crollo del 19 ottobre 1987 (1 Viewer)

tontolina

Forumer storico
Formidabile quel crollo!
Il 19 ottobre 1987 resta una data da incorniciare per la storia della finanza. Quel giorno gli operatori di Wall Street subirono il più grande crollo borsistico di sempre, in una sola seduta. L’indice Dow Jones chiuse una seduta drammatica perdendo il 22,6% e trascinando nel ribasso le borse mondiali. Ebbene, cosa resta come lezione di quel crack? Sono passati 30 anni ma ben poco è cambiato, anzi.


La perdita fu superiore anche a quella storica dell’ottobre del 1929. Un incendio, che si propagò a tutte le Borse del mondo facendo crollare nel giro di 24 ore i listini di tutto il mondo.


In Italia l’effetto fu limitato (si fa per dire) a un –6%, ma nei mesi successivi Piazza Affari continuò a scendere e quell’evento segnò ufficialmente la fine del grande sogno di un moderno capitalismo finanziario italiano, simile a quello di altri Paesi occidentali.


Per capire perché l’indice Dow Jones perse 508 punti in una seduta, bruciando un milione di miliardi di lire (non c’era ancora l’euro) fu istituita negli Stati Uniti dal presidente Ronald Reagan una commissione che prese il nome dal presidente Nicholas Brady ma che (come quasi tutte le commissioni d’inchiesta) non arrivò ad alcuna conclusione degna di nota, salvo rilevare che il crollo fu causato da un eccesso di vendite e di spregiudicatezza dei grandi operatori finanziari.
“Ma pensa un po’” avrebbe commentato l’indimenticato Giorgio Gaber.


Fra le cause di quel crollo si possono oggi citare: il deficit pubblico americano, la bilancia commerciale e il rialzo dei tassi d’interesse operato dalla Germania nei giorni precedenti; inoltre, secondo i seguaci di Gann, pure una sfavorevole congiunzione astrale iniziata il 22 settembre 1987 con un’eclissi solare.
“Ma pensa un po’”, avrebbe ripetuto Gaber.


C’è però dell’altro: sul banco degli imputati compare infatti per la prima volta il “program trading” ovvero l’utilizzo dei computer programmati per effettuare automaticamente l’acquisto o la vendita di grandi quantità di azioni o future. Allo scopo di liquidare velocemente le azioni detenute in portafoglio diverse istituzioni vendettero, infatti, contratti future sugli indici azionari provocando poi una sorta di effetto a valanga in mercati finanziari non preparati ad accogliere così tanti ordini, sovrastimando in parole povere la liquidità.


In pratica come dissero gli economisti Brealey e Myers “la causa immediata del crollo dei prezzi del lunedì nero può essere paragonata a una mandria di elefanti che cerca di uscire dalla stessa porta”.


In realtà già da diverse settimane il mercato azionario americano subiva crescenti vendite dopo che Wall Street aveva visto dall’inizio degli anni ‘80 più che triplicare le quotazioni in un clima di euforia crescente.


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Nove mesi prima del crollo del 19 ottobre 1987 il grande economista John Kenneth Galbraith aveva scritto un articolo sulla rivista “The Atlantic” dove aveva ricordato come “niente dà l’illusione dell’intelligenza come il possesso di grandi somme di denaro” mettendo in evidenza come diverse delle condizioni che avevano portato al crollo del 1929 si stavano ricreando seppure “la storia non può ripetersi ma la dinamica della speculazione è spietatamente costante”.


C’è un film indimenticabile che ci ricorda l’atmosfera di quell’epoca. Quell’autunno 1987 sarà, infatti, ricordato per il film “Wall Street” che valse l’Oscar a Michael Douglas come miglior attore nei panni del cinico e avido finanziere Gordon Gekko.


"Non sono stato profetico: era già tutto intorno a noi. Il denaro era il sesso degli anni Ottanta" ha dichiarato Oliver Stone, regista di “Wall Street” girato proprio poco prima del crollo e che fornisce ancora oggi un grandioso affresco.


L’ispirazione per il soggetto era arrivata dalle cronache finanziarie dei primi casi clamorosi per l’epoca di insider trading (come Ivan “il Terribile” Boesky, lo zar delle scalate arrestato nel novembre 1986) ma anche dal padre di Oliver Stone che aveva vissuto (e sofferto) il periodo della Grande Depressione. La storia che si ripete.


