dalla solita usemlab:
Yen carry trade e flussi di capitale tra Usa e Giappone
(30/09/02) Siamo dell’idea che l’osservazione dei movimenti di capitale tra USA e Giappone sia oramai di fondamentale importanza per cercare di capire la spirale deflattiva e recessiva nella quale le due economie più grandi del pianeta sembrerebbero essere oramai congiuntamente intrappolate.
Riportiamo di seguito un grafico relativo al debito pubblico giapponese tratto da uno degli ultimi articoli del Mises Institute “Can more yen save Japan” (25 settembre), autore lo stesso Frank Shostak da noi citato nell’articolo “Il consumo che distrugge ricchezza”:
A partire dal 1992 il debito giapponese in termini di GDP è letteralmente esploso. Grazie all’enorme quantità di risparmi del popolo giapponese, quel debito è stato finanziato, contrariamente a quello americano, con capitali domestici. Motivo per cui negli ultimi sei anni il Giappone è riuscito a mantenere i tassi a lungo termine estremamente bassi. Qualora per finanziare quel debito si fosse dovuto ricorrere a capitali stranieri il crescente premio per il rischio richiesto sul debito avrebbe infatti portato a un inevitabile rialzo dei rendimenti, perlomeno quelli a lungo termine.
L’insufficienza di domande per coprire totalmente l’asta dei JGB decennali di due settimane fa potrebbe essere il primo segnale che i capitali domestici necessari a coprire il debit pubblico stiano raggiungendo la soglia limite oltre la quale, a meno di far monetizzare il debito stesso direttamente dalla Banca del Giappone (con tutte le gravi conseguenze che ciò comporterebbe), si rende necessario il ricorso a capitali stranieri.
In questo scenario i tassi giapponesi avrebbero oramai toccato il fondo e sarebbero destinati a risalire. L’effetto di un rialzo dei tassi sarebbe tuttavia quello di distruggere il valore del debito stesso (un rialzo dei tassi porta infatti a una perdita del valore delle obbligazioni) e quindi i capitali (e i risparmi) che per questi anni lo hanno assurdamente finanziato.
Il Giappone gode anche, sempre contrariamente agli USA, di un saldo della bilancia commerciale positivo. Di conseguenza negli ultimi anni i giapponesi hanno avuto modo di investire molti dei proventi di quel surplus in azioni e obbligazioni americane che durante il boom offrivano rendimenti molto più alti di quelli giapponesi.
La soluzione, onde evitare di ricorrere ai capitali stranieri per finanziarie il debito interno, sarebbe quindi quella di rimpatriare parte di quei i capitali. Tuttavia, tassi nipponici tendenti al rialzo in contrasto con quelli americani al ribasso potrebbe mettere definitivamente in crisi una strategia di trading largamente usata dagli operatori istuzionali, quella dello Yen Carry Trade.
Da quando a metà degli anni novanta il differenziale dei tassi dei depositi tra Giappone e USA è diventato particolarmente elevato, la strategia utilizzata dagli operatori istituzionali è stata infatti quella di sfruttare i bassissimi tassi giapponesi (di borrowing, per prendere a prestito) montando le seguenti operazioni (denominate appunto di Yen Carry Trade): prendere a prestito soldi in Giappone a tassi inferiori all’1%, quindi vendere yen contro dollari e infine investire in asset denominati in dollari (obbligazioni ma anche azioni) con tassi di rendimento molto più elevati, lucrando l’ampio differenziale. Né più né meno la stessa strategia che negli ultimi anni avrebbe avuto il risultato di sopprimere il prezzo dell’oro: prendere a prestito l’oro dalle banche centrali (a tassi inferiori all’1%) venderlo a pronti sul mercato e investirne il ricavato in asset con rendimenti molto più elevati.
