E QUANDO PENSAVI DI AVER COMPLETATO L'ALBUM DEI CASI UMANI, ECCO CHE ESCONO LE FIGURINE SPECIALI (1 Viewer)

Val

Torniamo alla LIRA
Il decreto fiscale 2020 ha occupato il suo spazio nella vetrina degli Stati generali:
spacciato come vero bazooka tributario dell’attuale Esecutivo,
di fatto obbedisce alle richieste di rigore fiscale contro gli italiani
nei desiderata di Germania, Olanda, Danimarca, Austria e Paesi scandinavi.


La vera novità è la reintroduzione, e dopo quasi cent’anni,
del carcere per chi si macchia d’incapienza fiscale.

Ovvero, non chi omette una dichiarazione dei redditi, ma chi, pur riconoscendo debiti verso erario e grandi società pubbliche,
non dispone delle somme per saldare il dovuto nei tempi prescritti.

O peggio, chi a cospetto di un atto ingiuntivo non dispone di beni né di disponibilità finanziaria.


Nei primi anni del Novecento in quasi tutto l’Occidente era stato abolito il carcere
per gli indigenti con debiti verso pubbliche amministrazioni e privati:
il decreto fiscale reintroduce la carcerazione, questo non dovrebbe escludere la semilibertà
per consentire che i condannati paghino il debito lavorando presso cantieri pubblici e municipalizzate.

Detto in soldoni, torna il carcere per chi non può pagare le tasse.

Di fatto il decreto fiscale abbassa la soglia di punibilità per l’evasione fiscale
(che ora può prescindere dalla somma evasa) ed aumenta la pena anche per i piccoli evasori,
ovvero chi per vivere fa qualsivoglia lavoretto abusivamente.

La filosofia del nuovo decreto parte dal concetto che chiunque è un evasore,
e permette ai Comuni d’inserirsi con un piede pesante nelle intercettazioni e nelle confische.


Questa riforma, già definita dal premier Giuseppe Conte “priorità della nuova legge di bilancio per il 2020”,
abbassa la soglia di punibilità e aumenta le pene detentive per gli evasori,
per consentire che s’aprano le porte del carcere a tutti coloro che sono nell’impossibilità economica di pagare le tasse.

La riforma è stata caldeggiata dall’Ue poiché le statistiche avrebbero dimostrato
che più l’italiano ha reddito basso, più sarebbe incline al reato tributario.


Ovviamente le soglie di punibilità riguardano tutti, dal ciabattino di paese ad imprese e professionisti.

E sarà più facile commettere un reato, e basterà un errore formale nella dichiarazione dei redditi per finire nel registro degli indagati.

Per le imprese il reato di omesso versamento di ritenute dovute (o certificate) scende da 150mila a “soli” 50mila euro.

Mentre il reato di dichiarazione infedele passa da 150mila a 100mila euro.

L’omesso versamento dell’Iva scende da 250mila a 100mila euro.

Nella bozza del decreto legge (collegato alla manovra di bilancio) si scrive che sarà più semplice finire in galera
per il combinato disposto d’abbassamento delle soglie di punibilità e innalzamento delle pene: queste ultime davvero dure.

Esempio classico è la dichiarazione fraudolenta mediante fatture (documentazione per operazioni inesistenti),
che passa da un minimo di un anno e mezzo ad un massimo di sei anni (quella finora in vigore),
da un minimo di quattro ad un massimo di otto anni.

Di fatto per motivi fiscali (anche minimi) non è più eludibile il carcere.

Del resto il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha detto qualche mese fa che,
circa un milione d’italiani dovrebbero stare in carcere ma il sistema non garantisce la detenzione:


a quell’incontro c’era un noto magistrato del pool di Milano che ha ispirato i 5 Stelle nell’abolizione della prescrizione, ed il togato annuiva.

Non è certo un mistero che il ministro Bonafede intenda riaprire i bagni penali nelle isole
per garantire la massima carcerazione degli italiani, ed in barba al decreto “svuota carceri”.

Ma anche la “dichiarazione infedele” vede ritocchi in forte rialzo:
fino ad oggi punita da uno a tre anni, sale da un minimo di due fino a cinque.

Mentre l’omessa dichiarazione dei redditi (ieri un anno e sei mesi con massimo di quattro anni)
passa a pena detentiva da due a sei anni.

Pene pesanti per occultamento e distruzione di documenti contabili:
attualmente da un anno e sei mesi a sei anni, sale da un minimo di tre fino ad un massimo di sette.

