EURO: solo i microcefali non capiscono ancora (1 Viewer)

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Italia più povera con l’uscita dall’euro

di Lorenzo Forni - 20 giugno 2017

I sostenitori di un’uscita dell’Italia dall’area dell’euro pensano di raggiungere almeno due obiettivi. Innanzi tutto una svalutazione competitiva che rilanci la crescita. In secondo luogo di riconquistare i margini di manovra della politica fiscale e monetaria che attualmente sono vincolati dalle regole europee (politica fiscale) o di cui abbiamo perso il controllo diretto in quanto condivisa con gli altri Paesi membri dell’euro (politica monetaria). Altri prima di me su queste colonne hanno affrontato le questioni più di lungo periodo relative a questi temi, quali i vantaggi e limiti nel caso di un Paese come l’Italia di avere una politica monetaria indipendente. Io mi focalizzerò maggiormente sulle implicazioni di breve periodo.

Cominciamo dalle politiche fiscale e monetaria. La ragione per cui non possiamo fare politiche fiscali espansive non è perché ce lo impedisce l’Europa, ma perché con un debito al 133% del Pil e con una crescita anemica i mercati iniziano a dubitare che il Paese sia in grado di ripagarlo (vedi spread sui titoli di Stato anche verso quelli spagnoli e il recente downgrade di Fitch). Ma, giustamente direbbe il fautore dell’uscita, con anche una politica monetaria indipendente, la Banca d’Italia potrebbe comprare titoli di Stato senza limiti per cui non dovremmo preoccuparci dei mercati e della sostenibilità del debito. Questo è vero, ma per dare un’idea delle quantità, i titoli di Stato in scadenza quest’anno oltre a quelli emessi per finanziare il disavanzo corrente sono circa 400 miliardi, cioè tra un quarto e un terzo della massa monetaria in circolazione nel Paese. Nel giro di qualche anno la moneta in circolazione aumenterebbe in misura enorme e l’inflazione schizzerebbe a livelli estremamente elevati. Vale la pena ricordare che l’inflazione è una tassa, riduce il valore reale dei redditi e dei risparmi, quindi rende più poveri senza che nessun Parlamento l’abbia votata esplicitamente. Insomma non sarebbe una via d’uscita indolore.

Veniamo ora alla questione della svalutazione competitiva. Primo, siamo certi che la nuova lira si svaluterebbe e non rivaluterebbe? Secondo, assumendo che ci convincessimo della svalutazione, ne vale la pena? Come ogni scelta non ovvia, bisogna pesare vantaggi e svantaggi e arrivare a una valutazione.

Primo punto, uscendo dall’euro la nuova lira si svaluterebbe? Direi che tutti gli argomenti suggeriscono di sì. Dall’ingresso nell’euro l’Italia ha perso significativamente competitività rispetto ai propri concorrenti sui mercati di sbocco (ad esempio rispetto alla Germania, che è il principale concorrente in un numero di mercati, l’Italia ha perso circa il 10% di competitività se misurata ai prezzi finali e il 40% se misurata ai costi di produzione). Quindi è evidente che un riallineamento verso il basso sarà il risultato ricercato dopo l’abbandono dell’euro. Ciò sarà facilmente raggiunto perché la fiducia nel Paese una volta fuori dalla moneta unica crollerebbe. Se gli investitori percepiscono che il piano dei nostri policy-maker è quello di fare politiche fiscali espansive stampando moneta e creando inflazione, si aspetteranno un ulteriore indebolimento della nostra valuta e staranno lontani dalle attività finanziarie del Paese. Se si genera un’aspettativa di svalutazione, questa sarà inevitabile e potenzialmente anche elevata, perché gli investitori cercheranno di vendere e uscire dall’investimento prima possibile generando una fuga di capitali. Il governo potrebbe contrastare questa tendenza attivando controlli di capitali, ma questo non eviterebbe la svalutazione.

In teoria i mercati potrebbero puntare su una rivalutazione della nuova lira e investire massicciamente nel Paese. Ma potrebbe un’improbabile aspettativa di rivalutazione della nuova lira autorealizzarsi? Forse sì, ma non ci sarebbe da augurarselo. Dal momento che i sostenitori dell’uscita dall’euro immaginano di stampare moneta per finanziare il deficit di bilancio e magari aumentarlo anche, l’aspettativa di una rivalutazione della nuova lira non sarebbe coerente. L’espansione monetaria condurrebbe a una riduzione dei tassi di interesse domestici e a un indebolimento della valuta. Se invece i mercati si aspettassero politiche monetarie e fiscali fortemente restrittive, la nuova lira potrebbe forse apprezzarsi, ma al costo di causare una recessione. Quale sarebbe allora il vantaggio di un’uscita se invece di ottenere una svalutazione competitiva si andasse incontro con certezza a una recessione?

