tentazioni di liaisons con la Russia, esiziali per gli interessi geopolitici a stelle e strisce.

In questo quadro, l’euro nasce appositamente per conferire alla Germania uno straordinario vantaggio economico ed è per questa ragione che non può essere smantellato.

Alla luce di quanto sopra, si comprende, ora, perché, se non spiegato nei suoi reali termini, che varchino l’ottuso semplicismo dominante, l’appello no euro è soltanto un argomento demagogico per raccogliere consenso?

E se non foste ancora convinti, avete notato la casuale coincidenza per la quale, avvicinandosi le elezioni, l’uscita dalla moneta unica sia sparita magicamente e all’unisono da tutti i programmi partitici? Come Salvini abbia dichiarato che la NATO non si discute e Di Maio si sia recato addirittura a Washington a giurare fedeltà al padrone? Dopo anni di propaganda convegni e il libriccino Basta euro, al momento di fare sul serio e di proporsi come potenziale forza di governo, la Lega ci presenta come soluzione alla morte del Paese, l’emissione dei “mini bot”, perché – udite – “non violano i trattati”. Ci rendiamo conto di quale dichiarazione di sudditanza, di impotenza, di servilismo e di mancanza di coraggio è contenuta in questa proposta da piattino in bocca? Di quali statisti in pectore si tratti?

Eh sì, nonostante il potere – quello vero, che detta l’agenda europeista e dei media – metta in scena la commedia degli opposti estremismi, sono lontani i tempi del sangue contro l’oro, e ancora più lontani quelli del sangue contro l’euro…

C’è, infatti, una tragica verità, che nessun politico vi dirà mai (anche se qualcuno ha suggerito qualche indizio ): l’unificazione europea prevede il sacrificio dell’Italia, la colonia più servile, la più indifesa, per motivi storici e antropologici.

Chi si opponeva a questo progetto di marginalizzazione del Paese: Moro, Craxi, parte della Dc, è stato eliminato con Tangentopoli e il Paese è stato immolato agli interessi americani e dei loro alleati privilegiati (in primis la Germania e subito dopo la Francia), che lo divorano a brani, grazie allo zelante collaborazionismo della nostra classe dirigente, che quando non è venduta è perché non trova acquirenti.

Nel nostro letto di Procuste, attendiamo adesso fiduciosi l’ultima aggressione al succulento boccone del nostro risparmio, che ancora tiene in piedi, assieme alle pensioni e alle case di proprietà (i soprammobili sono già al Monte dei pegni), un territorio – non è mai stata una nazione e non è più nemmeno uno Stato – con oltre il trenta per cento di disoccupazione effettiva.

Questa è, in estrema sintesi, la storia; il resto è propaganda. E non c’è un solo partito o sedicente tale che si presenti alle elezioni raccontandovi la verità.

Siamo un paese occupato. E in un paese occupato, le elezioni non sono soltanto inutili, sono una farsa.



Francesco Mazzuoli

Fonte: www.comedonchisciotte.org
 

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Forumer storico
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I principali argomenti a favore dell’abbandono dell’euro si possono così riassumere.

1) L’abbandono della moneta unica consentirebbe di svalutare la nuova lira, con effetti positivi sulle esportazioni, per conseguenza sull’occupazione e sul tasso di crescita. La svalutazione – si sostiene – potrebbe anche manifestarsi in modo spontaneo, come adeguamento del valore della nuova lira a un tasso di cambio ‘normale’ con l’euro. Viene argomentato, a riguardo, che le politiche messe in atto negli anni novanta (in particolare, le manovre fiscali restrittive dei governi Amato e Ciampi e la rivalutazione della lira) sarebbero state funzionali all’adozione della moneta unica, con un tasso di cambio lira-marco sopravvalutato. Ciò avrebbe determinato un calo delle esportazioni, dunque della domanda aggregata e del tasso di crescita. La prescrizione di policy che viene derivata è tornare alla valuta nazionale per consentire la libera fluttuazione del tasso di cambio e la sua svalutazione.