Il nuovo decreto per i reati tributari consentirà alla giustizia di sottoporre ad intercettazioni tutti i sospettati d’evasione:

le forze dell’ordine avranno maggiore discrezionalità nell’intercettare le conversazioni degli indagati,
per il concetto che ogni dialogo può serbare un affare ed un passaggio di soldi.

Quindi lo Stato potrà procedere alla confisca dei beni in misura sproporzionata
nei casi di condanna penale per evasione di imposte sui redditi e Iva:
sproporzione che prevede, su condanne per 50mila euro evasi,
la possibilità di confisca dell’intero patrimonio del condannato,
indipendentemente dal valore dei beni (da 50mila la confisca supererà i milioni di euro).



Da settembre gli italiani potranno finire tra le sbarre senza necessariamente essere grandi evasori,
e perché le nuove pene prevedono minimi molto alti.

E non varrà nemmeno il poter confidare nella sospensione condizionale della pena:
poiché la detenzione minima ottenuta col patteggiamento sarà superiore al limite che consente sospensioni e pene alternative.

Obiettivo della riforma è punire i tanti piccoli evasori più severamente degli spacciatori di droga.

Nel mirino del fisco ci saranno ora tutti i cittadini, dagli incapienti (i cosiddetti poveri) sino a chi si separa per sfuggire a debiti e fisco:
per questi ultimi sono previste pene sino ad otto anni di reclusione.

Nel mirino dei Comuni saranno i tantissimi che vivono senza riuscire a giustificare fiscalmente
come riescano a pagare bollette d’utenze, fitti, mutui e spesa quotidiana:

l’indagine scatterà se l’incapiente risulterà proprietario della casa che abita,
o anche solo d’una vecchia auto a cui paga regolarmente assicurazione e bollo.


Alle polizie locali sarà permesso trarre con più semplicità in arresto chi colto abusivamente in lavori di falegnameria, officina, edilizia.

Allora come si fa a non sbagliare?

Il consiglio vile e camaleontico guarda al divano (vecchio e bucato), al lasciarsi andare nell’indigenza, al cadere al suolo a tasche vuote.

Perché solo chi è veramente povero non avrà nulla da temere, almeno finché c’è questa politica.

Se qualcuno cercasse di lavorare, vale la pena ricordare che non è il cittadino che decide in quale campo spendere le proprie energie,
ma c’è un burocrate pronto (si fa per dire) a negarci o meno di fare un lavoro.

Un burocrate che si consulterà col navigator... e stiamo a posto così.
 

Val

Torniamo alla LIRA
È finalmente arrivata la tanto attesa e sollecitata strigliata del Presidente della Repubblica alla magistratura
per le tristi e mortificanti vicende che ne hanno incrinato la credibilità agli occhi dell’opinione pubblica.

Sarebbe tuttavia un errore dare per scontato che alla severa critica possa seguire in tempi brevi
o lo scioglimento del Consiglio superiore della magistratura, che il Capo dello Stato non può effettuare
o quella riforma dell’organo di autogoverno della magistratura che da anni da più parti si invoca
non certo al fine di piegare la schiena dei giudici e dei pubblici ministeri e per sottoporli al potere della politica
ma, al contrario, per affrancarli dai condizionamenti che proprio il potere politico indipendentemente dal colore esercita
sulla loro categoria e sull’esercizio della giurisdizione riducendone sempre di più l’affidabilità agli occhi dei cittadini.


Il Presidente della Repubblica ha lanciato il sasso in piccionaia.

Ora, però, spetta al Governo ed al Parlamento dare una prospettiva ed uno sbocco concreto alla reprimenda quirinalizia
approntando una riforma che consenta di riappropriarsi dell’onore perduto alle toghe condizionate dalla politica
e agli italiani di riacquistare fiducia nei confronti dei singoli magistrati e dell’intero Stato.


Nessuno si illuda che la riforma della giustizia possa essere una impresa semplice e di breve durata.

Non perché se ne parla da decenni e non si riesce mai a realizzarla concretamente.

Ma perché i nodi da sciogliere non riguardano solo il sistema di elezione e di gestione interna del Consiglio superiore della magistratura
e la necessità di trovare un punto di equilibrio tra il diritto costituzionale dei magistrati di poter esprimere liberamente le proprie idee
organizzandosi in correnti e quello degli italiani di avere giudici capaci di giudicarli senza pregiudizi politici di sorta.