Una svalutazione sembra quindi l’ipotesi più appropriata. Quale sarebbe la dimensione è difficile dirlo, dipenderebbe da molti fattori, tra cui il tipo di politica economica che il Paese adottasse dopo l’uscita. Quale il vantaggio in termini di crescita? Sulla base di stime di Prometeia, per ogni punto percentuale di svalutazione del cambio (nominale effettivo) il Pil cresce di circa lo 0,1% già nell’anno in corso. Quindi per 20 punti di svalutazione, la crescita, a parità di tutto il resto, potrebbe essere di 2 punti percentuali più alta il primo anno. Un guadagno non irrilevante. Tuttavia, questo sarebbe ottenuto in larga misura grazie alla riduzione dei salari reali (conseguente alla svalutazione e all’inflazione importata) e non grazie ad aumenti di produttività (e quindi con crescita dei salari reali). Come a dire, cresceremmo di più ma saremmo più poveri. Inoltre, l’esperienza delle ricorrenti svalutazioni italiane degli anni 70 e 80 mostra che questi benefici sono stati di breve periodo e si sono esauriti nel giro di pochi anni perché l’inflazione che ne è seguita ha eroso il vantaggio competitivo acquisito con le svalutazioni. Ciò è coerente con i risultati di alcuni lavori econometrici che mostrano che la crescita nei Paesi avanzati non è sostanzialmente diversa tra Paesi che hanno regimi di cambi fissi e flessibili.

Se la svalutazione potrebbe darci qualche sollievo temporaneo, l’uscita dall’euro avrebbe invece conseguenze fondamentali per generazioni a venire. Innanzi tutto la possibilità di uscita dall’euro non è prevista dai trattati (mentre lo è l’uscita dalla Ue) quindi si avvierebbe una guerra diplomatica con gli altri Paesi europei e con ogni probabilità dovremmo uscire anche dalla Ue. L’impatto sarebbe immediato sulla nostra capacità di esportare negli altri Paesi europei. Inoltre, bisogna anche considerare gli effetti della svalutazione sulla nostra posizione patrimoniale. Ripagare il debito pubblico in euro diventerebbe impossibile (una svalutazione di solo il 10% lo farebbe automaticamente crescere di più di 200 miliardi, circa il 12% del Pil) e quindi il Paese andrebbe incontro a un massiccio default (che qualcuno chiama “ridenominazione”) con tutte le conseguenze legali ed economiche che ciò comporta. Analogamente, imprese finanziarie e non hanno emesso debiti sotto giurisdizione internazionale (quindi non ridenominabili) per circa di 300 miliardi di euro. Come potrebbero ripagare questi debiti se le loro entrate fossero in una nuova valuta svalutata? Rimando a un lavoro di Prometeia scaricabile al link Europe: risks and opportunities March 2017 per maggiori dettagli su questi aspetti.

Tutto sommato, mi sembra che l’idea che un’uscita dall’euro risolva i nostri problemi sia solo un miraggio, una scorciatoia che non porta da nessuna parte e impoverirebbe il Paese. Sarebbe più utile utilizzare le nostre energie per risolvere i nostri problemi e contribuire a migliorare la casa comune europea.

*Lorenzo Forni è professore di Politica Economica nel Dipartimento di Scienze economiche e sociali “Marco Fanno” dell’Università degli Studi di Padova e Segretario Generale di Prometeia Associazione.

Italia più povera con l’uscita dall’euro
 

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Forumer storico
Infatti per chi non ha capito uscire dalla UE e' anche uscire dall'euro.
Il punto e' che all'Italia costera' un po di piu' dell'Inghilterra ma ormai il danno come dice Draghi e' "irreversibile"
A questo punto a far saltare il domino dell'euro puo' essere anche un piccolo paese come la Grecia ormai portata alla rovina da questo fallimentare progetto basato sui soldi e una morale globalista autodistruttiva.
 

tontolina

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Continuano le ingerenze più o meno criptate da parte di Stati esteri sulle prossime elezioni italiane. Ma non si tratta dei soliti perfidi russi: sono invece i nostri vecchi cugini e vicini casa francesi e tedeschi.

