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I 280 miliardi che servono alle banche per far finire l’eurocrisi

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I 280 miliardi che servono alle banche per far finire l'eurocrisi
SIGNORAGGIO.IT | SAB 30 NOV
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Le banche europee sono il cuore della crisi del debito che ha colpito l'unione monetaria negli ultimi anni. Secondo un recente ... Read more

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mototopo

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7 01 /12 /Dic /2013 00:47
Come sono passati dalla moneta sovrana alla schiavitu' della moneta


Prima degli accordi di Bretton Woods, le banche degli stati dovevano avere una quantità di oro nei loro forzieri pari al denaro che stampavano. Succedeva, però, che esse stampavano più denaro rispetto al controvalore in oro che possedevano. Perciò nel 1944 si decise che solamente il dollaro dovesse avere la controvertibilità in oro e le altre monete potessero essere scambiate con il dollaro che faceva da garante. Gli USA invece stamparono quasi 90 miliardi di dollari, creando un'inflazione globale, senza avere il controvalore in oro. Così, quando l'URSS e la Cina restituirono i dollari agli Usa chiedendo in cambio l'oro, costrinsero il presidente Nixon, il 15 agosto 1971, a far cadere la convertibilità del dollaro con l'oro, facendo sì che la moneta perdesse il suo effettivo valore ed il suo reale valore diventò indotto dalla sottomissione degli stati – e quindi delle persone – ad accettarlo come moneta di scambio per i beni e i servizi che le persone producevano. Nel 1971, il nostro debito pubblico era di 16 miliardi e 145 milioni milioni di euro, ma quel debito, nella realtà, non esisteva, in quanto la Banca d'Italia era, come previsto dall'articolo 3 del suo statuto, un ente di diritto pubblico a maggioranza pubblica, cioè dello stato, che poteva stampare così la moneta a suo piacimento, ripagando in questo modo i debiti che contraeva. A questo punto avviene il tradimento e, in barba alla costituzione italiana, inizia la cessione ad enti privati delle quote di Banca d'Italia, che verrà forzatamente legalizzata grazie al tradimento dei politici, verificatosi nel 1992 con la legge 35/1992 dal Ministro del Tesoro Guido Carli, ex governatore della banca in questione (quando si dice il caso!).
Ma procediamo con ordine. Dieci anni prima di questo tradimento, il Ministro del Tesoro Andreatta ed il governatore della Banca d'Italia Ciampi tolsero l'OBBLIGO alla banca di acquistare tutti i titoli di stato che venivano emessi e quindi di finanziare il debito pubblico, che passò così in soli dieci anni da 142 miliardi (dai 16 miliardi del 1971, perché lo stato finanziava la crescita attraverso l'emissione dei titoli) a ben 850 miliardi di debito – questa volta reale, in quanto contratto verso altri istituti bancari privati.
Nel 1992, solo il 5% delle quote di Banca d'Italia era rimasto di proprietà dello stato, mentre il restante 95% era andato in mano a banche private quali Comit, Credito Italiano e Banco di Roma. Gli acquirenti autorizzati a comprare i titoli di stato erano banche commerciali primarie ed istituzioni finanziarie private quali IMI, Monte dei Paschi, Unicredit, Goldman Sachs, Merryl Linch. Il gioco era fatto: in pochi anni il debito – ad oggi – ha superato i 2040 miliardi di euro, grazie al tradimento dei politici che iniziarono in maniera concertata con i banchieri a svendere il patrimonio dello stato e dei cittadini a prezzi da saldo e, non contenti ancora, legalizzarono, con l'ennesimo tradimento verso il popolo, la privatizzazione della Banca d'Italia, grazie al governo Prodi che, il 16.12.2006, modificò lo statuto della banca all'articolo 3, facendo sì che essa non fosse più un ente di diritto pubblico, come dovrebbe essere in uno stato democratico. Ma non è finita qui, in quanto in una guerra ci deve essere un vincitore – cioè le famiglie al comando delle banche centrali – ed uno sconfitto – ovvero i popoli dell'Euro-zona sotto la dittatura dell'oligarchia bancaria della BCE (banca privata) e della Commissione Europea, che ha potere decisionale sulle politiche sociali degli stati, mentre il parlamento europeo ha solo quello consultivo. Caduta la controvertibilità in oro, il denaro doveva essere non più addebitato ai cittadini, ma accreditato, in quanto esso è la misura del valore dei beni e servizi che noi cittadini produciamo e non certo dei parassiti banchieri che ci prestano la moneta a debito e che ora decidono le politiche sociali degli stati grazie al collaborazionismo dei politici loro asserviti. Questa moneta creata dal nulla viene trasferita dalla BCE alle grandi banche commerciali private che poi le prestano agli stati ad altissimi interessi, generando un debito pubblico inesigibile perché frutto di una frode poi legalizzata.
Ora dal 2012 gli stati non potranno più decidere quanto spendere e in cosa grazie ai trattati del Fiscal Compact e del MES, o fondo salva stati, che è in realtà un istituto di speculazione finanziaria pronto a requisire gli ultimi beni patrimoniali del nostro già povero stato – beni demaniali e forestali e servizi locali di pubblico interesse. In Grecia hanno cominciato ad arrestare chi non ha la possibilità di pagare le tasse, portando i cittadini in campi militari in dismissione. Tra non molto la stessa sorte toccherà all'Italia. La terza guerra mondiale sta ormai per finire: la nostra ultima possibilità è che il Movimento5Stelle inizi a mandare alle trasmissioni pubbliche i suoi deputati a parlare della truffa del debito pubblico ed inserisca, come non fatto nel programma delle scorse elezioni, 1) la sovranità monetaria, 2) la nazionalizzazione della Banca d'Italia, 3) l'uscita dall'Euro e 4) l'inesigibilità del debito pubblico frutto di una frode legalizzata, altrimenti vuol dire che anche Grillo è stato messo in campo dai gestori del vero potere delle banche, per far sì che quella parte dell'elettorato che non sarebbe andata a votare portasse gli astensionisti a superare il 50%, di modo che gli italiani non si riconoscessero più nelle deleghe sociali verso i politici che ci hanno tradito. Ma siamo sicuri, o almeno vogliamo sperare, che di certo non sarà così.