Accanto a simili questioni di fondo permangono i nodi legati alla metamorfosi e agli sviluppi di una società
che dai tempi di Montesquieu ad oggi ha subito cambiamenti inimmaginabili.

A cominciare dalla contiguità sciagurata tra i tre poteri tradizionali dello Stato di diritto ed il potere mediatico,
a cui si è consegnato il potere di esercitare una torsione, un condizionamento e di subornare i primi tre,
trasformando il magistrato in un protagonista della scena pubblica del Paese.

Con tutti i rischi e le conseguenze che una tale sovraesposizione di visibilità e popolarità comporta.


Certo, è impossibile che una qualsiasi riforma possa modificare i caratteri, le personalità e le ambizioni
di chi dedica la propria esistenza alla applicazione della legge.

Ma uno sforzo in questa direzione dovrebbe essere compiuto.

Per evitare che alla lunga nell’opinione pubblica italiana si ingeneri la convinzione che quella dei magistrati
debba essere considerata una casta di pericolosi disturbati da eccesso di fama, popolarità e visibilità
costretti a recitare sempre e comunque la parte di stelle del firmamento mediatico del Paese.


Spezzare il connubio che si crea tra media e magistratura è impossibile ?
 

Val

Torniamo alla LIRA
Per dovuta precisione, è stato il magistrato Nino Di Matteo a dichiarare a Massimo Giletti,
divenuto il suo confessore mediatico, che

“privilegiare nelle scelte che riguardano la carriera di un magistrato il criterio dell’appartenenza a una corrente
o a una cordata di magistrati è molto simile all’applicazione del metodo mafioso”.


E se lo dice lui, il più antimafioso dei magistrati, come non credergli?

Aggiungiamo che Di Matteo è membro del Consiglio superiore della magistratura,
grazie ad un’elezione dove non è azzardato presumere che anche nel suo caso
possa aver avuto influenza il naturale gioco delle correnti che presiede alla selezione delle candidature e alla distribuzione dei voti.

A parte questo, Di Matteo ha dato voce con una similitudine parossistica allo stupore dei cittadini di fronte al caso Palamara,
un altro magistrato che, nelle intercettazioni subìte e nelle indiscrezioni rivelate in pubblico allo stesso confessore,
ha ammesso che il sistema delle nomine consisteva nella spartizione delle cariche direttive tra gli esponenti delle varie correnti.

Insomma, per entrare al Csm e per farsene nominare ai vertici degli uffici giudiziari,
bisognava accettare l’azione redistributiva praticata dai capi dell’Associazione nazionale magistrati, il sindacato delle toghe.

È interessante notare che nella Prima Repubblica lo stesso sistema, ma riferito alla politica generale,
era vituperato (ma non dai partiti) con il nome di lottizzazione,
che significava strapotere usurpatorio dei partiti e ripartizione di incarichi, funzioni, uffici in proporzione della loro forza elettorale, nazionale o locale.


A ben vedere, tuttavia, la qualificazione delle nomine sentenziata da Di Matteo è nuova, sebbene in modo dirompente,
solo per l’esplicito e gravissimo riferimento alla mafiosità del metodo, vie più greve provenendo da un magistrato di punta nelle inchieste sulla mafia.

Infatti quel sistema era ed è il segreto di Pulcinella, essendo ben noto agli addetti ai lavori e ai non addetti che amano approfondire le cose.

Palamara ammette, “obtorto collo”, che il Re è nudo.

Di Matteo soggiunge che somiglia al Padrino.


Fin qui la “pars destruens” del magistrato Di Matteo risulta vera, corroborata da prove irrefutabili, dirette e indirette.

Invece la “pars construens” appare fragile, un pio desiderio piuttosto che un rimedio efficace contro la lottizzazione, appunto,
dei posti di componente del Csm e degli incarichi direttivi in magistratura che esso assegna per Costituzione.

Infatti, nella stessa confessione, Di Matteo apre il cuore:

“Più che le riforme serve a mio parere una svolta etica, un cambiamento vero che deve riguardare la mentalità dei consiglieri
e la mentalità di tutti i magistrati”.


Orbene, sorprende che un magistrato di tale esperienza trascuri la considerazione, una verità avallata dalla storia e dal diritto,
secondo cui nelle questioni di potere affidarsi alla palingenesi morale e alle svolte etiche non avvicina,
allontana la soluzione dei problemi generati dall’immoralità, dalla slealtà, dalle frodi, le quali prosperano
anche dove abbondano i magistrati onesti, capaci, virtuosi, se manca uno statuto dell’organo
che raffreni le passioni e i difetti comuni ad ogni uomo, così aiutandolo ad essere migliore quanto possibile.


