Euro ... perchè? (1 Viewer)

tontolina

Forumer storico
sabato 9 marzo 2013

Anni buttati



Il grafico, tratto dal mio ultimo lavoro, rappresenta la serie del Pil italiano pro capite in termini reali, ai prezzi del 2005, dal 1980 al 2017, riportata nell'ultima edizione del World Economic Outlook (ottobre 2012).
I dati dal 2012 al 2017 sono, per forza di cose, stimati, col consueto ottimismo dei nostri fratelli statunitensi. Dal 1980 a oggi il reddito degli italiani è regredito in due occasioni: nel 1992, e poi, in caduta libera, dal 2007 a oggi, con un breve rimbalzo nel 2010, ma con una previsione di ulteriore calo quest'anno.
Alla fine di quest'anno il reddito degli italiani, a prezzi costanti (cioè in termini di effettivo potere di acquisto), dovrebbe essere più o meno pari a quello del 1997. Nel 2017 il reddito pro capite degli italiani in termini reali dovrebbe tornare ad essere quello che era stato nel 1999. Diciotto anni buttati.

Notate che la crisi del 1992 provocò in effetti un lieve arretramento del reddito pro capite (essenzialmente per il carico fiscale che venne imposto agli italiani, insieme con lo smantellamento definitivo dell'indicizzazione salariale), ma che in quell'occasione l'economia ripartì immediatamente (e se lo diceva lui possiamo credergli, soprattutto considerando quello che aveva detto prima, che poi è quello che sta dicendo adesso. Piccola chicca per gli intenditori: notate anche il compagno Spaventa che dice che svalutare sarebbe stato "impossibile", che è poi esattamente quello che oggi i piccoli Giuda ripetono circa l'uscita dall'euro).

Notate anche che al di là del macroscopico, evidente scivolone, dal quale la mia generazione non si riprenderà più, in termini reddituali, l'entrata nell'euro ha rappresentato una stagnazione del reddito pro capite, che smette di crescere dal 2002, cioè dall'anno in cui la Germania ha cominciato ad attuare le sue politiche beggar-thy-neighbour.

Tout se tient.

Sono del resto cose che sapete già.

Ma un bel grafico, come ogni buon insegnante sa, vale più di mille parole.

Vogliamo indietro questi diciotto anni, vogliamo indietro il nostro paese, vogliamo un'Europa che abbia un senso.


da http://goofynomics.blogspot.it/2013/03/anni-buttati.html
 

tontolina

Forumer storico
Torniamo alla realtà: l’Euro è spacciato

Che fare per uscire dalla crisi dell'Euro? Un'interessante analisi di Lars Seier Christensen di Saxo Bank


Proponiamo ai nostri lettori questo interessante report di Lars Seier Christensen Co-fondatore e CEO di Saxo Bank sulla crisi dell’Euro e su quelli che sono gli inevitabili scenari che si stanno aprendo.
Dopo la mia intervista su Bloomberg, intitolata “l’Euro è spacciato”, ho ricevuto moltissime domande da parte dei clienti e degli altri giornalisti: va davvero così male? È davvero colpa dell’Euro? Come andrà a finire? Come ci possiamo proteggere? Quando accadrà?
Sì, ritengo che la situazione nell’Eurozona sia veramente molto negativa e che la fonte principale dei problemi sia l’Euro.
Introdotto senza alcuna base solida, l’Euro non è altro che un castello di sabbia. Non esiste un’economia o una politica fiscale comune, il supporto pubblico è in calo e l’impatto dell’Euro su produttività e competitività è stato devastante per la maggior parte dei partecipanti. Mancano semplicemente le basi per una valuta comune e la

Link: http://www.investireoggi.it/economia/torniamo-alla-realta-leuro-e-spacciato/#ixzz2NcrrcTmC

 

tontolina

Forumer storico
Esclusiva – L’Intervista in forma integrale all’economista Alberto Bagnai – Euro e Crisi

20 marzo 2013 Di ScenariEconomici Feed

Di seguito ripubblichiamo l’intervista al Professor Alberto Bagnai, Professore associato di Politica economica, Facoltà di Economia, Uni. G.D’Annunzio, Pescara. Qui il CV del professore (www.bagnai.org ).
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L’intervista era stata pubblicata in 3 parti nelle scorse settimane, e certamente e’ un punto di vista autorevole per seguire e spiegare l’attuale crisi che vive l’Europa. Di seguito i link con le 3 parti dell’intervista gia’ pubblicate.