N.B. – il popolo italiano ringrazia il governo Letta e il ministro Saccomanno per averci ricordato che non ci sono le risorse – ovvero il denaro – per non alzare l’aliquota dell’IVA, scordandosi furbescamente di dire che anche quest’anno sono stati sottratti al popolo, sottoforma di tassazione forzata, ben 90 miliardi di euro per pagare il debito derivante dal tradimento di averci venduto la sovranità monetaria ed altri 50,6 miliardi di euro con il MES, per un totale di oltre 140 miliardi, a fronte dei miseri 2 miliardi che occorrono per non alzare l’aliquota IVA. La storia ci insegna che, alla fine, ogni dittatura è destinata a cadere. Aiutateci quindi a divulgare questo articolo.


Fonte: http://terrarealtime.blogspot.it/2013/09/terza-guerra-mondiale-siamo-allatto.html
 

mototopo

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ASSALTO STRANIERO AL MONTE PACCHI - ARROGANCE PROFUMO INCARTA LA FONDAZIONE E REGALA MPS ALLE BANCHE ESTERE

Le condizioni per l'aumento di capitale da 3 miliardi approvato dal cda di Rocca Salimbeni contengono una clausola che consente ai big della finanza mondiale coinvolti di presottoscrivere le nuove azioni e poi sbattere fuori la politica se il titolo della banca scende sotto 0,12 euro ...



Francesco De Dominicis per "Libero"
monte-dei-paschi-di-siena-sede
Potrebbe essere legato alle banche estere il destino del Monte dei paschi di Siena. I nove player stranieri che lavoreranno alla ricapitalizzazione di Rocca Salimbeni, infatti, hanno già firmato un impegno a «presottoscrivere» i 3 miliardi di euro di aumento entro gennaio. Il termine per partecipare all'operazione scade a marzo, ma con largo anticipo rispetto alla tabella di marcia le nove big della finanza mondiale diventeranno i nuovi azionisti di Mps.
Le banche estere che fanno parte del cosiddetto «consorzio di garanzia» sono Ubs, Citigroup, Societe Generale, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Barclays e Jp Morgan. Un gruppetto a cui va aggiunta l'italiana Mediobanca. Non è chiaro se si tratterà di un semplice «transito» nell'azionariato oppure se una parte dei nuovi soci del Monte deciderà di dar vita a un nocciolo duro stabile, magari con i francesi di Axa già presenti in Rocca Salimbeni. Quel che è certo, invece, è che la questione si intreccia con il futuro della Fondazione Mps, ora azionista di riferimento dell'istituto presieduto da Alessandro Profumo col 33% del capitale e destinata a diluirsi progressivamente.
ALESSANDRO PROFUMO ENRICO CUCCHIANI DAVID THORNE FOTO DA FLICKR AMBASCIATA USA
La Fondazione ha un'esposizione di circa 350 milioni e buona parte di quel debito è in mano alle banche estere. Il contratto per la linea di credito prevede la «escussione del pegno», cioè il pacchetto della stessa Fondazione, se il titolo scende fino a 0,12 euro. Ieri, nel giorno dell'ok al nuovo piano industriale - messo a punto dall'ad, Fabrizio Viola - Mps ha chiuso a 0,18 euro in calo dello 0,05%.
Grazie a due manovre parallele (aumento e pegno), per le banche estere c'è la prospettiva di prendere, in pochissimo tempo, il pieno controllo dell'istituto senese. Che Viola sta risanando non senza sacrifici per i lavoratori. Il piano prevede infatti 8mila esuberi complessivi (2.700 già realizzati) e un taglio di 550 filiali oltre alla vendita della controllata francese Banque Mps.
 

mototopo

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Sbankitalia! Da destra a sinistra, tutti contro la svendita delle quote della banca d’italia: Ci ritroveremo i tedeschi padroni del tesoro di via nazionale'ì''
 

mototopo

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– Banca Carige informa i possessori delle obbligazioni del prestito 1,50% 2003-2013 subordinato ibrido con premio al rimborso convertibile in azioni ordinarie che non è pervenuto dalla Banca d’Italia il nulla osta necessario per procedere al rimborso – alla data di scadenza del 5 dicembre – dei 3,95 milioni di titoli residui.
Pertanto, si legge in un avviso, le obbligazioni continueranno a maturare interessi al tasso annuo lordo dell’1,50% con pagamento annuale posticipato al primo gennaio di ogni anno successivo alla data di scadenza (gli interessi relativi al 2013 saranno quindi pagati l’1 gennaio 2014) e la banca provvederà a richiedere nuovamente a Bankitalia il nulla osta al rimborso in coincidenza con la scadenza di ciascuna singola data di pagamento degli interessi.
HO SAPUTO CHE CI SONO DEI GROSSI INVESTORI PRIVATI CHE DA MESI CERCANO DI VENDERE OBBLIGAZIONI SUBORDINATE DELA SUDDETTA BANCA SENZA RIUSCIRCI E TROVANDO UN MURO DI GOMMA PRESSO LA SEDE A GENOVA .fonte ml
 
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duca.64

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Ecco dove stiamo andando
Maurizio Blon.

3 Dicembre 2013
Scusate, signori, ma quali prospettive abbiamo davanti? I nostri governi non fanno che tenerci nell’euro, obbedire alle ricette d’austerità dettate da fuori, aumentare la tassazione stritolatrice fin oltre il punto di rottura, e non ridurre la spesa parassitaria che è la loro. Ci stanno riducendo i salari (i loro, no) per renderci più competitivi, e le pensioni perché non ne abbiamo tanto diritto; nello stesso tempo, hanno reso una maledizione quello che una volta era il «bene-casa» a forza di tassazioni che molti non potranno pagare; ma non potranno nemmeno vendere quel bene diventato una macina da mulino al collo, perché Monti ha provocato una restrizione del credito mai vista; e tuttavia, miliardi delle nostre tasse, appena le prelevano dalle nostre tasche, li consegnano alle banche, MPS, Unicredit, Intesa... Per di più – mi pregio ricordare – i nostri governi si sono impegnati («ci» hanno impegnato ) a ridurre il nostro debito pubblico – che in realtà stanno facendo aumentare – del 20% l’anno, fino a portarlo al 60% del Pil per i prossimi 20. Sono altri 50 miliardi l’anno di prelievo. «Altri», cioè in aggiunta al prelievo fiscale già mostruoso che già, per esempio, sulle imprese grava per il 65%.