Non sbaglia Machiavelli ad affermare:

“È necessario, a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei”

né Hume a rincararne la dose:

“Gli scrittori politici hanno stabilito come massima che, nell’escogitare qualunque sistema di governo
e nel fissare i molti limiti e controlli della costituzione, ogni uomo dovrebbe proprio essere presunto un farabutto
ed avere nessun altro fine, in tutte le sue azioni, che l’interesse personale.
In base a questo interesse noi dobbiamo guidarlo e, per mezzo di esso,
farlo cooperare al pubblico bene nonostante la sua insaziabile avidità ed ambizione”.


Senza applicare tali principi non possiamo aspettarci nulla di risolutivo dalle prospettate riforme governative.

Finché i magistrati del Csm saranno eletti, la logica correntizia prevarrà, magari sotto altro nome,
perché dove sono elezioni lì sono lotte di potere, dappertutto
.

Solo istituendo per Costituzione l’estrazione a sorte dei membri del Csm sarà troncato il rapporto abusivo, nocivo e indecoroso,
tra camarille sindacali, ambizioni personali, accordi elettorali, competenze istituzionali del Consiglio superiore della magistratura.

L’elezione è addirittura controproducente; il sorteggio invece, funzionale.


Parafrasando James Madison, se i magistrati fossero angeli non sarebbe necessaria l’estrazione a sorte,
perché elettori virtuosi sceglierebbero consiglieri probi.

Ma le confessioni di Palamara dimostrano che esistono anche angeli decaduti
e Di Matteo conferma che potrebbero assimilarsi a demoni con la coppola.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Covid-19 e proteste stanno mettendo in crisi le città americane,
creando un fenomeno di emigrazione che raramente si era visto prima,
il tutto accompagnato da un picco di omicidi e crimini gravi.


La polizia di New York ha registrato nello scorso mese, in un calo dei crimini generali per in closedown,
un’esplosione però di quelli più gravi.

I dati sono impressionanti:
  • omicidi cresciuti del 79%;
  • scontri a fuoco aumentati del 64%
  • rapine in casa crescita del 34%.

In questa situazione il sindaco di New York City, De Blasio, ha deciso di ridurre i fondi alla polizia,
il tutto sulla spinta ideologica del movimento Black Lifes Matter.


I risultati iniziano a vedersi, sotto forma di una fuga dei cittadini più facoltosi
che abbandonano la città per rifugiarsi nei piccoli centri rurali del New Jersey o dell’interno dello stato di New York.

La spinta per questo spostamento è ovvia: più sicurezza, migliori servizi, più distanziamento sociale
con una minore densità della popolazione, case più belle.

Uno dei questi emigranti ha affermato :

“Quando lasci un appartamento da tre milioni di dollari per una casa da tre milioni di dollari
hai una qualità di vita completamente diversa”.

Del resto la chiusura progressiva di molti negozi nei centri urbani ha ridotto le attrattive della città.



Il fenomeno non è però solo di New York, ma si allarga anche alle città californiane.

A San Francisco si assiste ad un fuga dei residenti facoltosi in direzione Nord (Sonoma), Sud, (Santa Cruz) o nell’interno dell Napa Valley.

Comunque sono anche molto ricercati i ritiri montani di Aspen (Colorado) e di Park City (Utah),
angoli sicuri, isolati e molto belli in mezzo alle Montagne Rocciose, luoghi ideali dove attendere la seconda ondata di epidemia al sicuro.


Insomma il risultato combinato di Covid e BLM è un profondo cambiamento sociale dei centri urbani USA che,
diventando sempre meno sicuri, vengono lasciati da chi può farlo, che si ritira in ville di campagna.

Un andamento da fine impero che i sommovimenti sociali stanno accellerando.
 

Val

Torniamo alla LIRA
Si dice che la mela non cade lontano dall’albero, e quando l’albero è di cattiva qualità la mela non può che essere marcia.

Esiste qualcuno più arrogante del governatore della Campania,Vincenzo De Luca?

Si, ed è suo figlio, Piero, che unisce all’arroganza anche una profonda ignoranza, e questo costituisce un mix devastante.


Di per se l’ignoranza non è un problema: non si può sapere tutto, basta ammettere questa realtà dei fatti,
mettersi a studiare, informarsi, e l’ignoranza è un male curabile.

