Damasco è già nel mirino (1 Viewer)

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Passato l'Iraq, avanti il prossimo...

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da Repubblica.it

Il conflitto può essere un afrodisiaco elettorale e Bush pensa già al voto del 2004.
dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI

WASHINGTON - Questa strana pace che somiglia a un interludio comincia a raccontare la storia di un'altra, possibile guerra. L'Iraq sembra già la prima pagina del giornale di ieri, spodestato oggi dal nome della prossima tessera che dovrà cadere nel domino mediorientale di Bush, la Siria.
Ha le armi chimiche, ci aveva informato il presidente con nonchalance, nella domenica della gioia per il ritorno dei prigionieri. "Sta commettendo gravi errori di giudizio" aveva rincalzato il suo ministro della guerra Rumsfeld, usando la stessa formula standard, "bad judgment", sempre utilizzata contro Saddam.
E ieri di nuovo il portavoce della Casa Bianca Fleischer e poi anche la "colomba ufficiale" e largamente decorativa di questa amministrazione, Powell, ha fatto disciplinatamente la propria parte, ricordandoci che "da lungo tempo la Siria è uno stato che sponsorizza il terrorismo".
Ritornano tutti gli ingredienti della ricetta Iraq: armi chimiche, complicità con il terrorismo, lunga storia di violazioni del diritto internazionale, complicità con i resti del regime di Bagdad.
Sarà lo stesso anche il prodotto finale?
Il vecchio Kissinger, preoccupato per il collasso del sistema di sicurezza occidentale e della Nato che lui invita Bush a "riparare", c'informa dalla rete tv di Murdoch che "non credo proprio che il presidente abbia voglia di lanciar subito un'altra guerra". Ma quest'improvvisa insistenza sulla minaccia siriana mentre ancora Bagdad brucia, il coro dei freschi conquistatori della Mesopotamia che tutti insieme si mettono a cantare il nuovo sparito prima ancora d'aver tirato il sipario sul primo atto, non è certamente casuale.
La voce della destra di guerra sul New York Times, William Safire, avverte che "la miglior difesa è l'attacco", citando il generale George Washington e l'autorevole ex mondiale dei pesi massimi Jack Dempsey, ma promette che Bush e Rumsfeld intendono "solo strizzare un po' la Siria", senza davvero invaderla.
Questo dovrebbe essere l'effetto terapeutico della guerra preventiva, abbatterne uno per intimidirne cento.
Vedete, indicano lui e i "Rumsfeld boys" padroni della scena, la dottrina funziona, la Corea del Nord s'è messa più tranquilla, l'Iran non s'è mosso, Sharon da Gerusalemme ammette l'ipotesi di demolire qualche insediamento in territori palestinesi.
Resta l'imbarazzo dell'"amico Vladimir", che faceva un po' di doppio gioco spionistico tra Blair, Bush e Berlusconi, ma la Siria di Assad, che si trova sotto la spada di 350mila soldati americani sulle soglie di casa, capirà "che deve collaborare con noi", dice Bush. Powell parla di possibili "sanzioni". Ecco un un altro ingrediente della ricotta.
La fretta d'incassare i dividendi dell'invasione dell'Iraq è evidente, ora che l'euforia militare ha già lasciato il passo al tedio e ai rischi di un'occupazione e diviene ogni giorni più difficile tener alta la tensione all'interno con la grancassa del patriottismo e delle prodezze strategiche.
Non c'è mai gloria in un posto di blocco, come purtroppo sanno i soldati d'Israele, e non ci saranno medaglie al valore per quegli stanchissimi marines e fanti che sono stati mandati subito a far la guardia al Ministero del petrolio a Bagdad, mentre al Comando centrale nessuno aveva pensato agli ospedali e ai musei, nonostante il massimo studioso americano di civiltà mesopotamiche, il professor McGuire Gibson dell'University of Chicago avesse più volte avvertito il Pentagono che quel museo sarebbe stato il primo obbiettivo dei saccheggiatori e dei contrabbandieri d'arte. La stentorea riscoperta del "rischio Siria" è un'operazione di guerra psicologica, una intelligente e cinica manovra per tenere viva l'ansia e canalizzarla su un altro bersaglio.
Nell'attesa che fioriscano la democrazia, la libertà e il benessere in Iraq, è bene per quest'amministrazione che gli sguardi si volgano altrove, sulla via di Damasco, che è l'obbiettivo più facile.
In Iraq, la ricerca e la scoperta delle armi biochimiche, come gli 8.500 litri di batterio antrace, sta andando a rilento, nonostante i camion laboratorio trovati ieri che potrrebbero essere almeno un indizio, se non una prova. I media danno segni di noia per una "war story" che non vende più.
I giornalisti non più embedded, "a letto" coi reparti al fronte, minacciano di riscoprire che sotto i trionfi del "boy soldier", come il biografo di Churchill, lo storico John Lukacs chiama Bush per il suo vezzo di fare da civile il saluto militare imitando Reagan e Clinton che non avevano mai indossato una divisa, ci sono quegli interessi che la retorica della "libertà per l'Iraq" aveva nascosto per un mese.
Sulla "money tree", l'albero della cuccagna iracheno, si stanno arrampicando le multinazionali Americane al seguito dei tank, avverte il New York Times, tutte attratte da quel preventivo di 100 miliardi di dollari stimati per la "ricostruzione" dell'Iraq. Corporations di finanziatori elettorali che stanno ottenendo succulenti contratti dal genio militare, senza bando d'asta, direttamente dalla Casa Bianca.
Occhi ben fissi sulla Siria, dunque, perché i riflettori comincino a spegnersi sull'occupazione dell'Iraq e perché la mobilitazione interna, i sondaggi e il patriottismo che hanno spinto Bush quasi ai livelli di suo padre dopo il Kuwait, restino alti e non producano quel collasso postbellico che costò proprio a Bush il vecchio la rielezione, contro Clinton.
La guerra, quando è o sembra vinta, è un formidabile afrodisiaco elettorale e l'effetto Iraq potrebbe non reggere nei 18 mesi che mancano alle presidenziali del novembre 2004.
Un altro "mostro a Damasco", la replica della tragedia Iraq senza necessariamente lo stesso finale cruento, potrebbe essere la soluzione ponte che da Bagdad riporterà Bush alla Casa Bianca. Sempre che non rimanga intrappolato, strada facendo, nelle sue stesse minacce.

(15 aprile 2003)
 

genesta

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... E, a proposito della posizione italiana ...

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