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PARTE 1 – ECCO PERCHE’ L’EURO E’ INSOSTENIBILE
D – Professore, sono note le sue tesi sull’Euro; perche’ questa crisi in Europa?
R – Non per fare il “precisino”, ma vorrei chiarire subito che quelle che in Italia sono indicate come le “mie” tesi sull’euro in realtà di mio hanno ben poco. Ci tengo sia per onestà intellettuale (non sarebbe bello attribuirsi idee altrui), sia per far capire quanto sia indietro il dibattito in Italia (dove tesi comunemente accettate all’estero ancora sembrano rivoluzionarie).
L’insostenibilità di una moneta unica in Europa era un fatto ben noto alla scienza economica e agli stessi politici che hanno promosso il progetto di unione monetaria, come oggi vede e dichiara perfino Luigi Zingales, uno degli araldi dell’ortodossia economica italiana. Sono stati del resto i politici stessi a dire che l’euro sarebbe servito a governare i popoli europei a colpi di crisi. Lo documento nel libro e nel mio blog, riportando le tante dichiarazioni pubbliche di Prodi, Monti, Padoa Schioppa, Attali, Juncker, ecc. Non è una sorpresa, non c’è nulla di originale, né di complottistico.
Il problema principale è che adottando un cambio fisso, un paese si priva di un normale meccanismo di risposta a shock negativi provenienti dall’esterno: la possibilità di aggiustare il valore della propria valuta alle mutate condizioni di mercato.

Non c’è nulla di scandaloso né di immorale nel fatto che il prezzo di una valuta segua la legge della domanda e dell’offerta. Se glielo si impedisce, si crea una tensione che fatalmente si scarica sul mercato del lavoro.

Lo dice benissimo Vittorio Da Rold sul Sole24Ore: in caso di problemi “o si svaluta la moneta (ma nell’euro non si può più) o si svaluta il salario”.



Il problema è che la svalutazione (cioè il taglio) del salario, quella che oggi chiamiamo “svalutazione interna”, è un processo doloroso, lento, e soprattutto inefficace. Infatti, il taglio dei salari ha lo scopo di intercettare domanda estera offrendo prodotti a prezzi più contenuti, ma al tempo stesso distrugge la domanda interna.


La svalutazione del cambio, invece, permette un recupero di competitività più rapido. Basta confrontare i risultati conseguiti dalla Lettonia (che ha seguito la strada della svalutazione interna, massacrando la propria economia, come ricorda Mario Seminerio, altro economista ortodosso e pro-euro), e dalla Polonia, che invece dopo il crack Lehman del settembre 2008 ha lasciato svalutare lo zloty di quasi il 30%, risultando l’unico paese dell’Unione Europea con un tasso di crescita positivo nel 2009 (+1.6%). E notate che, una volta di più, questo risultato è stato ottenuto senza particolari costi in termini d’inflazione, che anzi in Polonia è scesa dal 4.2% al 3.4% fra 2008 e 2009, come ricordano Kawalec e Pytlarczyk.
Anche qui non c’è nulla di nuovo: nel mio ultimo libro documento svariati casi del genere. Il terrore dell’inflazione in caso di sganciamento non ha alcuna base storica né scientifica.

Rimane allora la domanda: ma se rinunciare alla flessibilità del cambio fa tanti danni, impedendo di reagire rapidamente a una recessione, perché si sceglie questa strada palesemente sbagliata?
La risposta più plausibile a questa domanda, a mio avviso, è stata data da Roberto Frenkel e dai suoi coautori, partendo dall’analisi delle crisi dei paesi emergenti, fra i quali l’Argentina.


D – Si riferisce al “ciclo di Frenkel”, descritto nel suo libro recentemente pubblicato Il Tramonto dell’Euro (Il tramonto dell'euro: Amazon.it: Alberto Bagnai: Libri )? Questo ciclo passa per le sette fasi che qui riassumo:


continua link: Esclusiva ? L?Intervista in forma integrale all?economista Alberto Bagnai ? Euro e Crisi | Rischio Calcolato
 

tontolina

Forumer storico
La Polonia è stata chiara: niente euro prima del 2015. “Dobbiamo valutare costi e benefici” ha detto il Presidente polacco Bronisław Komorowski.

E ad onor del vero, allo stato attuale dei fatti, chi si sente di dargli torto? L’Europa di oggi non è più una meta da raggiungere, un conglomerato di Paesi in cui entrare per non rimanere tagliati fuori dal mondo.

Anzi, sta diventando sempre più probabile che la tanto agognata Eurozona fra qualche anno non esista più, uccisa dalla crisi e da politiche errate che anziché far ripartire l’economia la stanno strozzando in una morsa assassina.