Si tratta di un argomento che si presta a una duplice obiezione. In primo luogo, la svalutazione comporta un aumento dei prezzi dei prodotti importati, con conseguente riduzione dei salari reali. A meno di non immaginare un ritorno all’indicizzazione dei salari, ciò produrrebbe un effetto ridistributivo a danno dei lavoratori. In tal senso, non è affatto da escludere l‘ipotesi che l’exit produca un ulteriore peggioramento della distribuzione dei redditi. A ben vedere, è questa la direzione verso cui (implicitamente) si intende andare: (i) aumentare le diseguaglianze fra gruppi sociali attraverso l’imposta unica (flat tax), dalla quale deriverebbe un profilo ancora più regressivo del sistema tributario; (ii) accrescere le divergenze regionali attraverso lo spostamento della contrattazione a livello regionale, al fine di legare le dinamiche salariali a quelle dei prezzi (e dunque al fine di ripristinare le gabbie salariali) [1].

In secondo luogo, la svalutazione non ha (come non ha avuto, negli anni nei quali è stata realizzata) effetti uniformi su scala nazionale, dal momento che reca vantaggi alle aree nelle quali sono localizzate le imprese esportatrici, potendo accentuare i divari regionali. E ancora, e soprattutto, la politica delle svalutazioni competitive consente (e ha consentito) alle imprese italiane di competere riducendo i costi, disincentivando, per questa via, le innovazioni e contribuendo a ridurre il tasso di crescita della produttività del lavoro; già il più basso in Italia rispetto alla media dell’Eurozona. A ciò si può aggiungere che le politiche di moderazione salariale messe in atto in Italia (come politiche sostitutive delle svalutazioni competitive), anche quando hanno prodotto avanzi del saldo delle partite correnti, non si sono tradotte in aumenti dell’occupazione.

2) Per necessità logica, si sostiene, la moneta unica comporta l’adozione di politiche di austerità. Si potrebbe per contro sostenere che il principale (ovviamente non unico) vulnus dell’unificazione monetaria risiede nell’impossibilità di monetizzare il debito. Ma anche in questo caso si è trattato di una scelta propriamente politica, in quanto tale modificabile, con l’ovvia condizione che vi siano rapporti di forza tali da renderne possibile il superamento. Ed è una scelta almeno parzialmente (e temporaneamente) superata dal quantitative easing. Si potrebbe anche aggiungere il vulnus dell’inesistenza sostanziale di una politica fiscale comune. E tuttavia, ritenere che l’Italia fuori dall’Unione Monetaria europea adotti politiche fiscali espansive significa di fatto tacere sulla natura di classe delle scelte di politica economica. Ciò in relazione agli attuali rapporti di forza fra capitale e lavoro, che determineranno se e come eventuali politiche fiscali espansive post-euro si faranno. Un passo falso in tal senso è ritenere, da parte dei sostenitori della convenienza ad abbandonare l’euro, che solo in questo modo si potrà recuperare sovranità monetaria. Peraltro, una sovranità monetaria alla quale il nostro Paese ha rinunciato dal lontano 1981, anno nel quale si sancì il “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia.

Occorre chiarire che il c.d. declino italiano data ben prima dell’ingresso nell’UME ed è sostanzialmente imputabile all’assenza di politiche industriali e, dunque, al continuo declino del tasso di crescita della produttività del lavoro almeno a partire dall’inizio degli anni novanta. La retorica del “piccolo è bello” ha giocato un ruolo rilevante nel preservare il ‘nanismo’ imprenditoriale italiano, che è il primo fattore che spiega la scarsa propensione all’innovazione delle nostre imprese. La Lega, per contro, si propone semmai di accentuare questo processo, con misure di agevolazione per “piccoli imprenditori, commercianti e artigiani che con il loro lavoro danno sostanza ad un tessuto sociale vivace e democratico che eroicamente resiste all'appiattimento economico e culturale che sempre accompagna l'affermarsi dei grandi monopolisti multinazionali”.