Altri 50 miliardi ogni anno che devono strizzare dalle nostre tasche, risparmi, immobili tragicamente illiquidi e di valore precipitante. Come faranno? Ve lo hanno mai spiegato i governanti, i loro economisti, i grandi esperti di Bankitalia? No, è impossibile. Se già oggi migliaia di imprese produttive hanno chiuso, ogni attività si restringe e una impresa su tre ha i bilanci in rosso (il che significa che molte di queste falliranno nei prossimi mesi), è semplicemente impossibile prelevare ancora ulteriori 50 miliardi l’anno, senza uccidere, semplicemente, tutta l’economia.

Per questo magari, signori, vi state illudendo: no, non lo faranno. Non arriveranno al punto di ridurci nella miseria più nera. Si fermeranno, chiederanno all’Europa qualche alleviamento, e l’Europa lo darà... Non possono essere così inesorabili da far morire un popolo, dei popoli, per una concezione sbagliata dell’economia, l’austerità applicata ferocemente in piena depressione mondiale. Non possono essere così ottusi e ostinati. Sono esseri umani. Lasceranno infine la presa, cambieranno dottrina e metodi.

Credete? Ho per le mani l’ultimo saggio di Luigi Geninazzi, collega di Avvenire: simpatico poliglotta, conoscitore del russo, polacco e tedesco, ha passato metà della sua vita professionale nell’Est comunista e ne ha visto il crollo. Il suo libro parla appunto di questo: «L’Atlantide Rossa – La fine del comunismo in Europa» (Ed. Lindau, 19 euro) , un inabissamento apocalittico, di cui è stato testimone oculare.

Ebbene: nel suo libro ho trovato un’eco di quello che sarà il nostro futuro. Ecco per esempio un regime che pagò il suo debito fino all’ultimo dollaro, come era ed è prescritto dall’ortodossia economica. Lascio la parola a Geninazzi:


«... La situazione comincia a peggiorare nel 1980 quando Ceauşescu, con un’impennata di orgoglio tipica di tutti i tiranni, decide di ripianare il debito estero di cui si era gravato nella sua dissennata politica d’industrializzazione per trasformare a tappe forzate un Paese arcaico e contadino. Negli anni precedenti per inseguire un miracolo economico illusorio la Romania si era indebitata per oltre 10 miliardi di dollari, un fardello insostenibile che il dittatore intende scrollarsi di dosso. Per prima cosa rinuncia ai prestiti del Fondo Monetario Internazionale. Quindi rimpingua le casse dello Stato aumentando a dismisura l’export: quasi tutto quel che esce dalle fabbriche e viene coltivato nei campi della Romania prende la strada dell’estero. Nel 1987, con la valuta incassata dalle esportazioni, il debito si è già dimezzato, ridotto a poco più di 5 miliardi. Un successo esaltato dalla propaganda di regime che nasconde l’altissimo prezzo di questa follia».

Quale sia il prezzo, Geninazzi lo ritrova nei suoi taccuini dell’epoca:
«Bucarest, maggio 1987. Sono sconvolto dallo spettacolo straziante di un popolo affamato e terrorizzato. Manca il cibo nella Romania di Nicolae Ceauşescu, il dittatore che si fa chiamare «il Titano dei Balcani», forse perché ha imposto a 23 milioni di cittadini uno sforzo immane di austerità e disciplina che s’accompagna alla mancanza di libertà. Tutto è razionato, anche i prodotti di base come pane, burro, olio, farina e zucchero, che comunque sono spesso introvabili. Perfino le patate si vendono a pezzi singoli, le uova sono un lusso, ed il latte in polvere, quando c’è, viene distribuito solo in farmacia dietro presentazione di ricetta medica. «Per fortuna c’è mia suocera che, essendo in pensione, può passare la maggior parte della giornata facendo la coda ai negozi per raccattare qualcosa» dice Corina (l’interprete del giornalista, ndr). Deve alzarsi all’alba per mettersi in fila insieme a tanti anziani infreddoliti, tutti lì con lo sguardo fisso nel vuoto ed una borsa di plastica che sperano di riempire prima di sera con qualunque cosa, fosse anche un etto di interiora di porco da cui ricavare una trippa maleodorante.

Chi ha la fortuna di possedere una vecchia Dacia, l’auto prodotta in Romania, è costretto a fare lunghe code ai distributori e in ogni caso può rifornirsi di soli 30 litri di benzina al mese. Il mezzo di trasporto più diffuso, anche in città, resta il carro trainato da un cavallo. Il che spiega la gran quantità di sterco per le strade, l’unico prodotto in abbondanza nel socialismo dei Carpazi. La ressa davanti ai negozi è spaventosa. All’ingresso del Magazinul Victoria, il più grande di Bucarest, c’è una fila di centinaia di persone la cui unica speranza è di trovare una maglia di lana o un paio di scarpe di plastica. Sul viale Bălcescu fronte ad un negozio di alimentari, noto tante giovani mamme col bimbo in braccio così da poter comprare una doppia razione».