La piccola Polonia ha paura di diventare presto un’altra delle vittime di questa situazione che non accenna a fermarsi. Come la Slovenia, entrata nell’euro solo nel 2004 e già, dopo nove anni di battaglie e di Governi incapaci di far fronte ai problemi, in pericolo default.

E allora andiamo a vedere quali sono i timori e i perché che hanno spinto la Polonia a prendere questa decisione.
Le radici della decisione

“Perché dobbiamo adottare l’euro adesso? Non c’è alcuna fretta. È chiaro, nonché importante e fondamentale, che ci sia un ampio sostegno pubblico. Bisogna convincere il popolo polacco che l’adesione all’euro è una buona cosa per il Paese.

Queste le parole pronunciate da Bronisław Komorowski alcuni giorni fa. Parole che faranno storcere il naso ai vertici di Bruxelles che, al contrario, vorrebbero che il Paese polacco accelerasse i tempi.

La decisione era già nell’aria. Già un anno fa, nel pieno della crisi, il Ministro delle Finanze Jacek Rostowski aveva palesato i primi dubbi sulla questione, dubbi che oggi vengono confermati dal Presidente Komorowski.

Solo dopo un’attenta valutazione di costi e benefici, ma anche, dopo le elezioni politiche e presidenziali che si svolgeranno fra due anni, la Polonia farà una scelta sul proprio futuro.

Anche il Premier Donald Tusk è intervenuto dicendo il suo parere sull’argomento:

“Solo così la Polonia potrà avere tutti gli elementi che gli permetteranno di scegliere la migliore opzione, al fine di garantire la sicurezza dell’economia polacca e mantenere la propria competitività, anche dopo l’entrata nell’eurozona”.

- I dubbi polacchi

Il PIL polacco è cresciuto del 4,3% nel 2011 e del 2% nel 2012; i conti pubblici sono equilibrati, con un rapporto deficit/Pil del 3,4%, in calo rispetto agli anni passati (ricordiamo che la soglia fissata dal Fiscal Compact è del 3%). Ma cosa ancora più importante: la Polonia non ha subito il contagio della crisi che ha afflitto l’intera Eurozona.

- E allora perché entrare nell’euro?

“Il più grande timore percepito è quello di un peggioramento delle condizioni economiche e di una più elevata vulnerabilità. Non sempre l’euro è visto come un’opportunità, specie in periodi di estrema sofferenza come questi.”

Queste le parole che si leggono in uno studio di PKO Bank, la più importante banca del Paese.
Del resto, neanche i cittadini polacchi sembrano troppo convinti. Secondo lo stesso studio, solo il 41% della popolazione vorrebbe l’euro al posto dello zloty.

- La situazione europea

Le elezioni italiane sembrano aver dato il colpo di grazia all’Europa. Da ogni parte del mondo arrivano condanne a quell’austerity che fino a pochi giorni fa sembrava la soluzione ai problemi del continente.

L’Eurozona pare sull’orlo del precipizio e i dissidi interni si acuiscono sempre di più.
La Germania contro tutti. I vertici tedeschi sembrano ormai gli unici a credere che austerity e rigore possano davvero risolvere qualcosa.

E allora, in una situazione del genere, siamo sicuri che quella della Polonia non sia una scelta lungimirante?

fonte: La Polonia da uno schiaffo a Bruxelles: non vuole più l?euro. L?Europa dell?austerity non è più una meta
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Foto del diario | Facebook
 

big_boom

Forumer storico
si prevede un krollo dell'euro

e' sopravalutato perlopiù per l'espansione se si ferma addio investimenti in europa
 

tontolina

Forumer storico
Banche italiane: guai in arrivo!










Scritto il 28 marzo 2013 alle 17:49 da carloscalzotto@finanza


Che sta succedendo nelle banche italiane?
Scandali, crisi di singoli istituti, ipotesi di riforma del sistema finanziario, provvedimenti di Banca d’Italia.
Le banche di Cipro e i loro disastri finanziari sono sulle prime pagine dei giornali. Ma, nelle ultime settimane, c’è stato molto altro. Un hedge fund statunitense è costretto dalla SEC a pagare una multa di 600 milioni di euro per mettere a tacere un’accusa di insider trading. JP Morgan è stata accusata da una commissione del Senato statunitense di aver nascosto informazioni importanti sulle grandi perdite incorse di recente dall’istituto sul mercato dei derivati, mentre la Standard Chartered è accusata di aver trafficato clandestinamente con l’Iran.