Cosa è cambiato nel mondo della finanza dopo 30 anni? Quali furono le conseguenze di quel crash?

Chi aveva previsto il crollo borsistico dell’ottobre ’87 consigliando ai risparmiatori di uscire dall’azionario come l’analista finanziaria Elaine Garzarelli di Shearson Lehman, ebbe il suo momento di gloria mediatica mondiale. Dopo il crollo era lei la Cassandra che tutti volevano avere al loro fianco e la guru del secolo.


Peccato che il fondo d’investimento sotto la sua gestio in un altro già esistente pene (la cui raccolta balzò a 700 milioni di dollari) da fine ‘87 in poi iniziò una parabola fortemente discendente che si concluse nel 1994 con la fusione di questo fondo perché le masse erano scese a poco più un centinaio di milioni di dollari.


Terribili predizioni seguirono, infatti, alla crisi finanziaria del 1987 ma nulla di quanto previsto accadde.
Chi dopo il crollo vedeva solo nero fu deluso. Secondo i “gufi” il crash avrebbe causato una lunga recessione, forse anche una depressione come quella seguita alla crisi del ’29; la crescita dell’occupazione si sarebbe arrestata; il tasso di disoccupazione sarebbe aumentato rapidamente. E per l’economia, in generale, sarebbe stato un disastro come spiegava all’epoca un altro famoso guru dell’Apocalisse, Ravi Batra, economista di origine indiana.

Non ci fu invece nessuna crisi economica successiva o crisi di liquidità del sistema bancario anche perché la Fed seppe allora tutto sommato maneggiare bene la situazione, immettendo liquidità sul mercato ma senza esagerare.


Riguardare indietro quello che è accaduto 30 anni fa provoca quindi una strana sensazione.
Altre crisi finanziarie e crolli si sono poi succeduti ma anche rialzi sensazionali se si guarda soprattutto l’andamento di Wall Street (decuplicata come valore degli indici), seppure nemmeno l’indice tedesco Dax sfigura nel confronto.

Alcuni mercati azionari si sono quasi totalmente sgonfiati rispetto al 1987 come quello giapponese dove l’indice Nikkei è passato da quota 38.597 del dicembre 1999 ai 21.000 attuali con la banca centrale giapponese (Boj) da anni impegnata a far tutto per sostenerne e rilanciarne i corsi, acquistando pure massicciamente le azioni giapponesi che compongono l’indice.

La Borsa italiana che sembrava destinata secondo i cantori dell’epoca al secondo miracolo economico italiano 1985-1995 è rimasta invece un catino in confronto a quelle di altri Paesi.

Un’illusione che era nata con la nascita nel 1984 dei fondi comuni d’investimento e il boom della raccolta, la ripresa economica e industriale, la voglia di mercato, un socialista “giovane”, Bettino Craxi (che arrivava dopo un ennesimo governo Fanfani) alla presidenza del Consiglio e che aveva portato Piazza Affari nel 1985 a raddoppiare le quotazioni e creare un clima di euforia da “panino e listino”. Senza fare i conti però con la fragilità e la “furbizia” del sistema capitalistico italiano che aveva approfittato del boom borsistico per tosare in tutti i modi i risparmiatori come racconterà qualche anno dopo Marco Borsa nel saggio “Capitani di Sventura”. Un “vizietto” difficile da estirpare.



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Basti pensare che come rendimenti nell’ultimo trentennio chi ha investito in debito (BTP) ha ottenuto rendimenti superiori di chi ha investito in azioni italiane in modo passivo soprattutto se l’ha fatto affidandosi agli “esperti” dei fondi comuni.

A riguardare indietro di 30 anni quell’Italia viene quasi una sorta di nostalgia per quell’epoca ma le insidie, le trappole e gli episodi di banditismo finanziario (oltre 700 mila risparmiatori rimasero coinvolti solo nello scandalo dei titoli “atipici”) va detto che non erano inferiori a quelle dei tempi presenti.
Il risparmiatore oggi come allora in Italia non deve fidarsi ciecamente di nessuno e soprattutto dei “conosciuti” come la banca sotto casa o il consulente finanziario d’assalto.

Oggi certo non ci sono più i borsini, le quotazioni le guardiamo pure sul telefonino e per acquistare o vendere un titolo basta un clic.