La Romania, si ricordi, è un Paese petrolifero. Eppure:
«Anche l’energia è razionata. Nelle case sono consentite lampadine al massimo di 40 watt che diffondono una fioca luce giallastra rendendo l’ambiente ancora più spettrale. L’erogazione di elettricità è limitata a 30 kilowatt al mese per famiglia, un disagio acuito dagli improvvisi e frequenti black-out. Inutile accendere i fornelli prima che sia notte, quando il gas raggiunge una pressione minimamente sufficiente per cucinare. La tv trasmette solo tre ore al giorno, dedicate ad illustrare “i trionfi del socialismo”. D’inverno il riscaldamento non può superare i 12 gradi, sia negli uffici che nelle abitazioni. A Bucarest la gente è costretta a vivere per lunghi mesi senza mai togliersi cappotto, guanti e colbacco. L’acqua calda è un bene prezioso, e me ne rendo conto quando visito la famiglia di Corina. Suo marito si scusa per lo stato d’eccitazione dei bambini. «Si stanno preparando a fare la doccia – spiega con un certo imbarazzo – E’ l’unico momento della settimana in cui abbiamo diritto ad un paio d’ore d’acqua calda. Sono ormai sette anni che viviamo così, lottando col freddo, col buio e con la fame».
Sette anni così. La cosa che più impressiona è come un popolo intero possa giungere a sopportare tanto, a degradare gradino per gradino, perché la discesa verso la miseria è graduale. Impressiona e fa orrore, pensando come anche noi italiani ci siamo adattati, e di quanto siamo scesi dal 2008, inizio della crisi, ad oggi. Eppure, nell’ortodossia economica, la Romania di allora era un successo: aveva dimezzato il debito estero, ripagandolo puntualmente. Accelerando sull’export e puntando sull’austerità interna.
«... La Romania è affamata ma è il primo fornitore di carne dell’Unione Sovietica; il Paese dove manca l’acqua calda è lo stesso che può contare sulle ricchezze naturali di gas e petrolio. Quel che un tempo era uno dei più importanti granai dell’Europa raziona il pane ai suoi cittadini, 300 grammi al giorno per persona. E’ il tragico paradosso dettato da una folle ideologia che sta portando il Paese alla miseria più nera. Dal 1980 il tenore di vita in Romania è diminuito del 25 %. La mortalità infantile è l’8 %, la più alta d’Europa, un dato che in realtà potrebbe essere ancora peggiore in quanto le nascite vengono registrate dopo due o tre settimane. I bimbi prematuri spesso muoiono nelle incubatrici a causa degli improvvisi black-out elettrici. E le persone in età avanzata sono gli ultimi a poter disporre di cure e medicine, anche queste razionate. Emil mi racconta il caso di un suo vicino, un signore anziano che si è sentito male ed è morto perché l’ambulanza non è mai arrivata. “Sembra che per risparmiare benzina non si muovono se il malato ha più di settant’anni”, dice. Nonostante la politica governativa per incentivare la natalità (ogni donna in età fertile deve avere almeno quattro figli e l’interruzione volontaria della gravidanza è punita penalmente), in Romania gli aborti superano le nascite e la speranza di vita si è abbassata con il peggioramento delle condizioni igieniche».
Geninazzi viene invitato a casa della sua interprete, Corina:
«Come la stragrande maggioranza dei rumeni anche lei, insegnante quarantenne che va orgogliosa delle comuni radici latine dei nostri due popoli, in Italia non c’è mai stata. Ai suoi occhi sognanti appare come il Paese delle meraviglie che ha intravisto in fugaci immagini alla tv o in qualche cartolina. Appesa ad una parete della cucina imputridita per l’umidità c’è una pagina con una grande foto che Corina ha strappato da una rivista italiana finita chissà come nelle sue mani. Non è l’immagine di una città d’arte o di un panorama tipico del nostro Belpaese. Macché, si tratta della pubblicità del salame Negronetto! Quelle fette dal vivace colore rosso distese su un tagliere evocano un profumo e un sapore che ai rumeni sono del tutto sconosciuti. Si mangia con la fantasia a casa di Corina».
Sì, anch’io che in quei Paesi sono stato meno volte del collega, ricordo quelle stesse atmosfere desolate dell’Est. A Bucarest, dove fui mandato dopo la morte di Ceausescu, ricordo l’hotel con un solo telefono nella hall, fra pulciosi tendaggi di velluto rosso vestigia di glorie pre-comuniste, dove noi giornalisti facevamo la fila per dettare il nostro pezzo. Ricordo le vetrine delle botteghe alimentari che esponevano solo due cose: pani di burro regalati dalla Comunità Europea, e strane confezioni di qualcosa che, all’esame ravvicinato, si rivelò un preparato per fare «nuvole di drago», quella specie di patatine cinesi che sanno di pesce. Era un prodotto fabbricato in Vietnam del Nord. La gente non sapeva nemmeno cosa fossero e si guardava bene dal comprarle. Anch’io ricordo persone come Corina, persone commoventi per l’ospitalità che ti davano nella miseria e ti invitavano a casa – case piene di libri ma senza caffè – per il piacere di parlare italiano, citavano Dante e Petrarca a memoria, e credevano che io, noi occidentali, fossimo pieni di una cultura di cui erano assetati...

Ricordo quegli androni delle case, il grigio-comunista onnipresente, la spazzatura negli angoli che nessuno spazzava perché le scale, dopotutto, non sono «di nessuno». Gli ascensori guasti da anni, le muraglie in cemento sporco. E passi per i falansteri socialisti, distese infinite di grigiore e ruggine. Ma ricordo il centro di Kiev: prospettive di bellissime magioni di un liberty monumentale e fastoso, ornate a mosaici, che testimoniava che l’Ucraina – il granaio del mondo – era stata ricca, abitata da una borghesia più che benestante, europea di gusti, mentalità e modernità, fino al 1917; le magioni fastose e i palazzi dai grandi attici esistono ancora, ma dentro, negli androni, la spazzatura, la trascuratezza, il grigio-comunista, gli ascensori mai più funzionanti da anni, le pareti (anche degli appartamenti) mai più ritinteggiate.

Ecco, questo era veramente rivelatore della discesa nella miseria: la mancanza di manutenzione. Quando un’ideologia errata, la quale impone una teoria economica fallace – abolizione della proprietà, socializzazione dei mezzi di produzione – viene imposta a un popolo magari con la polizia politica (o Equitalia), il popolo via via si adatta; lo Stato continua inesorabilmente ad imporre il suo sistema, e gli sembra che «funzioni»; ma la manutenzione viene abbandonata. Non si hanno più i mezzi sovrabbondanti per pagarla, e si pensa sia la cosa di cui si possa fare a meno con minori conseguenze. Fino a quando tutto diventa grigio-sporco, sui lampadari la polvere s’incastra come una tinta nerastra, i tram sono ancora quelli del 1920, le locomotive hanno visto l’Ottobre Rosso, le auto sono disperatamente bisognose di riparazione anzi riprogettazione, le macchine nelle fabbriche sono obsolete, l’aria invernale delle capitali odora di carbone coke come nel 1930....