3) È necessario attrezzarsi per la messa in discussione del libero scambio all’interno dell’eurozona, per evitare la “concorrenza sleale” delle imprese estere che operano sul mercato italiano. Qui si pongono due rilievi critici. In primo luogo, la struttura produttiva italiana è composta prevalentemente da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, poco orientate alle esportazioni (soprattutto nel Mezzogiorno), collocate in settori produttivi maturi: agroalimentare, turismo, beni di lusso. In sostanza, pare di capire che questa tesi non tenga conto del fatto che i problemi dell’economia italiana prima ancora di essere problemi di finanza pubblica sono problemi che attengono alla fragilità della nostra struttura industriale, e che derivano, in ultima analisi, da scelte politiche che risalgono a una stagione precedente l’adozione della moneta unica: in primis, la rinuncia all’attuazione di politiche industriali. A ciò si può aggiungere che l’eventuale attuazione di misure protezionistiche indebolirebbe ulteriormente il già fragile settore produttivo italiano, che già stenta a integrarsi nelle “catene del valore” dell’Eurozona. In secondo luogo, il capitale tedesco non ha molto da perdere dall’adozione di misure protezionistiche in una nuova Europa delle piccole patrie, in quanto una quota consistente delle esportazioni tedesche è già indirizzata altrove: le esportazioni tedesche intra-UE, infatti, si sono ridotte negli ultimi anni, a vantaggio di altre aree, Cina in primis. Stando così le cose, si può ragionevolmente ritenere che la sopravvivenza dell’Unione dipende, in larga misura, dalla capacità dell’industria tedesca di accrescere ulteriormente la propria quota di esportazioni in Paesi extra-UE, e che è semmai la Germania, non l’Italia, a poter ottenere i maggiori vantaggi dall’abbandono dell’euro. Peraltro, come recentemente documentato da Guarascio et al., la quota delle esportazioni tedesche verso l’Europa dell’Est è in continuo aumento.

I sostenitori della convenienza dell’uscita dall’euro riconoscono che il ritorno alla lira genererebbe un significativo aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato. A riguardo, si può ricordare che i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico si sono ridotti a seguito dell’adozione della moneta unica. Lo spread fra titoli di stato italiani e tedeschi, a fine anni novanta, era in media intorno ai 500 punti, raggiungendo il massimo storico (575 punti sui titoli a breve scadenza) nel 2012, per poi ridursi costantemente (grazie alla “protezione” della BCE).

In sostanza, affinché l’operazione abbia successo, occorre immaginare il verificarsi dei seguenti eventi: ritorno alla lira; con possibilità di monetizzare il debito; con politiche fiscali espansive (e tassazione regressiva); con adozione di misure protezionistiche (in particolare, sanzioni alle delocalizzazioni); con svalutazione della nuova lira e aumento delle esportazioni; in assenza di attacchi speculativi. Anche ammettendo la riuscita dell’operazione, vi sono almeno due ragioni per ritenerla peggiorativa rispetto alla condizione attuale. In primo luogo, le imprese italiane che operano sul mercato interno sono, nella gran parte dei casi, imprese di piccole dimensioni con bassa propensione all’innovazione. In secondo luogo, le nostre (poche) imprese esportatrici vendono all’estero prevalentemente per fattori che attengono alla qualità del prodotto e non al prezzo. In più, sul piano empirico, si rileva che i principali Paesi dell’Unione Monetaria Europea, con eccezione della Francia e in parte del Regno Unito, a partire dal 2011 registrano aumenti del saldo della bilancia commerciale in rapporto al Pil. Ciò vale anche per l’Italia, ma con effetti sul tasso di crescita pressoché insignificanti (il miglior risultato ottenuto dal 2011 al 2016 è un tasso di crescita dell’1%) e comunque in assenza di apprezzabili incrementi del tasso di occupazione (che, pur a fronte di incrementi di esportazioni è semmai aumentato, passando dall’8.3% dell’agosto 2011 all’11.2% dell’agosto 2017). In tal senso, non vi è ragionevolmente da attendersi che l’economia italiana recuperi un sentiero di crescita a partire da questa struttura produttiva. Al recupero della ‘sovranità’ monetaria (così come invocata dalla Lega) occorrerebbe semmai contrapporre il recupero di quella che si potrebbe definire la ‘sovranità tecnologica’, limitando la dipendenza dell’economia italiana da innovazioni prodotte altrove.

[1] Si veda il contributo di Amedeo di Maio e Ugo Marani su questa rivista.

(20 febbraio 2018)

La Lega e l’Euro: tutti i rischi dell’Italexit
 

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