Allora si negoziavano le azioni pagando il 7 per mille ovvero 0,7% e acquistare titoli esteri era praticamente cosa quasi impossibile tanto era complicato e costoso.

Allora il debito pubblico italiano era di 400 milioni di euro e sembrava già insostenibile e “spaventoso” perché il rapporto debito/Pil aveva superato quota 80% e si parlava già allora di tagli alla spesa pubblica ma almeno il termine “spending review” ce lo risparmiavano.
Oggi il debito pubblico è di 2,3 miliardi (5 volte più elevato) ed è pari al 133% del Prodotto Interno Lordo annuale.

Su “La Stampa” del 18 ottobre 1987 il giorno prima del crollo di Wall Street si parlava in prima pagina delle divisioni della sinistra e delle polemiche allora fra Achille Occhetto e un certo Massimo D’Alema e poi della giustizia “lumaca” in Italia e della responsabilità civile dei magistrati.
Allora si aspettava il “secondo miracolo economico italiano” grazie ai Fondi Comuni d’Investimento, alle Aziende (1000 dovevano quotarsi in Borsa secondo uno studio di IMI) e ai Risparmiatori. Il Pil italiano saliva dal 3 al 4% all’anno ed eravamo in pieno “edonismo reganiano” per dirla con Roberto D’Agostino del tempo di “Quelli della Notte”, molto prima di Dagospia.

Qualcosa non deve aver funzionato a dovere perché “O’ Miracolo” non si è propriamente realizzato e molti Risparmiatori sono rimasti il “parco buoi” (si definiva all’epoca così l’insieme dei risparmiatori destinati a perdere sistematicamente i loro soldi) a cui rifilare di tutto e di più. Ma non si definiscono più così e gli addetti ai lavori oggi li chiamano il “retail”.

Cambiare tutto per cambiare nulla.


Salvatore Gaziano - Strategist SoldiExpert.com

Tratto da ITFORUM NEWS, clicca qui per leggere gli altri articoli:
 

tontolina

Forumer storico
Ora che abbiamo commemorato a sufficienza il 30esimo anniversario del Lunedì Nero del 1987, forse possiamo iniziare a lavorare alla celebrazione di quasi nove anni di bull market: ce ne chiederanno conto figli e nipoti nei lustri a venire, quando questa straordinaria generazione sistematica di plusvalenze conoscerà degna documentazione. Il momento per tirare le somme, evidentemente, non deve essere ancora giunto: non si vedono neanche più i cappellini celebrativi con le cifre tonde raggiunte dal Dow Jones; e sì che la circostanza, soltanto nell'ultimo anno, è stata conseguita ben cinque volte.

Che noia, questo Toro, sempre simile a sé stesso. Al ritmo corrente, quest'anno lo S&P500 migliorerà i massimi storici ben 61 volte: nel ranking storico collocandosi provvisoriamente al terzo posto, dopo il 1964 (65 volte) e il 1995 (77 volte): due anni su cui ci siamo soffermati diverse volte, vista la loro somiglianza con il 2017 in termini di volatilità. Ciò che ad alcuni investitori sfugge, è che i ribassi che fanno male tendono a manifestarsi lontani dai massimi (storici): dal 1950 si contano per lo S&P 43 cali giornalieri di entità superiore al 4%; ebbene, soltanto cinque di essi sono stati sperimentati a distanza inferiore al 5% dai massimi di periodo.

I fattori macro confortano.
La scorsa settimana è stato registrato un nuovo minimo nel numero di richieste di sussidi settimanali di disoccupazione. La circostanza incoraggia non poco, perché la media a 5 settimane del dato grezzo è tornata al di sotto della media mobile di lungo periodo; mantenendo in essere una tendenza che ci accompagna dal 2009, e che coincide con la tendenza positiva del mercato azionario. Non a caso questo è un degli elementi del "dodecalogo" del bull market, che da otto anni è fermo nel persuadere gli investitori circa il mantenimento di una impostazione che ha prodotto succosi frutti.