Secondo il quotidiano Die Welt, l'Italia è l'assoluto fanalino di coda dell'eurozona, messo anche peggio della Grecia. L'articolo è contenuto nelle pagine economiche del giornale teutonico e il titolo dice già tutto: "Se i greci lasciano indietro gli italiani". La preoccupazione principale dei tedeschi infatti è che alle prossime elezioni, indipendentemente da chi vinca, nessun presidente del Consiglio abbia la forza di varare quelle riforme radicali, come in Grecia che sarebbero l'unica soluzione che per cambiare qualcosa. I giornalisti berlinesi a quanto pare non sono soddisfatti dei programmi elettorali dei partiti italiani.

L'immagine tracciata del Belpaese è sconfortante: L'Italia è l'unico paese dell'Eurozona il cui livello di vita, dall'entrata in vigore dell'unione monetaria, è diminuito, per poi aggiungere che il modello economico precedente era molto semplice… quando la congiuntura si bloccava, si svalutava la lira, che ridava benzina alle esportazioni e rianimava la congiuntura, con il passaggio all'unità monetaria questo non si è più potuto realizzare. Intanto i cittadini continuano ad avere prestazioni scarse e per giunta care.

Insomma, se è difficile affermare che l'istantanea scattata sia lontana dalla realtà, è anche vero che nel finale dell'articolo Die Welt afferma come il Governo uscente abbia tentato di avviare qualche timida riforma che oggi rischia di bloccarsi. La vocazione egemone della Germania sugli altri Stati sovrani europei è dimostrata pure dalla proposta lanciata — come riportato peraltro dal Sole24Ore — da un gruppo di autorevoli economisti franco-tedeschi alla cui guida vi è Clemens Fuest (Ifo Institute e Università di Monaco), che prospettano tre possibili azioni contro i Paesi più deboli dell'Unione: la possibilità di istituire i cosiddetti "accountability bond" (titoli di Stato junior subordinati) per i Paesi con deficit eccessivo, oppure la ristrutturazione del debito pubblico con allungamento delle scadenze, o ancora l'obbligo di accantonamento di capitale sull'esposizione al rischio sovrano delle banche.

Ancor più esplicitamente invandente è la presa di posizione di Pierre Moscovici, commissario UE degli Affari Economici, che senza mezzi termini ha sentenziato: Il voto italiano è un rischio politico per l'Unione europea. La proposta poi di sfondare il tetto del 3% nel rapporto deficit-Pil è un controsenso assoluto. Però la via tracciata dal rappresentante europeo, che indica nei fatti come l'unica possibile rotta sia quella della continuità politica rispetto all'attuale governo (e del rigore a oltranza dettato dalla Troika), non è molto coerente con la lettera inviata lo scorso novembre da Valdis Dombrovskis e da Pierre Moscovici al ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, nella quale si diceva che la Commissione potrebbe adottare un rapporto, a norma dell'articolo 126 del Tfeu, in maggio ed aprire una procedura per deficit eccessivo. Se da un lato è impossibile non vedere nell'attacco dell'europarlamentare socialista francese la volontà di influire sull'opinione pubblica italiana, dall'altro si deve denotare una certa dose di contraddizione laddove per evitare di trasformare l'Italia in un pericolo per l'Europa si invita al voto verso quelle stesse forze politiche che non hanno rispettato le regole imposte proprio dall'Unione europea, rischiando poi di buttare sulle spalle dei cittadini il conto salato delle sanzioni comunitarie.

A meno che, invece, un'Italia debole non faccia comodo al duopolio Francia-Germania… e allora la continuità con l'attuale governicchio assicura appunto gli interessi dei lobbisti stranieri. Macron d'altronde ha chiarito a Davos come intenda iniettare all'Europa nuova "forza" con la trazione franco-tedesca. Il disegno dell'ex funzionario della banca Rotschild è chiaro: un progressivo passaggio di sovranità popolare dai singoli Stati verso l'Unione in materia di digitale, difesa comune, migrazioni, investimenti, energia. E vi sono anche diversi politici italiani che auspicano sempre maggiori cessioni di sovranità, Bonino e Boldrini su tutti.


Perciò un governo italiota debole come quello che ha permesso alla Francia di fare in Libira il buono e il cattivo tempo sarebbe un meraviglioso strumento per svuotare di potere contrattuale un possibile concorrente nella gestione degli affari mediterranei o continentali. A Macron, infatti, possiamo contestare tutto, ma non la linearità con cui persegue i "suoi" obiettivi:

Non si può aspettare che tutti attorno al tavolo siano d'accordo. Se alcuni sono pronti a integrarsi si devono muovere. La porta resta aperta, ma non possiamo bloccare chi è più ambizioso.

Resta da vedere se i cittadini italiani, spagnoli, portoghesi o greci siano della stessa opinione.
 

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