Eh sì, aggiungiamo: laddove si aprivano scintillanti vetrine sulle belle prospettive, ci sono banchi vuoti, vetri rattoppati col nastro da pacchi; i ristoranti sono chiusi da venti o trent’anni e nessuno ne sente la mancanza, lo storione affumicato non arriva più del resto chi lo chiederebbe? E la splendida cucina dell’Est, quelle tavolate di antipasti dai nomi infiniti che si intravvedono nei libri di Dostojevsky, è ridotta apparentemente a due ingredienti unici, da soldati-contadini: cetrioli in salamoia e inguardabili «kobashize», nome unitario di qualunque tipo di insaccato con dentro carne qualunque – anche, nella Romania di Ceausescu, di carne di topo muschiato allevato per le pellicce da esportare. Ah già, la vodka: razionata, costosa, devastante vizio generale, venduta in botteguzze squallide, uomini che non si conoscono se ne comprano a metà «un quartino» e se lo bevono sotto il nevischio, in attesa del tram che viene dalla Rivoluzione

Che poi, se come mi capitò una volta, da Varsavia si esce e si va in una cittadina vicina, si scopre che lì non c’è nemmeno una bettola dove il visitatore possa mangiare un panino e bere una birra; non c’è letteralmente nulla nella piazza principale. Nulla fuori della capitale, la gente mangia in qualche tipo di mensa aziendale (kobashize e cetrioloni e pane militare), il visitatore semplicemente «non è previsto». Ed era spaventoso vedere questa gente così civile, spesso molto colta e appassionata di musica e di bellezza, di letteratura e sapere, in mezzo a questa stracca rovina socialista, non potersi lavare, non conoscere deodoranti , e le ragazze, spasimare per un rossetto da supermercato o un paio di calze di nylon...

Signori, temo che questo stia capitando anche a noi. Che non abbiamo nemmeno la cultura e la sete di bellezza dei dissidenti e degli intellettuali dell’Est, dunque siamo privi di una risorsa spirituale essenziale da possedere quando si è nel Lager, o si fa’ una vita da Lager. Voi obietterete: Ceausescu era un folle (1), si faceva chiamare «il Titano dei Balcani» , e alla fine il popolo l’ha rovesciato. Il popolo? Sicuri? In ogni caso, ci sono voluti decenni. E circostanze internazionali irripetibili: Gorbaciv a Mosca, un Papa dell’Est, milioni di dollari dei sindacati americani a Solidarnosc...

Voglio dire: è incredibile quanto a lungo un sistema economico palesemente controproducente , che infligge sofferenze ed umiliazioni a interi popoli, può tuttavia durare. Ridò la parola Geninazzi. Stavolta parla della Polonia, Paese che conosce bene (è amico personale di Lech) Walesa):
«... Per i polacchi fare la coda è diventata la cosa più naturale del mondo. Si mettono in fila là dove c’è una fila. Semplicemente, istintivamente, senza neppure chiedersi il motivo. E senza sapere se alla fine si troveranno di fronte all’ennesimo bancone vuoto o se saranno così fortunati da trovare qualcosa. Qualsiasi cosa, perché in una società dove manca tutto anche la merce più insignificante è meglio di niente. «Esco a fare la coda» (kolejka) non è una battuta spiritosa. È semplicemente la condizione naturale di chi vive in un regime socialista. Non c’è voluto molto per scoprire che in Polonia kolejka non è un vocabolo come un altro ma una categoria filosofica, il supremo imperativo di un’esistenza coatta. Peggio ancora: è il marchio di un’umiliazione sociale a cui non puoi sfuggire. Me lo spiegò un giorno il dissidente sovietico Aleksander Zinoviev, l’autore di Cime abissali. “Da noi la coda non è un inconveniente sgradevole e per lo più casuale, come succede da voi in Occidente. È invece uno strumento del potere per mantenere i cittadini in uno stato di sudditanza psicologica e di demoralizzazione costante”».