Nota. Il presente commento è un estratto sintetico del Rapporto Giornaliero, pubblicato tutti i giorni entro le 8.20 da AGE Italia; pertanto eventuali riferimenti a studi tecnici vanno intesi riferiti ai grafici ivi riportati.
 

tontolina

Forumer storico
Valutation Confidence Index preannuncia il crollo dei mercati azionari?
Le attese per gli indici americani

Il Valutation Confidence Index preannuncia il crollo dei mercati azionari? Le attese per gli indici americani - Proiezioni di Borsa


Su questo sito più volte abbiamo scritto dei pericoli che incombono sui mercati azionari (Quali sono le condizioni per un tracollo dei mercati finanziari? Un approccio statistico, quantitativo e macro-economico, I mercati americani attratti dal “limite invalicabile” viaggiano verso l’inversione di tendenza, L’euforia può far male? La tempesta perfetta sta per abbattersi sui mercati finanziari. La view fino a fine 2018.).

Oggi aggiungiamo un altro tassello al quadro globale.

Ricordiamo sempre, però, che gli indizi devono servire per aumentare il livello di allerta non per definire le strategie di investimento. Queste ultime vanno definite solo guardando l’andamento reale dei mercati e i messaggi che ci arrivano dai grafici.

Lo spunto per il nuovo tassello ci è arrivato da un articolo de IlSolo24Ore (Shiller e gli indici che fiutano le “bolle” finanziarie) dove si scrive

Nel 2013 Robert Shiller ha vinto il Nobel per le sue analisi sui prezzi delle azioni. Una vita di studi e una lunga lista di pubblicazioni dedicate a capire eccessi, irrazionalità degli investitori e “bolle” finanziarie. Proprio un indicatore elaborato da Shiller, il CAPE ratio (cyclically adjusted price to earnings ratio) è utilizzato per capire se un titolo è caro, correntemente prezzato oppure a sconto. Per questa ragione lo Shiller Index si è guadagnato una buona fama di “previsore” degli andamenti dei mercati.

Il valutation confidence index Il professor Shiller di recente (come è emerso da un’ intervista alla testata on line “Quartz”) ha però spostato l’attenzione su un altro indicatore di sua creazione: il valutation confidence index. «Questo indice non viene generalmente preso molto in considerazione ma è un errore» – ha spiegato Shiller «perché negli anni si è dimostrato altrettanto se non più affidabile». In sostanza, si tratta di un indice che misura quello che gli investitori sia istituzionali sia individuali pensano di un listino. Se sono convinti che sia sopravvalutato o che non lo sia, indipendentemente dai dati forniti dagli indicatori “ufficiali” e in questo momento fotografa una forte sfiducia sulle valutazioni della borsa statunitense.
Le indicazioni che arrivano dall’indice. L’indice è in calo costante dal 2015 e l’unico momento in cui il valutation confidence index toccò un valore più basso fu nel 2000, poco prima delle scoppio della bolla delle dot.com. E’ una fase particolarmente complicata per capire dimensione e diffusione di vere o presunte bolle poiché negli ultimi anni le banche centrali hanno inondato i mercati di liquidità creando condizioni ottimali per la proliferazione di ipervalutazioni su asset di varie natura. Monete digitali, alcuni mercati immobiliari e le cosiddette FAANG (Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google) sono tra i principali indiziati. In generale ci sono crescenti timori sulle valutazioni azionarie a cominciare dai listini Usa, soprattutto in vista del progressivo ritiro delle misure di sostegno annunciato o da poco avviato da parte delle principali banche centrali.


Il grafico del Valutation Confidence Index è disponibile al seguente link.

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Notiamo immediatamente come un importante minimo sia stato raggiunto prima della bolla dot.com.

Si consiglia, quindi, prudenza.

Ma quali sono le attese secondo le analisi di Proiezionidiborsa?
Iniziamo col riportate il frattale previsionale costruito utilizzando le serie storiche (Il codice dei mercati finanziari). Notiamo come dopo una prima parte dell’anno in cui l’andamento è stato riprodotto in maniera eccezionale, nelle ultime settimane c’è una discrasia tra previsione e realtà. La cosa importante da ricordare è che non siamo ancora fuori dal periodo in cui ci possa essere profondi e repentini ribassi.

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Dal punto di vista delle proiezioni (non previsioni) sul S&P500 è in corso una proiezione rialzista che ormai non ha più ostacoli sul cammino che porta al III° obiettivo naturale in area 2558. Al raggiungimento di tale livello bisognerà alzare ancora di più la guardia.

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