Però se si unisce ad una arroganza da guappo di strada allora diventa un cancro incurabile.


Vediamo in questo video quello che è successo a Omnibus la 7,
dove si sono incontrati il capogruppo al parlamento europeo di ID, Marco Zanni, e il sottosegretario piddino.

Si parla di un tema caldo, anzi caldissimo: i fondi europei che dovrebbero “Salvare” l’Italia ,
cioè Recovery Fund, fondi BEI, e SURE.

Ecco il video:

CHE FIGURACCIA
Questa mattina sono stato ospite di @OmnibusLa7
Imbarazzante la superficialità e l’inadeguatezza di chi dovrebbe difendere l’Italia ai tavoli europei.

Buona visione!Urly.it - Accorcia i tuoi link! pic.twitter.com/tseeWzhzpR
— Marco Zanni (@Marcozanni86) June 20, 2020




Zanni fa notare come, finora, il Parlamento europeo non si entrato nella definizione del Recovery Fund,
perchè questo è in corso di definizione da parte del Consiglio sulla base dell’articolo 122 del TFUE, che, letteralmente, recita:


1. Fatta salva ogni altra procedura prevista dai trattati, il Consiglio, su proposta della Commissione, può decidere,
in uno spirito di solidarietà tra Stati membri, le misure adeguate alla situazione economica,
in particolare qualora sorgano gravi difficoltà nell’approvvigionamento di determinati prodotti, in particolare nel settore dell’energia.

2. Qualora uno Stato membro si trovi in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali
o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo, il Consiglio, su proposta della Commissione,
può concedere a determinate condizioni un’assistenza finanziaria dell’Unione allo Stato membro interessato.
Il presidente del Consiglio informa il Parlamento europeo in merito alla decisione presa.



In casi di emergenza il Consiglio dell’Unione, composto dai rappresentanti politici dei vari stati,
prende in mano il timone e stabilisce le misure necessarie per far fronte alle emergenze.

Quindi il Parlamento NON interviene nella definizione dello strumento,
ma interverrà dopo, quando questo sarà formato e definito, discutendolo ed approvandolo o respingendolo.

A questo punto interviene De Luca, con l’arroganza dell’ignoranza,
affermando che Zanni si sbaglia e che il Parlamento è intervenuto
“Perchè ha approvato il bilancio come da articolo 311”.

Vediamo che dice l’articolo 311 TFUE:


L’Unione si dota dei mezzi necessari per conseguire i suoi obiettivi e per portare a compimento le sue politiche.
Il bilancio, fatte salve le altre entrate, è finanziato integralmente tramite risorse proprie.
Il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale, all’unanimità
e previa consultazione del Parlamento europeo, adotta una decisione che stabilisce
le disposizioni relative al sistema delle risorse proprie dell’Unione.
In tale contesto è possibile istituire nuove categorie di risorse proprie o sopprimere una categoria esistente.
Tale decisione entra in vigore solo previa approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali.
Il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo una procedura legislativa speciale,
stabilisce le misure di esecuzione del sistema delle risorse proprie dell’Unione nella misura in cui ciò è previsto
nella decisione adottata sulla base del terzo comma. Il Consiglio delibera previa approvazione del Parlamento europeo.




L’art 311 parla della procedura di approvazione del Bilancio dell’Unione che viene predisposto, comunque,
dal Consiglio e quindi presentato al parlamento per una consultazione.

Ora con il Recovery Fund c’è un problema di base: come potrebbe mai essere messo a bilancio, quando non ne è stata decisa l’Entità?

Inoltre la procedura di approvazione di bilancio, una procedura ordinaria NON ha nulla a che fare con quella, emergenziale, dell’art. 122 TFUE.


Il discorso poi prosegue presentando la situazione reale, e conosciuta ai più, dei fondi BEI e SURE, teoricamente esistenti,
ma non operativi sino a che non verranno fornite le relative garanzie da parte di tutti i paesi europei.

De Luca insiste che il governo italiano ha stanziato le garanzie, senza capire, o senza voler capire,
che non è un problema italiano, ma degli altri 26 stati del’Unione…


Ora si può anche vivere senza conoscere il TFUE, il Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea,
anche se questo è un po’ grave per un sottosegretario.

Quello che non è accettabile è l’arroganza dell’ignoranza e la volontà di imporla agli altri.

Se un esponente del governo voleva fare sfoggio dei motivi per cui l’Italia è sull’orlo del disastro
a causa di un governo superficiale ed impreparato, ci è riuscito benissimo.
 

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