«La mancanza dei generi alimentari e dei beni di prima necessità ha sempre caratterizzato la vita dei polacchi sotto il regime comunista. Ma tra il 1980 ed il 1981 è diventata un’emergenza sociale vera. Le misure di razionamento che finora riguardavano solo la carne (tre chili e mezzo al mese per persona) sono state introdotte anche per lo zucchero (un chilo a testa), il burro (250 grammi), l’olio, il riso, la farina ed il latte in polvere. Ma anche per ottenere il quantitativo garantito dai kupon, minuscoli biglietti di carta che servono come buoni d’acquisto, bisogna fare lunghe code, non tutte con esito favorevole. Verdura e frutta, ad eccezione di patate e mele, sono introvabili. Le arance sono il regalo più apprezzato così come le banane».
«Quando vado in giro mi si stringe il cuore. Lo spettacolo è desolante: sugli scaffali polverosi dei negozi, illuminati dalla luce biancastra dei neon che sa tanto di ospedale, ci sono soltanto scatole di tè e bottiglie d’aceto. La gente si mette coda fin dalle cinque di mattina, anche durante il lungo e rigido inverno, con i piedi intirizziti dal gelo, le mani a reggere la sporta vuota di tela grezza e la faccia triste seminascosta dal colbacco o avvolta nello scialle. Sono soprattutto pensionati, casalinghe, madri di famiglia in paziente attesa per ore, fino a tarda mattinata, nella speranza di poter rientrare a casa con un litro di latte per i bambini o un po’ di patate per il pranzo. Il triste rito continua tutto il giorno: appena si sparge la voce che in un negozio arriverà della merce si crea una ressa paurosa. Subito viene nominato un capo-coda che si mette all’ingresso e regola le precedenze. È davvero incredibile la pazienza dei polacchi: si dispongono in modo molto ordinato e tranquillo, non ci sono incidenti, tutt’al più qualche mugugno. Non mancano solo gli alimentari ma tutti i prodotti essenziali come sapone, detersivi, fiammiferi, vetri, chiodi. Tutto è un problema, un’incognita, una continua mortificazione».
All’Est, il regime creava quel bisogno, che nega all’uomo anche la dignità:
«Non c’è dettaglio, per quanto piccolo possa essere, che sfugga a questa regola implacabile che domina l’intera vita sociale. “A casa mia manca l’acqua calda da più di una settimana. Oggi non funziona neppure il riscaldamento. Anche l’ascensore si è bloccato. Mentre salgo le scale mi viene il vomito per la puzza dell’immondizia che si è accumulata all’ingresso. Sono andato all’ufficio postale per ritirare un libro spedito dall’estero ma la polizia me l’ha ritirato perché non sono io a decidere quello che posso leggere o studiare. Poi sono passato in farmacia perché il mio bambino ha l’influenza ma non ho trovato né compresse né aspirine. La mia auto è quasi a secco ma al distributore di benzina la coda era lunga un chilometro e così ci ho rinunciato. La moglie mi rimprovera: devi andar lì alle cinque di mattina, prima di recarti al lavoro, la vuoi capire o no? Non ho combinato nulla e mi sento stanco, frustrato, svuotato”. È il racconto di una giornata come tante altre che illustra bene lo squallore della vita quotidiana nella Polonia sovietizzata. Lo sfogo di questo cittadino di Varsavia, amareggiato e depresso, è stato raccolto da un giornale vicino al potere, il settimanale Polityka che l’ha pubblicato nella rubrica delle lettere...»
E adesso sentite anche questo:
«Nel mio Paese la vita è qualcosa di anormale». Urszula, 21 anni, infermiera in un grande ospedale di Varsavia, non sopporta i turni di notte che le fanno perdere sonno, appetito ed amicizie. Così dice. Ma c’è qualcosa che le rode dentro e di cui si vergogna: quando arriva la fine del mese nella busta-paga si trova poche migliaia di złoty, l’equivalente di 50 dollari al cambio ufficiale, in realtà meno di 20 al cambio nero (l’unico vero parametro del valore della moneta nei Paesi socialisti). «Non è uno stipendio, è un’umiliazione», bisbiglia la ragazza scuotendo i lunghi capelli biondi come per cancellare una sensazione sgradevole. Urszula non è un’eccezione, milioni di connazionali guadagnano come lei.

(...)

C’è un dato che si mantiene pressoché costante fin dagli anni Cinquanta: la quota del reddito che le famiglie polacche spendono in generi di consumo alimentare oscilla tra il 40 ed il 50%. E’ il sintomo di una disfunzione cronica dell’economia che trova sbocco nel mercato nero. Qualche mese prima che scoppiassero gli scioperi dell’estate 1980 il governo aveva stilato un elenco dei generi alimentari introvabili o comunque scarseggianti nei negozi di Stato, una lista lunghissima di 280 prodotti a cominciare dalla carne. Era l’ammissione di una disfatta. Gierek aveva preso il potere nel 1970, dopo la sanguinosa repressione delle proteste operaie a Danzica, promettendo una maggior offerta sul mercato di questo richiestissimo alimento, il grande assente dalla tavola dei polacchi. Dieci anni più tardi la decisione di aumentare il prezzo della carne fino all’80% diede fuoco alle polveri dell’esasperazione popolare e segnò la fine dell’era Gierek. La situazione sarebbe continuata a peggiorare negli anni seguenti: più scarseggiano i beni alimentari e più aumenta il loro prezzo, un circolo vizioso che vede impennarsi l’inflazione ed abbassarsi il livello dei consumi. Nell’estate del 1989, subito prima della svolta democratica, un polacco è costretto a sborsare mediamente il 12% del suo stipendio mensile per un chilo di carne, il 7% per un chilo di prosciutto, il 2% per un chilo di pomodori».
Il 12% dello stipendio per un chilo di carne. Riportato alla situazione italiana, e ammettendo uno stipendio di 1500 euro mensili come media (è molto meno), è come se un chilo di carne costasse 170 euro. Direte: no, noi non ci siamo ancora. No, ancora no; ma aspettate la prossima estrazione di 50 miliardi dalle tasche degli italiani, e l’anno seguente un’altra estrazione di 50, poi un’altra ancora... e il vostro e nostro potere d’acquisto si avvicinerà a quello dell’infermiera Urzsula.

E non è che i polacchi non si siano ribellati. Anzi, sotto il comunismo hanno più volte protestato, scioperato, tentato insurrezioni: stroncata regolarmente con repressione e con promesse di miglioramento (idem gli ungheresi e i cechi). Quarant’anni così. Ci sono voluti quattro decenni prima che la protesta potesse coagularsi ed organizzarsi in una alternativa politica reale, fattiva, capace di proporre un cambiamento di prospettive, e potesse coalizzare masse polverizzate, per lo più abituate a quella «reazione individualistica che evita di contestare direttamente il sistema e si affida alla illegalità»... E la liberazione è venuta da una situazione internazionale irripetibile.

E non si creda – cercava di farlo credere la propaganda comunista in Italia – che in quei Paesi si stesse male anche prima, anzi di più, sotto il tallone dei capitalisti e dei proprietari terrieri. Balle. Quei Paesi erano favoriti da un’abbondanza naturale.

Come ricordò allora a Geninazzi Joseph Tischner, sacerdote e professore noto come il filosofo di Solidarność,
«Al centro della ricca e fertile Europa si trova un Paese nel quale gli scolari vanno a scuola senza i quaderni, nel quale mancano il gesso per scrivere alla lavagna, il carbone per riscaldare le case, lo zucchero, la carne, il burro. Eppure il nostro è un Paese dove i doni della natura sono stati sparsi in modo abbondante. Abbiamo un suolo fertile, giacimenti di carbone, zolfo, rame e una popolazione in maggioranza laboriosa e capace. Come dunque è potuto succedere una cosa come questa?» E’ successo perché «in Polonia il lavoro è ormai privo di senso, ha cessato di essere una creazione per diventare sempre più uno spreco delle materie prime e della fatica degli uomini. La convinzione di lavorare senza senso ha provocato la rottura dei legami fondamentali di comprensione fra gli uomini, fra potere e società, fra cittadino e cittadino».
Là il comunismo è caduto, sono tornati i colori, e se proprio non l’abbondanza, la varietà. Qui, intravvedo già i segni del nostro scadere verso il grigiore che fu il loro, e che loro hanno (troppo presto?) dimenticato.