Infine, per non dimenticare l’Europa, i giornali tedeschi danno la notizia che alcune banche del paese avrebbero frodato il fisco per diversi miliardi di euro.
La riforma del sistema finanziario, intanto, non riesce a decollare. Il comitato di Basilea che si occupa delle norme relative ai livelli di capitale e di liquidità ha pubblicato uno studio che mostra come le più grandi banche del mondo – che si erano a suo tempo opposte in modo virulento alle misure introdotte – abbiano fatto progressi nell’aumentare i livelli di capitale. Mancano ora soltanto 208 miliardi di euro di fondi freschi per raggiungere l’obiettivo finale, che è fissato per il 2019. Un traguardo facile da raggiungere, perfino troppo facile.
È uscito da poco un libro sul sistema bancario – A. Admati e M. Hellwig, The bankers’ new clothes: what is wrong with banking and what to do about it, Princeton University Press, Princeton, 2013 – che offre un’analisi completa delle cause della crisi finanziaria, mostra che tali cause non sono scomparse e sostiene che, quindi, le difficoltà ritorneranno. Le banche, affermano gli autori, presentano una fragilità finanziaria che non è contingente ma sistematica. Si tratta di istituzioni molto pericolose, il cui modello economico porta alla bancarotta e che dovrebbero essere protette da se stesse, aumentando fortemente i capitali propri.
Il libro mostra come l’opposizione delle banche all’aumento dei coefficienti di capitale abbia molte ragioni, tra le quali il fatto che esso porta a una diminuzione della redditività, che era cresciuta a suo tempo proprio perché gli istituti si assumevano rischi più elevati di prima sia sul fronte della gestione operativa, con la speculazione selvaggia sul mercato, che su quello della struttura di capitale, con un rapporto capitali propri/debiti che era sceso a livelli bassissimi. Tutto questo sapendo che, in caso di difficoltà, sarebbe poi corsi al socorso i pubblici poteri.
Di fronte a degli obiettivi fissati da Basilea di un 7,5% di mezzi propri sul totale delle attività per le banche ordinarie e del 9,5% per quelle portatrici di un rischio sistemico, i due autori sottolineano che tali livelli sono del tutto insufficienti e che dovrebbero essere invece portati al 20-30%.
Da questo punto di vista, qual è la situazione delle banche italiane? Subito dopo lo scoppio della crisi si pensava che le banche del nostro paese se la fossero cavata meglio di altre, e almeno in parte era vero; ma la ragione non stava nella superiore capacità dei nostri istituti di gestire le cose, ma nel fatto che erano di qualche anno in ritardo rispetto all’”innovazione finanziaria” delle loro omologhe europei e statunitensi e non avevano ancora avuto il tempo di assimilare le novità tossiche inventate altrove. Poi le cose sono cambiate.
Con l’avanzare della crisi, la crescita del sistema si è bloccata, i margini di redditività si sono assottigliati e i singoli istituti hanno rivisto le strategie, riducendo gli eccessi passati. Si è assistito così a riduzioni del personale e al taglio delle filiali, alla vendita di attività, riduzione della presenza estera, outsourcing.
Mentre si svolgevano tali operazioni, è venuta alla luce la crisi di diversi istituti, spesso coniugata con qualche scandalo. È questo il caso del Monte dei Paschi di Siena, della milanese BPM, che ha chiuso il conto economico del 2012 con una perdita di 430 milioni, della Carige, con un risultato negativo di 63 milioni di euro, della Banca delle Marche, con una perdita di 520 milioni, per citarne solo alcuni tra i più importanti. Intanto si parla delle difficoltà di molti altri istituti, grandi e piccoli.
Che cosa sta succedendo? Intanto c’è la forte crescita dei prestiti alla clientela che non vengono onorati alla scadenza; con l’aggravarsi della crisi tali difficoltà sono destinate ad aumentare. Le sofferenze lorde sono cresciute in un anno di quasi 20 miliardi di euro, e quelle al netto dei fondi di accantonamento sono passate da un’incidenza del 12,7% sui mezzi propri del gennaio 2012 al 16,8% del gennaio 2013. Accanto alla crisi – che è un fenomeno “oggettivo” – pesano scelte sbagliate: un’ingiustificata sovraesposizione di molti istituti verso alcuni settori, tipicamente l’immobiliare e verso alcuni clienti, in molti casi imprenditori “amici”. E poi vengono alla luce veri e propri episodi di corruzione.
Nel frattempo, il credito alle imprese e ai privati continua a ridursi. Nel gennaio e febbraio 2013 il precedente trend negativo è continuato indisturbato. Da un confronto con gli altri grandi paesi dell’Europa continentale risulta che la nostra situazione è peggiore di quella di Francia e Germania – paesi nei quali il livello del credito alle imprese continua a crescere, sia pure a tassi ridotti – e migliore soltanto di quella spagnola.
Su tali difficoltà si sono abbattuti i recenti, perentori, suggerimenti della Banca d’Italia, che ha indicato alle banche la necessità di aumentare gli accantonamenti al fondo svalutazione crediti, in particolare per quanto riguarda i crediti al settore immobiliare e l’esigenza di ridurre la distribuzione di dividendi. Via Nazionale ha, naturalmente, come punto di riferimento i coefficienti di Basilea sopra ricordati. Si tratta di indicazioni importanti e condivisibili, dettate dalla tangibile evidenza che molte banche nascondevano almeno una parte dei guai sotto il tappeto. Ma queste indicazioni hanno scatenato una furiosa e contraria campagna di stampa. Come al solito, le banche non hanno il coraggio di esporsi in prima persona e si rivolgono quindi a qualche giornale amico. source
Il risultato del diktat di Bankitalia è stato, tra l’altro, di evidenziare la grande debolezza di molti istituti che in passato sembravano registrare risultati molto positivi. Così, con le tante incertezze economiche e politiche che segnano in questo momento il caso italiano, le banche italiane oggi appaiono quelle più a buon mercato d’Europa. I titoli Unicredit e Intesa Sanpaolo – banche che pure sembrano essere in linea con i nuovi coefficienti di Basilea – vengono scambiati rispettivamente al 50% e al 60% al loro valore contabile tangibile, contro una media di 100% per il sistema bancario europeo. Persino gli istituti spagnoli ottengono quotazioni migliori.
Alle difficoltà oggettive si è unita ora la questione di Cipro con l’imposizione di una pesante tassa sui depositi. Molti hanno cominciato a pensare, non senza qualche fondamento, che prima o poi toccherà anche all’Italia e alla Spagna e nei prossimi mesi è possibile che si avvii una sotterranea corsa al ritiro di depositi dagli istituti del nostro paese.