L’effetto netto di queste strategie è quello di spingere al ribasso o mantenere su valori inferiori rispetto a quelli di equilibrio il prezzo dell’asset il cui costo di borrowing è particolarmente basso. Nell’ottobre del 1998 ad esempio, la strategia dello Yen Carry Trade venne minacciata dagli interventi congiunti della FED e della Banca del Giappone tesi a stabilizzare il tasso di cambio. Il risultato fu l’uscita di massa degli operatori dalle posizioni in essere che portò nel giro di tre giorni una rivalutazione dello Yen di circa il 20%. Lo stesso accadde nel settembre del 1999 sul mercato dell’oro, quando l’accordo degli Stati europei di non vendere le proprie riserve d’oro per i 5 anni successivi fece schizzare il prezzo del metallo del 30% in soli 3 giorni.
Tuttavia con i rendimenti dei titoli di stato e delle borse americane in caduta libera quella strategia ha già incontrato diversi problemi nel primo semestre del 2002 portando appunto lo Yen a rafforzarsi contro la divisa americana, dai 135 di febbario ai 115 di luglio, e sollevando le preoccupazioni della Banca del Giappone in merito alla stabilità del tasso di cambio USD/JPY, la cui debolezza soffocherebbe le esportazioni e quindi l’economia nipponica.
Considerando che i giapponesi detengono un ammontare significativo di titoli di stato (circa 300 B di dollari) obbligazioni e crediti corporate (altri 300 B) e azioni americane, il rischio maggiore a cui si sta andando incontro è che molti di quei capitali parcheggiati negli USA, non più giustificati da un ampio differenziale di tassi, vengano rimpatriati in Giappone sia per sostenere l’ammontare crescente del debito pubblico che per rimpiazzare i capitali distrutti dai fallimenti interni. A questi si aggiungono i capitali legati allo scioglimento delle posizioni basate sullo Yen Carry Trade.
Da qui il dilemma che potrebbe portare a un terremoto finanziario nei movimenti internazionali dei capitali. Un rimpatrio “forzato” di capitali nipponici che abbia come origine la vendita di asset americani tenderebbe a indebolire il dollaro e a rafforzare lo yen. Proprio il contrario di quello che servirebbe al Giappone per uscire dalla crisi.
I flussi in uscita dagli asset americani porterebbe a un rialzo dei rendimenti USA necessario perlomeno a scoraggiare le vendite di titoli di stato americani da parte dei giapponesi. Tuttavia, un rialzo dei tassi in USA contribuirebbe a questo punto del processo (per cui l’economia americana ha evitato la recessione grazie solo alla discesa dei tassi) a spingere l’economia verso un avvitamento estremamente pericoloso.
Vendite di dollari da parte dei giapponesi tese, più che a rimpatriare totalmente i capitali, a spostarli nel continente europeo eviterebbe un rafforzamento dello yen estremamente dannoso per la già ristagnante economia nipponica, tuttavia, pur esercitando meno pressione sul cambio dollaro yen, indebolirebbe comunque il dollaro in termini di euro. In questo secondo caso, la debolezza del dollaro nei confronti della valuta europea, già evidente negli ultimi sei mesi, metterebbe a rischio anche il rendimento di altri capitali non giapponesi che sono parcheggiati negli USA in attesa della ripresa economica. La minaccia della svalutazione di quei capitali potrebbe innescare ulteriori disinvestimenti e accelerare la caduta del dollaro a favore della quale si pone anche l’enorme debito delle partite correnti americano.
A tal punto, la fuga di capitali giapponesi potrebbe assumere ulteriori stimoli e quindi essere dirottata necessariamente verso il Giappone stesso. La vendita di asset in dollari porterebbe a un rialzo dei rendimenti, perlomeno quelli a lungo termine, che hanno stimolato finora il mercato americano (in particolare quello immobiliare e dei crediti al consumo). Il rialzo dello Yen causerebbe d’altra parte problemi non indifferenti all’economia giapponese, soffocandone ogni speranza di ripresa e quindi accendendo la stessa spirale di rialzo dei tassi.
Le armi a disposizione delle banche centrali per difendersi da questi movimenti di capitale sono, data la situazione attuale, oramai ridotte. La difesa della valuta tramite un rialzo dei tassi non sarebbe neanche utilizzabile, pena il collasso della bolla del credito. La situazione potrebbe pertanto sfociare in una delle crisi valutarie più importanti ed interessanti degli ultimi 10 anni.