Dite pure che esagero. Ma l’altra sera, andando in auto dalle parti di casa mia a Milano, fra saracinesche abbassate per sempre, ho visto una scritta al neon verde. Diceva: «FARMA». Le ultime tre lettere, C, I ed A erano fulminate e spente. Il farmacista ha visto diminuire i suoi introiti di almeno il 20%. Non credo che farà riparare l’insegna. E perché, poi? Dopotutto, si capisce lo stesso.







1) Il regime di Ceausescu era una immane Parentopoli: «Attorno al monarca comunista, si è formata una dinastia avida e corrotta che si è sovrapposta alla struttura del partito. Quella rumena è una dittatura di famiglia dove quaranta delle più importanti cariche del Paese sono occupate da congiunti e parenti. La moglie Elena, elogiata come “madre della patria” e “scienziata eminente” (la propaganda le attribuisce una laurea in ingegneria ed una lunga serie di riconoscimenti accademici), è vice primo ministro e capo del Comitato per l’educazione oltre che membro dell’Ufficio permanente del Comitato politico del partito comunista, cioè il massimo organo del potere. Figli, nipoti, cognati e cugini si spartiscono le altre cariche, formando un clan mafioso che gestisce tutti gli affari di Stato. Poi ci sono i cooptati dall’esterno, funzionari di partito che gareggiano in servilismo e cortigianeria per entrare nella più stretta cerchia del potere. Il satrapo di Bucarest si fida solo dei suoi e ha fatto della cultura del sospetto il cardine di tutto il sistema politico». Ricorda qualcosa?
 

mototopo

Forumer storico
Sovranità monetaria e rinegoziazione del debito



Rompere la Gabbia - Libro
Sovranità monetaria e rinegoziazione del debito contro la crisi
Autore: Claudio Moffa http://www.ariannaeditrice.it/autore.php?id_autore_macrolib=0 http://www.ariannaeditrice.it/autore.php?id_autore_macrolib=0
Prezzo: € 8,33
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Mentre la crisi chiude le fabbriche e gli enti pubblici, crea disoccupati, distrugge i residui dello Stato sociale e affama i nostri portafogli si resta spesso disorientati sia dal linguaggio volutamente astruso dei mass media e dei politici, sia dal girare a vuoto delle ‘proposte’ via via avanzate: per ogni passo in avanti accennato, la risposta è sempre: “dobbiamo trovare le risorse”, come a dire che si deve prendere con una mano quel che si è restituito con l’altra. Un gioco al massacro.
Ma così dal debito non si uscirà mai.
Decisamente in controtendenza rispetto alla cripticità con cui si è soliti affrontare queste tematiche, il libro di Claudio Moffa utilizza il linguaggio più semplice possibile per analizzare due tabù che impediscono la fuoriuscita dalla crisi: il signoraggio e il debito pubblico. Per affrontare questi due problemi occorre presa di coscienza e coraggio politico.
Varie le possibilità:
<LI style="PADDING-BOTTOM: 13px; PADDING-TOP: 0px; PADDING-LEFT: 0px; MARGIN: 0px; PADDING-RIGHT: 0px">ritornare all’emissione di banconote da parte dello Stato, <LI style="PADDING-BOTTOM: 13px; PADDING-TOP: 0px; PADDING-LEFT: 0px; MARGIN: 0px; PADDING-RIGHT: 0px">riattivare la Zecca per produrre denaro, Euro o Lire che dir si voglia, organizzare la ri-nazionalizzazione della Banca d’Italia.
L’alternativa facile invece è quella di illudersi che in fondo le cose vadano bene così, continuando a far finta di non sapere.
Soluzione “indolore” e veloce.​
Ma a quel punto non ci sarebbe più nulla da dire.

Leggi un brano estratto dal libro "Rompere la Gabbia" di Claudio Moffa

Da qui la domanda tutto sommato valida ancora oggi: il conio e la stampa erano, e sono, semplicemente un servizio neutrale e senza ritorni per chi li esercita?
La risposta è no.
Il conio e la stampa hanno infatti un costo di produzione – lavorazione del metallo o tipografica – e un valore di circolazione – quello inciso o stampato sulla moneta o sulla banconota – che in pratica non coincidono mai e la cui differenza, anzi, è andata nel tempo sempre più aumentando: nel caso delle monete d’oro, la differenza era (è) minima o comunque minore, perché l’oro ha un alto valore in sé; nel caso delle monete metalliche di altro tipo (dall’argento al rame ai nuovi metalli da conio), la differenza aumenta perché il valore della moneta è più basso; nel caso della banconota, creata in Europa nel XVII secolo sulla scia di precedenti carte di transazione ad personam, essa diventa enorme.
Pensiamo a quello che vediamo oggi: una banconota ha sovrastampato 10, 20, 50, 100, 200, 500 euro, ma il suo costo tipografico è di pochi centesimi: 3? 10? Arriviamo pure a 30 centesimi.
A chi vanno dunque i restanti 9.7, 19.7, 49.7, 99.7, 199.7, 499.7 euro?
A chi va il reddito da emissione monetaria,​
tale a partire dal momento dell’immissione sul mercato delle banconote?​

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Indice

Capitolo 1 - La più grave crisi della storia dell’Europa contemporanea. Che fare? La centralità del reddito da emissione monetaria

1.1. La questione delle origini della moneta​
1.2. Il controllo dell’emissione monetaria e la “rivoluzione” inglese del 1694​
1.3. L’emissione monetaria nell’Italia postunitaria​
1.4. La continuità tra Fascismo e Repubblica​
1.5. Dalla lettera di Andreatta a Tangentopoli: le liberalizzazioni e le fusioni del sistema bancario​
1.6. Il rischio per la Banca centrale italiana​
1.7. La sconfitta della DC e l’attentato di Capaci: il colpo finale alla Prima Repubblica​
1.8. Il 2 giugno 1992, una strana festa della Repubblica​
1.9. Le privatizzazioni e il mito della “finanza creativa"​
Capitolo 2 - Sovranità monetaria privata, debito, recessione