L’orizzonte si oscura ancora.
Siamo di fronte a un circolo vizioso tra

difficoltà bancarie,

riduzioni nei livelli del credito alla clientela,

pessimo andamento dell’economia reale.

Tale circolo vizioso potrebbe essere spezzato soltanto,

da una parte, sul fronte dell’economia reale, con l’avvio di una politica di sviluppo del paese,

dall’altra su quello finanziario, dall’avvio dell’Unione bancaria a livello europeo, che peraltro non appare di imminente costituzione,

o da forti aumenti dei mezzi propri degli istituti, aumento che non si sa come innescare.
Le fondazioni bancarie sono ormai allo stremo e non hanno molte risorse, i privati non hanno molta voglia di intervenire, affidarsi al capitale estero non appare per molti versi opportuno. Pensiamo da tempo che una possibile via di uscita, almeno parziale, potrebbe risiedere nella nazionalizzazione di qualche importante istituto di credito, una scelta che contribuirebbe a far ripartire il credito alle imprese.

Occorre poi mobilitare una parte delle risorse della Cassa Depositi e Prestiti e di quelle dei fondi pensione, come proposto di recente. Senza un cambio di marcia sulla finanza, i tempi diventeranno ancora più bui.
 

tontolina

Forumer storico
l'Euro è una moneta TOSSICA


Si nota che il conto corrente della Bilancia dei Pagamenti di Cipro non aveva passivi importanti fino al 2005, anno d’ingresso nell’Exchange Rate Mechanism, anticamera dell’ingresso dell’Euro (1 Gennaio 2008). Da quel momento il collasso.
Aggiugerei anche questa domanda:
PERCHE’ TUTTI QUESTI PAESI CASUALMENTE CONOSCONO IL MEDESIMO CICLO?

(Adozione valuta unica – Collasso bilancia dei Pagamenti e dell’economia produttiva – arrivo massiccio di capitali esteri essenzialmente Tedeschi che finanziano e consentono le Bolle Immobiliari ed Azionarie – Collasso – Rischiesta dell’Eurogruppo di misure suicide di Austerity fatte pagare al malcapitato e mai alle Banche Tedesche – progressiva fuga dei capitali tedeschi – Il paese di turno in profonda recessione e con crescita record della poverta’).
Infine:
PERCHE’ ALLA FINE NON PAGA MAI CHI E’ CAUSA (O COME MINIMO CONCAUSA) DEL DISASTRO?
(ci riferiamo ai Politici, alle Imprese ed alle Banche Tedesche e dei paesi limitrofi)

By GPG Imperatrice
 

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