2.1. La complessità e l’articolazione della questione “debito”. La sovranità monetaria, quarto principio costituzionale​
2.2. L’anatocismo, altra voce fondamentale del debito sovrano​
2.3. Il debito insolvibile arriva in Europa: dalla Grecia all’Italia​
2.4. La distinzione tra debito interno e debito estero​
2.5. L’euro moneta “senza sovrano”: conseguenze e possibili vie d’uscita​
Capitolo 3 - Obiettivo sovranità monetaria... le potenzialità di riuscita, il dibattito e gli effetti della possibile svolta

3.1. La crucialità della sovranità monetaria e i principali nodi del dibattito in Italia​
3.2. Il rischio della contrapposizione tra Popolo e Stato e il bluff delle monete complementari​
3.3. Il localismo, l’altra faccia dell’indebolimento delle sovranità statuali da parte della finanza transnazionale​
3.4. L’Euro: né dogma, né immutabile mostro​
3.5. Alcuni tabù della Sinistra. Non c’è “keynesismo” senza controllo della moneta e del suo reddito​
3.6. Tra la memoria di Auriti e il progetto del MTT. Domande e dubbi sulle due esperienze più avanzate emerse nel dibattito italiano​
3.7. Una questione trasversale: i progetti di legge per il ripristino della sovranità monetaria. Il caso della 262/2005​
3.8. L’indubitabile esistenza del signoraggio​
Capitolo 4 - Banche, finanza, moneta: pagine di storia

4.1. Erodoto – I Cartaginesi e il “baratto muto"​
4.2. Bibbia, Corano e tradizione cristiana di fronte all’usura​
4.3. Due esempi della Roma antica: Giulio Cesare e Nerone​
4.4. Scontro sul controllo dell’emissione monetaria nella Repubblica di Venezia del XV e XVI secolo​
4.5. XVII secolo. L a Banca d’Inghilterra, il signoraggio “privato” e il debito: così le banche diventano “creditrici perpetue” degli Stati​
4.6. XIX secolo: come oggi, lo strapotere della finanza, delle banche e della speculazione sull’economia reale, sulla stampa, sulla politica​
4.7. Il dominio del capitale finanziario: anche il capitalismo inglese dell’Ottocento declina, sotto i suoi colpi​
4.8. Globalizzazione e balcanizzazione, conservatorismo e modernizzione: fino a che punto soltanto i primi termini sono sempre congruenti, effetto e funzione dell’azione del capitale finanziario?​
4.9. Maurice Allais: il signoraggio allo Stato, unica soluzione​
Capitolo 5 - Il “passo del gambero” di Karl Marx. Il capitale finanziario dalla centralità alla marginalizzazione. Le aporìe del III Libro de Il Capitale

5.1. Il giovane Marx e la convergenza tra borghesia produttiva e proletariato​
5.2. Il III Libro de Il Capitale: come e perché Marx marginalizza il capitale finanziario​
Capitolo 6 - Marx e Pound, liberali e socialisti, cristiani e musulmani:la trasversalità della questione del signoraggio

6.1. Il “signoraggio” e la cronologia dell’emissione monetaria in Italia​
6.2. La fine del “signoraggio” di Stato​
6.3. L’adesione all’eurosistema​
6.4. Titoli di Stato contro banconote: il debito aumenta​
6.5. Superare i tabù: la trasversalità della sovranità monetaria​
6.6. Marx e Pound​
6.7. Il problema del debito pubblico​
Capitolo 7 - Mezzo secolo di storia: Mattei e Madoff, dall’economia-progresso all’economia speculativa

7.1. Miraggi e inganni della “finanza creativa”​
7.2. Il ruolo degli intellettuali: storici, economisti, sociologi​
Capitolo 8 - Sindacato e Impresa, tra conflitto e alleanza conflittuale contro il capitale speculativo

8.1. Il debito​
8.2. Il signoraggio, ovvero il reddito da emissione monetaria, esiste: ecco le prove inconfutabili​
8.3. L’impresa che non c’è: questa Europa non va, va riformata da capo a piedi​
8.4. Il reddito da “Signoraggio” allo Stato per diffondere il lavoro dipendente e l’impresa​
Conclusioni

1. La moneta e la monetazione hanno un ruolo fondamentale nella Storia​
2. Il reddito da signoraggio non è un’invenzione dei “complottisti”, ma una realtà: esso esiste, sulla base del principio di logicità, delle dichiarazioni e delle ammissioni di studiosi e protagonisti del fenomeno, nonché delle numerose prove, a partire da quelle storiche dall’età antica fino a oggi​
3. Ripensare Marx e Braudel: capitale finanziario e signoraggio facitori di Storia​
4. Il signoraggio e il debito in Italia: la doppia monetazione dall’Unità ai governi Moro, la continuità tra Fascismo e Repubblica e la doppia usurpazione della sovranità monetaria dello Stato tra il 1992 e il 2000​
5. Il dibattito a vuoto sulle misure anticrisi, in base a due dogmi: il signoraggio privato e il debito. Per uscire dalla gabbia, bisogna rimettere in discussione l’usurpazione della sovranità monetaria e l’intangibilità del debito​
6. I sindacati e le banche: un assurdo tabù, che danneggia la buona causa del lavoro dipendente​
7. Le monete complementari, locali, regionali e le due eurozone possono essere utili, ma sono riforme monche e prive di effetti positivi, senza la riacquisizione del reddito da emissione monetaria da parte dello Stato​
8. La nuova declinazione del liberismo, nell’epoca del conflitto tra capitale finanziario e capitale produttivo: “libera impresa in Stato padrone dell’emissione monetaria”​
Appendice - I Trattati europei
1. I Trattati europei che hanno usurpato la sovranità monetaria italiana
2. La politica monetaria e la questione della sovranità monetaria nel Trattato di Maastricht
3. Il Trattato di Lisbona
4. Il Trattato di Stabilità
5. Cronologia

Bibliografia di riferimento​
Libri e saggi​
Articoli e web​
 

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